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Leo Muscato / Quando ho visto il coniglio bianco

Pubblicato da: Categoria: COVER

5
GEN
2017
È stato eletto come miglior regista d'opera, ma non dimentica gli esordi difficili quando anche gestire i fallimenti era un talento. Ecco la storia di un uomo di teatro, capace di vedere anche quello che non c'è
 
Chi è Leo Muscato?
"Un uomo di 43 anni, curioso e interessato a indagare l’animo umano".  
 
Come e quando hai cominciato ad amare il teatro?
"Il teatro mi ha sedotto quando avevo sedici anni: mi ritrovai ad assistere a una prova di Harvey di Mary Chase nel teatro della Scuola Maria Ausiliatrice di Martina Franca. C’era un bravissimo Clarizio Di Ciaula che interpretava il ruolo di un uomo che aveva come migliore amico un coniglio bianco, alto un metro e ottantacinque centimetri. Il coniglio non c’era, ma io riuscivo a immaginarlo in ogni sua espressione. Pensai che se il teatro ti permetteva di vedere anche ciò che non c’era, allora quell’esperienza, volevo provarla anch’io". 
 
C’è qualcuno o qualcuna che ti ha avvicinato a questo mondo?
"Dopo la seduzione, è arrivato l’innamoramento. Sicuramente devo molto ai compagni di lavoro, con i quali ho messo in scena il mio primo spettacolo, Il piacere dell’onestà di Pirandello al Teatro Verdi. Era un progetto partito per soddisfare una curiosità; poi, strada facendo, si è trasformato in qualcosa di cui non ho più potuto fare a meno. È iniziata una fase bulimica di lettura e studio di testi teatrali. La Biblioteca Comunale di Martina Franca era fornita, e immagino lo sia ancora, di un fondo di libri teatrali donati da Paolo Grassi. Durante gli ultimi due anni di scuola al Majorana, li ho letti quasi tutti". 
 
Cominciamo dai tuoi primi passi. Mentre studiavi Lettere a “La Sapienza”, sei entrato a far parte della compagnia di Luigi De Filippo, il figlio del grande Peppino. Che esperienza è stata?
"È stato come essere in pole position su una Ferrari al Gran Premio di Montecarlo e al momento dello Start, realizzare di non avere nemmeno la patente! Mi sentivo come Nina ne Il gabbiano di Cechov: recitavo e non sapevo dove mettere le mani. De Filippo si fece carico di insegnarmi il mestiere dell’attore. Quando mi presentai ai provini, potevo contare solo sull’energia e sull’entusiasmo. Ricordo che scesi dal palcoscenico grondando sudore, e avevo recitato solo per cinque minuti!  Dopo due anni con lui, alla fine dello spettacolo, non ero nemmeno accaldato! Questo è stato il più grosso insegnamento ricevuto: minimo sforzo con la massima resa.
Appartengo all’ultima generazione che ha avuto la fortuna di far parte di una compagnia di scavalca montagna: duecentocinquanta recite l’anno, quasi ogni giorno in una città diversa. L’incontro e il confronto diretto e quotidiano con pubblici e palcoscenici diversi, è stata la mia prima vera grande palestra. Ma ad un certo punto, mi son reso conto che ciò che davvero m’interessava era la scrittura e la regia".
 
Sei diplomato in regia alla Civica Scuola di Teatro “Paolo Grassi”. Molti giovani che vogliono imbattersi nei provini di ammissione alle scuole di teatro chiedono quali differenze o analogie ci siano tra quella e l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica, che sono le più titolate. Quale consiglio daresti loro?
"È impossibile e inutile dire quale scuola sia migliore. Anche perché ce ne sono tante e ugualmente valide: quella dello Stabile di Genova, del Piccolo di Milano, dello Stabile di Torino, la “Nico Pepe” di Udine. Le scuole sono fondamentali, non tanto perché ti insegnano a recitare, quanto perché offrono la possibilità quotidiana di confronto, studio ed esercizio con ragazzi che perseguono il tuo stesso sogno. E ogni tanto incontri dei maestri".
 
Qualche anno fa hai ricevuto il premio come miglior regista di prosa dall’ Associazione Nazionale dei Critici Teatrali. Successivamente, la stessa associazione ti ha assegnato il “Premio Abbiati” come miglior regista d’opera. I premi sono il risultato di un percorso. A tuo parere, quali sono state le tappe fondamentali, quali spettacoli hanno convinto le commissioni a decretare il tuo successo? 
"Il primo premiava una progettualità, la Trilogia Ri-Scritture tratta da tre classici: Romeo e Giulietta / Nati sotto contraria stella da Shakespeare, Casa di Bambola / L’altra Nora da Ibsen e Gabbiano / Il volo da Cechov.
Il secondo mi è stato assegnato perché nell’estate del 2012 ho messo in scena tre opere utilizzando cifre stilistiche ed estetiche molto diverse, tanto che i critici non riuscivano a credere che venissero dalla stessa mano: Bohème, allo Sferisterio di Macerata, era molto realistica, ambientata nel Maggio parigino del ’68; La fuga in maschera di Spontini, per il San Carlo di Napoli, era comicissima e folle; e poi il Nabucco al Lirico di Cagliari, con un visivo di taglio più tradizionale, ma con una grande energia nella recitazione dei cantanti e del coro".
 
A proposito di premi, siamo di fronte al regista vincitore della quinta edizione degli International Opera Awards “Opera Stars”: hai vinto l’Oscar della Lirica. Svelaci, a questo punto, i tuoi segreti! 
"《Nessun segreto. E spero non esista una ricetta".
 
Quali sono stati, a tuo parere, gli elementi che ti hanno consentito di cimentarti in una creazione registica così complessa come quella dell’opera, partendo dalla prosa?
"Quando devo raccontare una storia, vado alla ricerca di quel mondo invisibile che si nasconde dietro la superficie della prima lettura del testo. C’è il mondo orizzontale della trama che devi raccontare; ma c’è anche il mondo verticale dei sentimenti e stati d’animo dei personaggi che la animano. Il loro mondo invisibile, il loro universo interiore è ciò che può essere vicino o lontano agli spettatori seduti in platea. Una volta individuato cosa raccontare e perché, il come viene quasi di conseguenza. Il cinema, il teatro, l’opera sono solo dei mezzi espressivi diversi, con linguaggi differenti, ma l’obiettivo da raggiungere non muta. L’analisi del testo è sempre stata alla base del mio lavoro, e l’attività pedagogica che svolgo mi ha consentito di sviluppare una tecnica che cerco di divulgare, nei laboratori che tengo con attori, registi e drammaturghi".
 
Per noi che ci occupiamo di teatro, penso anche ai danzatori, ma più in generale per chi lavora nell’ambito dello spettacolo dal vivo, c’è sempre il rimpianto di non aver visto qualche grande artista “vivere” in scena. Tu chi avresti voluto vedere o, addirittura, dirigere? 
"Fra gli attori mi spiace non aver visto Vittorio Gassman. E ho il rimpianto di non essere riuscito a realizzare un progetto meraviglioso del 2003, quando insegnavo alla Scuola Holden di Baricco. Avevamo messo su un progetto in cui i giovani incontravano i maestri per la realizzazione di uno spettacolo. Avevo scelto di mettere in scena Le braci di Sandor Marai, nell’adattamento teatrale dei neo diplomati alla Holden, con i tre vecchi interpretati da Arnoldo Foà, Giorgio Albertazzi e Valeria Moriconi. Lo spettacolo si sarebbe dovuto replicare in diversi castelli piemontesi. Quando sembrava che tutto fosse pronto, la casa editrice Adelphi che ci comunicò che i diritti ci erano stati negati, perché acquisiti da una produzione cinematografica per la realizzazione di un film di Milos Forman, con Sean Connery e Klaus Maria Brandauer. Poi il film non si è più fatto. Porca miseria!".
 
Lavori molto in Europa; quali differenze hai notato nell’attività produttiva e attoriale teatrale di altri paesi, rispetto a quella italiana?
"La differenza fondamentale sta nell’organizzazione e nei tempi ristretti che ti sono dati per la realizzazione di uno spettacolo. In Italia devi sempre correre come un centometrista, e a volte non hai nemmeno il tempo e la lucidità per metterti in discussione. Fuori invece, i teatri hanno delle strutture organizzative perfettamente gestite, anche grazie a delle risorse economiche esponenzialmente superiori a quelle italiane".
 
Pubblico di prosa e pubblico d’opera. Chi sono costoro?
《Persone che escono di casa, attraversano città, pagano biglietti salati per ascoltare delle storie. Dovrebbero poter tornare a casa con delle belle emozioni; invece spesso gli si propinano spettacoli di semplice intrattenimento, ancora più superficiali di tanta televisione dozzinale》.
 
Cosa non può mancare in un tuo spettacolo? Intendo, hai qualche particolare dettaglio che rende inconfondibile i tuoi lavori?
"L’ironia. A prendersi troppo sul serio si corre il rischio di perdere in autenticità".
 
Ti faccio una domanda provocatoria. Secondo te, perché i giovani attori per affermarsi nel nostro Paese devono fare così tanta fatica? Dipende solo da un “sistema” chiuso, oppure c’è qualche carenza nella loro preparazione?
"C’è una mancanza di lavoro. Le possibilità lavorative di oggi sono molto meno di quelle di vent’anni fa. Il talento è determinante. E in teatro sono necessari diversi talenti: capacità di osservazione, di imitazione, di analisi, di gestione della propria emotività; c’è bisogno di follia, fantasia, perseveranza; è necessario saper gestire il proprio corpo, la propria voce, il canto, la danza. Se questi talenti sono continuamente alimentati dallo studio e dalla conoscenza, si incrementano; in caso contrario, si mortificano e si disperdono. E ho visto tantissimi talenti sprecati nella mia vita. Ma talento e conoscenza non sono i soli fattori determinanti per riuscire a ritagliarsi uno spazio. È altrettanto fondamentale riuscire a sviluppare la capacità di rendersi necessari a chi deve scommettere in te; riuscire a infondere sicurezza in chi deve investire del denaro pubblico o privato per la buona riuscita di qualcosa che si scrive sulla sabbia".
 
…E i giovani registi?
"Fare il regista, per esempio, non significa soltanto dirigere uno spettacolo. Comporta un lavoro importante di elaborazione di progetti, il 90% dei quali spesso non va nemmeno in porto.
Prima che cominciassero a offrirmi del lavoro, andavo a cercarmelo proponendo in tutta Italia e all’estero progetti da me scritti. Ne andava in porto  uno su dieci. E il gestire i fallimenti senza farsene un cruccio è un altro talento da dover sviluppare". 
 
Qual è il tuo rapporto con la terra in cui sei nato?
"È un posto incantevole. Lo si apprezza ancora di più quando per forza di cose, si vive lontani. È impressionante come alla gente s’illuminino gli occhi quando dico che sono di Martina Franca". 
 
Nel 2015, hai dato la possibilità alla tua città natale, Martina Franca, di assistere a un tuo lavoro, Le braci, di Sándor Márai. Uno spettacolo elegante, raffinato. Come hai vissuto questo ritorno in veste di regista d’opera?
"Ho cercato di non farmi sopraffare dall’emozione dei ricordi legati a quell’Atrio del Palazzo Ducale. Da ragazzino facevo la comparsa al Festival della Valle d’Itria e tutto mi sembrava un sogno irrealizzabile. Non avrei scommesso una scarpa bucata su di me". 
 
La scorsa settimana abbiamo avuto una piacevole conversazione con Sara Putignano, miglior attrice italiana Under 35; ora stiamo chiacchierando con Leo Muscato, il miglior regista d’opera… le strade potranno incontrarsi?
"Non conosco personalmente Sara e non l’ho mai vista recitare. Ma molte persone che la conoscono mi dicono sia bravissima. E sono molto contento per lei e con lei. Spero di incontrarla presto per poterle parlare di un film che girerò l’inverno prossimo in Puglia".
 
Ricordi il più bello spettacolo d’opera che hai visto? 
"Il Candide di Bernstein alla Scala, con la regia di Robert Carsen: un visionario!".
 
I tuoi prossimi impegni?
"A Natale debutta Nabucco di Verdi al Teatro dell’Opera di Firenze, il 3 febbraio La bella addormentata di Respighi al Lirico di Cagliari, il 13 aprile L’incoronazione di Dario di Vivaldi al Teatro Regio di Torino e il 24 maggio Il nome della rosa di Umberto Eco al Teatro Carignano di Torino".
 
Sogni nel cassetto?
"Come si dice? I sogni nel cassetto fanno la muffa!".
 
Da grande vorresti fare il regista di quale spettacolo?
"Voglio e vorrò sempre mettere in scena testi che possano interessare la comunità a cui saranno destinati". 
 
Saluta i nostri lettori con la battuta di un’opera o di un testo che meglio ti rappresenta.
"“Quelli che si limitano - saggiamente – a ciò che pare loro possibile, non avanzeranno mai di un passo” (Morte di un matematico napoletano, diretto da Mario Martone, 1992, ndr)".
 
 


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