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Domenico Tagliente/La mia moda suona il rock

Pubblicato da: Categoria: COVER

14
FEB
2014
Due dita rotte facendo paracadutismo hanno decretato la fine della sua carriera da musicista e l’inizio di quella da stilista. E se non tutto i mali vengono per nuocere, lui ha cavalcato la tigre diventando un esponente di punta del miglior Made in Italy
 
Quando gli chiedo di descriversi con una parola, prima di rispondermi, mi spiazza con qualche istante di silenzio, poi confessa che la mia è una curiosità a cui lui non ha mai pensato. Capisco subito dopo il perché: Domenico Tagliente è una persona che non ama stare sotto i riflettori, che parla poco di sé, che è unicamente proiettata nel suo lavoro, senza troppi protagonismi. La sua riservatezza, specchio di una grande professionalità, l’avevo già captata mentre veleggiavo sul web alla ricerca di quante più informazioni possibili che lo riguardassero: nessuna intervista, poche apparizioni, a dominare i giornali sono solo le sue collezioni. Riesco a ottenere la possibilità di intervistarlo solo grazie alla mediazione di un amico a lui molto vicino, così mi presento nel suo studio e lo incastro (spero che mi abbia perdonata)  per più di un’ora in un susseguirsi di domande e risposte che fluiscono spedite tra funambolici ricordi ed emozioni sempre più forti. L’indole ribelle sin da ragazzino, la musica, l’estro creativo e quel pizzico di follia che lo faranno volare lontano tra paesi diversi e distanti, sulle note di Miles Davis. È un concentrato unico di energia Tagliente, forse la stessa che scorre nella sua anima rock, la stessa che detta le linee delle sue creazioni: capi che accendono il corpo maschile con tessuti ricercati, lavorazioni rifinite nei dettagli più microscopici, forme e colori che osano e cavalcano l’onda grigia della quotidianità: l’uomo che sa quello che vuole e che proprio come il suo stilista non ha paura di prenderselo.
Domenico Tagliente, mi dica un aggettivo con il quale si descriverebbe.
«Sa che è una cosa a cui non ho mai pensato? Sicuramente sono molto pignolo e preciso, seguo tutte le mie creazioni dall’inizio alla fine, curando ogni dettaglio, per me esiste o il bianco o il nero. Si starà chiedendo il perché di una collezione così colorata, glielo anticipo io: voglio trasmettere energia, positività. Viviamo in un’atmosfera troppo negativa, carica di tensione, per questo sento la necessità di dover andare controcorrente. Voglio dare un po’ di colore e profumo a questa ‘bella Italia’. Spero di farcela». 
Secondo le informazioni che ho letto su di lei, invece, viene descritto in tre modi: chitarrista, fashion designer e uomo italiano. Partiamo dalla definizione più curiosa, chi è il chitarrista?
«Il mio vero amore. Se ti guardi intorno tutto parla di musica. Si tratta di una passione che mi appartiene sin da bambino, ho girato l’Europa del Nord suonando con la mia band. Ero il leader, quello che curava il look e andava alla ricerca delle stoffe giuste. Ero un chitarrista che sapeva ciò che voleva. Nonostante la musica, però, lavoravo anche nella bottega di un sarto, perché all’epoca non bastava la scuola, ma era necessario che ogni ragazzino imparasse un mestiere. Un mestiere che a quei tempi sentivo un po’ forzato e che volevo abbandonare per inseguire la musica. Tuttavia, a distanza di molto anni, mi ruppi due dita facendo paracadutismo e non potendo più suonare bene la chitarra mi trovai nuovamente davanti a una scelta: ancora una volta il bianco o il nero. Non volevo essere il numero uno, ma nemmeno il numero due, così preso dalla rabbia, smisi di suonare e ripresi a disegnare, riallacciando quel legame con il mondo della sartoria, messo temporaneamente in standby.  Aprì un piccolo laboratorio e così iniziò la mia storia, fatta di stoffe e tessuti». 
Quindi nasce da qui il fashion designer?
«Sì, nasce lo stilista, ma sempre alimentandosi della passione per la musica. Tuttora, anche se non suono più, continuo a comprare e collezionare strumenti musicali. La stessa precisione che avevo quando suonavo, adesso la riverso nel mio lavoro: con i nuovi fit non c’è solo da coprire un corpo, ma bisogna rivestirlo come una seconda pelle. Per questo è necessario tanto lavoro volto alla ricerca dei materiali giusti, di tessuti nuovi che si adattino alle nuove generazioni, perché i corpi sono cambiati e bisogna costantemente aggiornarsi per innovarsi. È un lavoro che ormai fa parte di me».
Possiamo dire che la musica è rimasta la sua musa ispiratrice.
«Certo, parte tutto da lì. Se chiudi gli occhi per un istante, sentirai una bella musica e inizierai a sognare: io sogno tessuti e nuove idee che scatenano la mia creatività». 
Arriviamo alla terza definizione, alludendo allegoricamente alla decisione fare del made in Italy il marchio delle sue collezioni. Quando diventa “uomo italiano”?
«Per parecchio tempo sono stato lontano dal mio paese. Amo talmente tanto il mio lavoro che per condurlo al meglio, rispettando i canoni della sartoria, sono stato a lungo dall’altra parte del mondo. Ho trascurato un po’ la mia famiglia e i miei figli sono cresciuti con un padre distante, però a un certo punto è scattato qualcosa, come se avessi sentito il richiamo delle mie radici nel momento del bisogno. Ecco perché sono tornato a produrre il made in Italy, sperando di creare nuovi posti di lavoro e di apportare il mio contributo a questa ‘bella Italia’ ».
Da quanto tempo è di nuovo in Italia?
«Sono tornato in Italia da circa un anno e devo ammettere, anche con grande successo. Mi aspettavo meno di ciò che ho ricavato e questa è il premio per chi mette l’anima nel suo lavoro, senza pensare solo al guadagno. Quando fai tutto con amore e la gente percepisce le tue emozioni, leggendo in ogni capo una storia nuova, allora puoi sentirti soddisfatto. Investendo in  ricerca, innovazione, studio e  con tanti sacrifici, adesso produco più dell’80% in Italia, anche se uno dei  problemi è la mancanza di  manodopera qualificata». 
Mancano le competenze o la volontà?
«Questa è una cosa che devo ancora capire bene. Non ho mai avuto problemi di vendita, ma solo di produzione, infatti è per questo che quindici anni fa decisi di andarmene: vendevo, ma avevo grosse difficoltà a produrre e a distanza di anni la situazione non è migliorata tanto. In questo lavoro ci sono dei tempi da rispettare, perciò se c’è una consegna o un Pitti in programma, dobbiamo assolutamente osservare dei ritmi precisi di lavoro».
La prima collezione che inaugura il suo successo è la “New Collection”.
«Sì, è stata la primissima collezione, proprio quando finì di suonare. Creai una moda un po’ strana e il mercato la recepì all’istante, perché avevo colto ciò che mancava».
Parla di una moda strana: a cosa si riferisce precisamente?
«Sì, strana, un pò “gatsby”. Ho cambiato un po’ il modo di vestire, connotandolo di un pizzico di spregiudicatezza e libertà: all’epoca ci si vestiva sempre con la solita giacca di panno dai colori seriosi, tipo il bordeaux e il verde muffa, io invece iniziai a creare giacche strane che non avevano regole, c’erano ricami, fiori, colori nuovi ed è stato proprio questo a premiarmi. Ho vissuto i tempi degli hippie, i figli dei fiori, e ho cercato di raccontare la loro storia avendo come  ispirazione sempre la musica. Non erano gli stilisti a fare la moda, ma le band. Erano i tempi dei Beatles, dei Rolling Stones, dei Pink Floyd, gruppi che sfoggiavano stili bizzarri e stravaganti che in poco tempo diventavano un diktat. Noi non stiamo facendo altro che riprendere quella storia, rivisitandola nei tessuti e nei materiali». 
Dopo il grande esordio, quali sono le altre collezioni a cui si è dedicato?
«Fino a tre anni fa ho disegnato per undici brand molto più famosi del mio, non solo italiani, ma anche stranieri. Decoy e Domenico Tagliente sono le mie ultime collezioni. In Decoy c’è il mio maestro, il mio insegnate di vita. (Si alza e prende un bellissimo disco in vinile, un 33 giri, esposto trionfante come un pezzo d’antiquariato. N.d.R.) Decoy è un album di Miles Davis rimasto per sempre nella mia anima: ispirandomi alla sua musica, prima scrivevo canzoni, adesso disegno gli abiti che propongo in passerella e nelle sfilate, non è cambiato nulla».
Quando si arriva a livelli così alti è più facile voltarsi e guardare al passato o rimanere proiettati verso il futuro?
«Io non guardo mai al passato, vedo solo ciò che voglio raggiungere. Anche quando creo, dopo aver finito i miei lavori non mi volto mai per rivederli, ma comincio subito a lavorare per qualcosa di nuovo, infatti, in questo periodo sto lavorando per i prodotti che andranno nei nuovi negozi che stiamo per aprire in Spagna. È vero che c’è la crisi, ma se uno ha voglia di fare non è tutto perduto: se ci limitiamo a produrre sempre gli stessi modelli, non possiamo stare al passo con i tempi. Avendo delle aziende dall’altra parte del mondo, sono costretto a viaggiare tantissimo e questo mi dà la possibilità di confrontarmi con gli altri Paesi. Quando poi ritorno in Italia, mi si chiude il cuore, perché mi sembra di vedere tutto così piccolo: siamo una piccola bomboniera rispetto alle altre realtà, eppure potremmo fare molto di più. A volte rimaniamo bloccati in sistemi stereotipati e ci precludiamo la possibilità di provare qualcosa di nuovo. In questo settore bisogna osare, innovarsi, altrimenti rimaniamo tutti uguali. Non bisogna avere regole». 
Per quanto riguarda i consumi, anche nel settore della moda si registrano dei cali?
«Non c’è solo il calo di consumi, ma anche una selezione, la gente è molto più attenta a ciò che acquista, comparando prezzo e qualità. Un buon prodotto si realizza grazie a tanta esperienza: attraverso i miei viaggi ho scoperto nuovi mondi e ho creato una linea che può vestire sia l’asiatico che l’europeo, dato che stiamo per aprire molti negozi anche in Asia. Inoltre, stiamo studiando anche le vestibilità dei drop, in modo tale che i nostri capi possano essere indossati anche da chi possiede diversi tipi di fisicità».  
Perché non valuta l’idea di dedicarsi anche alla donna?
«Perché non vieni al Pitti a giugno? Probabilmente scoprirai qualcosa in più. Non sarebbe la prima volta, perché ho già creato delle linee femminili, anche per altre aziende a Roma. C’è un punto interrogativo: è un’idea che stiamo valutando».
La prendo in parola! Tuttavia, la donna richiederebbe un lavoro molto diverso rispetto all’uomo?
«Penso che non ci sia nessuna differenza tra l’uomo e la donna. Il mantra è lo stesso: noi vestiamo l’uomo che sa quello che vuole e ritrova la sua personalità nei nostri fit. Un uomo deciso, sicuro: cosa cambia per la donna? Nulla, anzi mi spiace dirlo, ma ammetto di riconoscere una marcia in più nel genere femminile. Non ci sono degli standard da seguire, ognuno deve essere libero di scegliere il look nel quale può riconoscersi e il nostro compito è quello di rinnovarsi per offrire sempre nuove proposte. Lo diceva Miles Davis: “non suonare quello che c’è, ma suona quello che non c’è!”».
Al termine dell’intervista, quando ho avuto la possibilità di guardare da vicino gli abiti delle  collezioni e di visitare ogni angolo di un’azienda vastissima, ho percepito in maniera ancora più evidente la passione che anima Domenico Tagliente: è quella che illumina il suo sguardo mentre racconta le fasi di creazione dei suoi capi, quella che scorre tra le sue mani mentre maneggia abilmente giacche, maglie e pantaloni, mentre sfoglia volumi pregiati che raccontano la storia della moda. È quella che mi ha regalato una carica immensa di adrenalina e la consapevolezza che si può ancora vivere e lavorare emozionandosi. 
 



Commenti:

Ionela 8/MAR/2014

Brava

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