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FABRIZIO MARGIOTTA/ Il mio mondo nascosto

Pubblicato da: Categoria: COVER

19
GIU
2015
Aspirante regista e fotografo di talento, il giovane artista martinese si racconta. Dalla passione per i western di Sergio Leone, coltivata da bambino, agli studi di Cinecittà; il tutto condito dalla magia di uno scatto, immerso nella “grande bellezza” di Roma
 
 
Classe 1991 e tanti sogni, raccontati dietro un obiettivo. Fabrizio Margiotta ci racconta dell’infanzia cullata dalle meraviglie paesaggistiche della Valle d’Itria, alla vita da studente a Roma, ricercando sempre nuove ispirazioni, sulle orme dei grandi del cinema mondiale. Un giovane dall’intelligenza e sensibilità tutt’altro che scontati per la sua generazione, che scrive giorno per giorno il suo diario di bordo, imbracciando una macchina fotografica e condividendo emozioni e attimi con lo spettatore.
 
Fabrizio, c’è stato un evento in particolare che ha scatenato in te il sacro fuoco della fotografia?
«In realtà io non nasco fotografo, perché ho studiato cinema a Roma negli studi di Cinecittà e continuo a farlo, essendo un laureando in Arti e Scienze dello Spettacolo, alla Sapienza. La fotografia è una bellissima conseguenza della mia passione per il cinema, ereditata dai miei genitori. Ricordo che quando avevo 9 o 10 anni, mio padre mi fece vedere per la prima volta, Il buono, il brutto e il cattivo, e fu così che molto colpito da questa pellicola, diventai un fan di Sergio Leone e del genere western. Volevo diventare Sergio Leone e da qui il mio sogno di studiare e affermarmi come regista. Mia madre, in seguito, mi fece vedere Psyco di Hitchcock e il mio interesse verso i grandi del cinema di quell’epoca, crebbe sempre di più. Dopo la macchina da presa, ho sentito il bisogno di imbracciare una macchina fotografica ed eccomi qui, immerso in un mondo di immagini. Cinema e fotografia sono secondo me universi che si avvicinano e si allontanano allo stesso tempo, ma che unitamente fanno esplodere la potenza evocatica dell’immagine». 
C’è un artista della fotografia italiano o straniero, a cui ti ispiri nei tuoi lavori?
«No, non direi. Amo artisti per eccellenza come Caravaggio, Michelangelo e Leonardo che fortunatamente posso ammirare a Roma, dove vivo. Non è corretto dire che nei miei scatti io mi ispiri a loro, ma sicuramente trovo per esempio, le opere di Caravaggio magnetiche. Genio delle luci e delle ombre, rendeva più che mai cinematografici i suoi quadri. In effetti, anche nelle tematiche sacre, nelle opere di Caravaggio non viene rappresentato il divino, ma il quotidiano. Lampi vividi e a tratti sconcertanti, di quotidianità. Quasi come uno scatto fotografico, in effetti…». 
Prediligi catturare nel tuo obiettivo natura o soggetti, e che modello di macchina fotografica usi?
«Fotografo di tutto, ma sicuramente mi appassiona “cristallizzare”, volti. La luce di uno sguardo, l’intensità di una ruga o la rotondità di uno zigomo, adoro “catturare” tutto questo. In particolare, amo ritrarre persone appartenenti a ceti sociali, diciamo non proprio fortunati. Ecco, infatti, che osservando i senzatetto nella mia Roma notturna, colgo immagini uniche. Immagini che raccontano una storia, come questa: passeggiando in zona Termini una notte, mi accorgo di un clochard che rovistando in un cesto della spazzatura, tira fuori un pezzo di pollo e invece di tenerlo per sé, lo porge al suo cucciolo. Il cane, una piccola palla di pelo arruffata e sporca, gli rivolge la sua gratitudine scodinzolando e l’uomo gli dà un bacio sul nasino. Scene apparentemente di poca importanza o comuni, ma che per me hanno un valore e così decido di immortalarle. Nei miei lavori mi servo di una  Canon 5d  (digitale) e di una Canon AE-1 (analogica), proprio per non dimenticare che oltre al digitale padre dei nostri tempi e della nostra generazione, esiste anche la cara vecchia pellicola!».
 
Molto intense e raffinate, sono alcune tue foto che ritraggono donne, quasi sempre in bianco e nero. Come mai per te il corpo femminile è così importante, e perché l’eleganza della donna rispetto ad altri soggetti, colpisce maggiormente lo spettatore?
«Per rispondere a questa domanda, devo fare una piccola premessa: io sono originario del Brasile, precisamente di Braganza e sono stato adottato molto piccolo. Ricordo che le prime braccia a cingermi con amore, furono quelle di mia nonna, giunta con i miei genitori e la mia tata all’istituto. Sono stato amato da entrambi i miei genitori, ma posso dire senza recriminare nulla ovviamente di essere stato circondato più da donne, nella mia infanzia. Ecco il mio amore per loro e il mio grande rispetto, nato anche da una lettura che mia madre mi consigliò: Tanto gentile e tanto onesta pare, meraviglioso sonetto di un certo Dante… Quei versi mi hanno colpito perché ne traspare la visione pulita, eterea della donna e della sua bellezza in senso globale. Il cinema ha impresso solo la bellezza esteriore della donna, ma la sua anima, il suo calore, quelli no. E ora con Facebook dove possiamo con un click cambiare immagine, nome e mentire sulla nostra identità, viene a decadere la poesia, l’idea di un corpo. Sia che si tratti di un volto o di un nudo, è per me importante fotografare l’attimo in cui viene espressa la vera essenza del soggetto. Mi piace ritrarre in questo modo perché amo l’identità. Quando Pasolini riprende con la sua macchina da presa Maria Callas in Medea, sta facendo contemplare allo spettatore una donna, non un essere mitico o inanimato. L’anima è eterna ed ecco perché preferisco lavorare col bianco e nero, perché il colore fa parte della mortalità. Il bianco e nero rende immortale un viso, una mano, un piede e comunica la grazia nella memoria di chi guarda».
 
Tu oggi Fabrizio, studi e vivi a Roma. Di cosa ti occupi esattamente e come la musa capitolina, se sì, ti ha accolto come artista?
«Studiando regia come le dicevo prima, a Cinecittà mi si è aperto un universo. Ho avuto la possibilità di visitare i set di pellicole secolari come Gangs of New York di Scorsese o The Passion di Mel Gibson. Ho avuto l’onore di apprendere da grandi che a loro volta, hanno respirato altri grandi a stretto contatto, come Giuseppe Lanci che fu assistente operatore in "Porcile" di Pier Paolo Pasolini. Mi sento molto vicino alla figura di Pasolini, trovo in lui qualcosa di mio. Lui ha reso l’essenza della Roma di quegli anni, soprattutto in Accattone, mostrando alla società perbenista una Roma selvaggia. Il Pigneto poi, assumeva le sembianze di una baraccopoli africana… Parliamo di registi che vedevano qualcosa che andava oltre, vedevano oltre e altro di una capitale che tutt’oggi è sinonimo di degrado, di emarginazione sociale. Roma mi ha accolto bene sì, e mi ha fatto dono delle sue meraviglie, della contrapposizione fra il traffico caotico della mattina e le ore desertiche della notte, in cui appare anche una cittadinanza di altro tipo… È bellissimo ascoltare in remote osterie i vecchietti che discutono della partita di calcio; osservo queste scene, ne vengo attratto e decido di premere il pulsante di scatto della mia Canon».
 
 
 
Attualmente sei impegnato in qualche progetto o mostra?
«Ho un gruppo di amici e collaboratori con cui sto curando un progetto, sì. Stiamo cercando infatti, di scrivere una sceneggiatura sul mondo nascosto degli anfratti romani, quelli delle osterie di cui parlavo prima, quelli insomma lontani dalle luci della ribalta e della ricchezza».
 
Pensi di tornare un giorno a Martina Franca? E se sì, ha mai desiderato magari di dedicarti all’insegnamento e trasmettere quindi le tue conoscenze, le tue nuove esperienze ai giovani della tua città?
«A Roma, in un locale nel quartiere Pigneto, io e il mio gruppo stavamo organizzando un vero e proprio cineforum con l’intento di proiettare dei film e discuterne poi con gli studenti. Purtroppo l’idea si è arenata per problemi logistici, ma non escludo di riproporla un domani a Martina Franca. La mia città è stata la prima meraviglia paesaggistica che ho conosciuto, a “lei” devo molto della mia formazione interiore. Da bambino sono stato sempre abituato a viaggiare e anzi, la mia educazione si è fondata sul valore del viaggio grazie ai miei genitori e alla mia tata, persona a me carissima e che è stata la prima ad instillare in me il germe della curiosità. Con lei ho iniziato a visitare la Valle d’Itria e pian piano, crescendo, ho iniziato a camminare per il mondo in maniera autonoma, ma sempre con uno sguardo pieno di interesse e meraviglia».
 
Esiste quindi un luogo in particolare che ti piacerebbe ritrarre nelle tue foto?
«Avendo parte della mia famiglia in Emilia Romagna, adoro fare lunghe passeggiate in moto, godendomi i tramonti sui colli di Bologna. È un momento che mi è molto caro, perché amo in genere i luoghi poco affollati. Credo che un essere umano abbia in determinati momenti il bisogno del silenzio e io spesso lo ricerco. Lo spettacolo di quel luogo,  la pace che sento in me a livello spirituale quando lo contemplo, mi fa venire proprio voglia di fermarlo nella memoria di uno scatto».
 
Per concludere, in che modo la fotografia esprime il vero te?
«Credo di essere un vero e proprio feticista della macchina da presa e di quella fotografica! Non so come spiegarlo, ma provo piacere mentre produco uno scatto. È un momento di alta passione, che si avvicina al sentimento che si prova nel fare l’amore. Mi sento bene mentre scatto una foto, ed è questa mia profonda sensazione di benessere che voglio comunicare agli altri. Il mio sentirmi in pace, fissato nel tempo grazie a un obiettivo. Penso che sia corretto dire che sono un “amante” dell’arte, nel senso più pieno e completo del termine».
 


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