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Le due facce della Puglia

Pubblicato da: Categoria: COVER

29
SET
2016
Chi è Leonardo Palmisano?
«Uno che non le manda a dire, tanto per cominciare. Uno che preferisce fare delle scelte ragionevoli, avendo intuito la follia imperante in Italia. Uno che non se la fa con i criminali, che non li tollera, che li vorrebbe fuori dal tessuto economico e politico. Uno come tanti, insomma (?!, ndr)...».
 
Nel 2015 è stato pubblicato il libro “Ghetto Italia” (Fandango), scritto con Yvan Sagnet (uno dei protagonisti nel 2011 della grande protesta di Nardò). Se dovessi spiegare a dei bambini cosa è il caporalato, cosa sono i ghetti, come li presenteresti?
«Li farei giocare. L’ho fatto recentemente a Polignano. Ho inscenato un gioco di ruolo con dei bambini di sei, sette anni dei quali uno faceva il caporale. Alla fine s’è trovato con un pugno di biscotti senza aver lavorato, mentre gli altri, che facevano i braccianti di un ghetto, a malapena avevano delle briciole con cui sfamarsi. È stato divertentissimo assistere alla spontanea ribellione di tutti gli altri bambini. Sono creature già piene di democrazia, a differenza degli adulti. Perché si sentono pari, non diversi l’uno dall’altro. Perché giocano tra pari. Il problema della differenza ce lo creiamo noi adulti».
 
Avete ricevuto il XXII Premio Internazionale Livatino 2016 per il vostro impegno nella lotta alla mafia. Che volto ha questa mafia chiamata “caporalato”?
«Ha due volti: quello cattivo del caporale e quello benevolo, nascosto ma altrettanto criminale, dell’impresa che se ne serve. Sono un tutt’uno, caporalato e impresa. Sono un Giano bifronte, un mostro a due teste, un nuovo sistema criminale nazionale che dall’agricoltura si sposta in altri settori come la logistica e i trasporti».
 
Cosa ti ha impressionato di più nel corso del tuo viaggio tra i ghetti?
«La puzza. Una puzza che ti si appiccica addosso. Non è quella  della fatica, ma della disumanità. La puzza delle latrine, del sudore, della pelle arrostita, del cibo immangiabile, della malattia che cova dentro ogni centimetro quadrato di ghetto. La puzza insopportabile della schiavitù e della prigionia».
 
Sul tuo sito, ricco di articoli, considerazioni e spunti di riflessione, c’è un articolo estremamente interessante “Le mafie uccidono il mio povero Sud”. Questo fa pensare che la Puglia, così attraente da un punto di vista turistico, è pure la regione in cui si concentra il maggior numero di vicende legate allo sfruttamento, al degrado e alla violenza. Come te lo spieghi?
«La Puglia è una terra ipocrita e bugiarda. Non rivela a se stessa di contenere almeno cinque sistemi mafiosi autoctoni e altri tre (quello rumeno, quello georgiano e quello albanese) stranieri. Delle mafie pugliesi si parla pochissimo fuori. Quando io lo faccio scorgo meraviglia e incredulità sui volti di chi mi ascolta. Eppure è così, dal Gargano a Leuca le mafie pugliesi governano pezzi di territorio, con la complicità di amministratori, professionisti, politici, medici, imprenditori… Non siamo un sud diverso dagli altri». 
 
Quali sono le analogie e quali le differenze tra i caporali del Sud e quelli del Nord?  E tra i lavoratori?
«Al Nord prevalgono sistemi che si nutrono dei rapporti consolidati con Paesi come la Romania. Al Nord c’è meno latifondo, quindi minore dipendenza da grandi caporali. Ciononostante in province come Cesena, Alessandria e Brescia la condizione dei braccianti è terrificante».
 
Sono moltissimi quelli che accolgono con grande entusiasmo il vostro lavoro e ospitano le vostre presentazioni. Non avete trovato, fino ad ora, qualcuno che si è tirato indietro?
«Sì. In alcuni territori non ci hanno fatto entrare, soprattutto all’inizio. Quando il libro ha cominciato a circolare di più, grazie ad associazioni e circoli di lettori che ci hanno invitato, allora le cose sono cambiate. Stiamo scoprendo un’Italia bella».
 
Avete ricevuto minacce e intimidazioni a seguito della pubblicazione del libro. Come vivete questo costante pericolo?
«Con reciproca offesa tra noi e i caporali. Loro non ci sopportano perché noi li denunciamo ovunque. Noi siamo nel giusto, però. Loro sono dei luridi criminali. Dunque, abbiamo già vinto».
 
Sei uno dei massimi esperti del fenomeno. Secondo te, quali istituzioni dovrebbero agire?
«Tutte, ma insieme. Non esiste lo Stato, ma gli Stati. Le Regioni hanno deleghe sulla salute, i Comuni sulle scuole e sul welfare di prossimità, le Procure sulle indagini e così via. Agire tutti insieme. E poi ci si deve fidare di più di chi fa denuncia. Spesso noi siamo considerati dei finti esperti da chi non ha alcuna competenza in materia. Un bel bagno di umiltà non fa mai male, quando si cerca di contrastare insieme la criminalità».
 
L’anno scorso, il giornalista e scrittore Alessandro Leogrande, ha intitolato un suo articolo apparso sull’ Internazionale “Lo sfruttamento nei campi è la regola e non l’eccezione”. Ritieni che ci possa essere un cambiamento di rotta?
«Se le cose continuano così, il titolo di Alessandro varrà per decenni. Il decreto legge approvato dal Senato non riequilibra i rapporti tra domanda e offerta di lavoro in agricoltura, dunque legittima un sistema che vede gli stranieri e le donne discriminati per legge. Io estenderei, poi, il reato di caporalato a tutti i sistemi produttivi, perché lo sfruttamento è dappertutto. Quindi non vedo all’orizzonte cambi di rotta, ma una inutile perseveranza».
 
Tu e Yvan avete focalizzato l’attenzione sullo sfruttamento degli immigrati, ma ovviamente non sono tutti extra-comunitari, molti sono italiani. Ci sono differenze di trattamento?
«Sempre meno. Gli italiani hanno una casa, ma sono sottoposti a un sistema di dominazione sempre più accentrato e feroce. È la risposta del capitalismo italiano alla crisi: prendersela con i lavoratori, indistintamente. Diciamo che anche in questo l’Italia riesce a essere l’ultima della classe».
 
Attraverso i social hai comunicato l’imminente uscita del tuo prossimo libro. Possiamo chiederti qualche anticipazione?
«Nel mio prossimo lavoro, che uscirà nella prima metà del 2017 sempre con Fandango, apro a una ipotesi più ampia: esiste una trama nazionale tra micro e macro criminalità organizzata e sfruttamento dei lavoratori. Dimostro l’esistenza di questo sistema metamafioso come faccio di solito: parlando, dialogando con gli sfruttati. In tutte le regioni, questa volta, e con stranieri e italiani, uomini e donne, maggiorenni e minorenni».
 
Quando vedi la copertina del tuo libro, Ghetto Italia, qual è il tuo primo pensiero?
«Che è bella. Che sono stato fortunato a trovare un editore coraggioso come Fandango. Che sono orgoglioso di aver lavorato con un uomo come Yvan Sagnet. Che il libro era già scritto nei ghetti, qualcuno doveva passare a raccoglierlo. È capitato fortunatamente a noi».
 
Cosa consiglieresti a chi decide di dedicarsi allo studio, all’approfondimento di queste tematiche?
«Se si vuol fare inchiesta, di formarsi sulla metodologia. Di leggere Bourdieu. Di leggere Augé, Lévy Strauss, Kapuscinsky… Di osservare le fotografie di Salgado e di Uliano Lucas. Consiglio di leggere i reportage solo dopo, quando si è forti di una formazione sicura. Non si può studiare la schiavitù senza avere un metodo di ricerca. Si rischia di non riconoscerla o di eccedere in retorica».
 
Sogni nel cassetto?
«Ho in testa un film, come ho già detto altrove. Ci sto pensando su. Ho una matassa di idee da dipanare… E mi piacerebbe esserne il regista».


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