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Carlo Dilonardo/Con tutto l´odio e l´amore che posso

Pubblicato da: Categoria: COVER

1
MAR
2013

 

Scrive saggi sul teatro ed è un affermato regista, ma non chiedetegli di recitare. Storia di un talento in fuga che però vorrebbe tornare e di un mestiere totalizzante che alla fine diventa una «bellissima malattia»
 
Storia di un emigrato, anzi… storia di un giovane emigrato, come ce ne sono tanti in questo Paese affascinante e dannato allo stesso tempo. Migliaia di ragazzi studiano con grande profitto, si formano culturalmente e poi vanno via per sfruttare al meglio le nozioni apprese e le qualità di cui sono dotati. È una condizione che tutti conosciamo e noi, abitanti del Mezzogiorno, ne siamo particolarmente afflitti. Noi, che come mi disse qualcuno, viviamo nella periferia della periferia, ci troviamo costantemente nella situazione di dover decidere se restare o andare. Come fossimo a un quiz televisivo, a vent’anni siamo costretti a prendere, a malincuore, delle decisioni che in un modo o nell’altro ci danno la possibilità di ottenere ciò che desideriamo ¬– o almeno di provarci –, ma al contempo ci privano di qualcos’altro. Chi sceglie di restare lo fa, spesso, a scapito della carriera, scegliendo di far strada, certo, ma in condizioni decisamente più difficili e meno fruttuose. Chi sceglie, al contrario, di andar via insegue i suoi sogni ma sa di dover convivere con la nostalgia che, volente o nolente, colpisce i meridionali. Perché, se è vero che del nostro territorio ci si lamenta in continuazione, è altrettanto vero che non si può far a meno di amarlo. 
Della seconda categoria fa parte Carlo Dilonardo, un giovanissimo e talentuoso martinese, il quale per rincorrere la sua grande passione per il teatro, ha scelto di recarsi a Roma, una città che gli offre senz’altro maggiori possibilità; senza dimenticare tuttavia la sua amata cittadina e coltivando in cuor suo il desiderio di tornare.
 
Come nasce la Sua passione per il teatro?
«La passione nasce da lontano. All’età di undici anni, in qualità di imitatore, vinsi il concorso “Talenti allo Sbaraglio” che si tenne a Martina Franca, al Teatro Verdi. Erano gli anni della famosa trasmissione Stasera mi butto, condotta da Gigi Sabani. Da quel momento non sono più riuscito a separarmi dalle tavole del palcoscenico. Al liceo, grazie all’indimenticabile professoressa Maddalena Raffo ebbi modo di intraprendere un percorso più “serio” iniziando a conoscere la commedia latina o testi più attuali come La lezione di Ionesco che mettemmo in scena ottenendo anche un discreto successo di pubblico. Successivamente, la professoressa mi spinse a dirigere un vaudeville di Feydeau, Il professore di Pianoforte: vinsi il premio come migliore regista nell’ambito della Rassegna Internazionale di Teatro per le Scuole, I Fliaci, a Taranto».   
 
La passione da sola non basta. Vedo che ha dedicato tutta la Sua giovane vita allo studio del teatro, realizzando anche diverse pubblicazioni. A partire proprio dalla sua tesi di laurea…
«Ho approfondito le conoscenze in materia teatrale frequentando il DAMS di Roma Tre. Ho conosciuto numerosi maestri con cui ho avuto la fortuna di condividere delle meravigliose esperienze: Franco Ruffini, Giancarlo Sammartano, Nicola Savarese, Giorgio Taffon, Ferdinando Taviani. Nel 2009, partendo dalla mia tesi ho scritto un libro a cui è stato attribuito il Premio Salvo Randone per l’Editoria Teatrale. Il testo, intitolato “Paolo Grassi. Il valore civile del teatro” è dedicato a una delle figure più affascinanti e, se vogliamo, controverse del teatro italiano. Ho voluto dare quel sottotitolo perché oltre a rappresentare lo stesso Grassi, racchiude in realtà la mia concezione di teatro. Dal 2009 mi dedico attivamente anche alla didattica e alla saggistica. Ho partecipato ad alcuni convegni come relatore sul teatro di Dacia Maraini, di Giovanni Testori, di Luigi Pirandello e successivamente ho svolto l’incarico di assistente presso l’Università degli Studi Roma Tre. Ho da poco concluso un dottorato di ricerca e da qualche mese sono decente di Sceneggiatura Applicata presso la LUMSA di Roma».  
 
Spesso si pensa all’arte come a un hobby da coltivare nel tempo libero. È stato difficile, invece, perseguire il teatro come un lavoro?
«Un lavoro come il mio chiede di sacrificare tante cose, a volte anche troppe. Vedete, spiegare per quale motivo si sceglie di fare questo lavoro è praticamente impossibile. Durante le mie lezioni, definisco il teatro una “bellissima malattia”. Ti porta via tempo, denaro, salute, ma ogni volta che si apre un sipario avviene il miracolo. Così come diventa lacerante assistere a un sipario che si chiude. La domenica dell’ultima replica bisogna fare i conti con quel rumoroso silenzio che il pubblico ti lascia. E ogni volta, nonostante tutto non vedi l’ora di ricominciare. Quando torno a casa alla fine delle repliche degli spettacoli di cui curo la regia, mi metto subito a cercare un nuovo testo da mettere in scena. Il teatro è follia allo stato puro. Occuparmi di teatro è una delle cose che penso di saper fare. Con tutto l’amore e l’odio possibile». 
 
Quando ha capito di volersi dedicare al teatro c’è stato qualcuno che ha provato a farle cambiare idea? O al contrario è stato incoraggiato?
«Ho avuto e, per fortuna, continuo ad avere una meravigliosa famiglia che mi ha sempre sostenuto. Sono io che a volte guardandomi allo specchio mi chiedo “chi me l’ha fatta fare?”. Quando mi faccio questa domanda, però, torno ai pensieri di cui parlavo prima: un sipario, le luci, le musiche, i rapporti umani che si creano, il pubblico. Ed è allora che mi convinco che ne è valsa la pena. Da qualche tempo a questa parte, ovviamente, ho anche un mio seguito di pubblico che si riconosce in quello che faccio. Questa è una grandissima soddisfazione. Sapere che c’è qualcuno che viene a vedere i tuoi spettacoli perché sa che non sarà deluso».  
 
Quale genere teatrale predilige e perché?
«Non c’è un genere in particolare. Ogni tanto recensisco spettacoli per vari siti. Roma offre la possibilità di scegliere cosa vedere. Grazie alla consapevolezza acquisita con gli studi, ho imparato che non bisogna farsi attirare solo dal nome televisivo in locandina. Vado a vedere tutto, non “snobbo” nulla. Questo lo faccio perché anche nel lavoro meno apprezzabile occorre “intravedere” lo sforzo e l’impegno dei colleghi. Sarebbe poco giusto e poco oggettivo non considerare questo aspetto. Cerco di godermi il teatro in qualsiasi situazione esso si faccia: assisto alle prove dei miei colleghi, entro in teatri chiusi per sentirne il silenzio, amo vedere il palco con un taglio di luce che sbatte sulle assi del palcoscenico. Sono sensazioni che vanno provate, non possono essere spiegate. Come diceva Peter Brook, il teatro non nasce solo nella sala buia, ma si manifesta non appena c’è qualcuno che parla e un altro che lo ascolta».
 
In un territorio come il nostro, spesso trova spazio per la maggior parte il teatro dialettale, salvo alcune eccezioni di grande pregio. Altre volte, invece, si lamenta la difficoltà che si riscontra nel promuovere degli eventi, o semplicemente nel realizzarli, motivo per il quale molti scelgono di andar via. La Sua motivazione qual è stata?
«Qui ci vorrebbe una puntata di Porta a Porta, più che un’intervista! Cercherò di rispondere alla sua domanda in maniera precisa. Le città come la nostra vivono una realtà teatrale che non è quella reale. Mi scusi il gioco di parole. Dico questo perché Martina Franca ha dato i natali a moltissime persone che ora sono un “nome” nel teatro italiano: questi, vivono il loro percorso teatrale in città come Milano, Roma, Torino e a Martina non sono neppure conosciuti. Ritengo che i territori come il nostro prima di ospitare il nome televisivo dovrebbero dare spazio proprio a questi talenti. I circuiti regionali e le amministrazioni dovrebbero attivare una stagione o una parte della stagione affidata a maestranze del posto. Il teatro non si misura con l’audience. È una forma civile di spettacolo e come tale le amministrazioni, le istituzioni dovrebbero avere il dovere morale di educare i proprio cittadini a farsi spettatori. Vede, non sto dicendo nulla di nuovo, sono teorie che erano alla base della formazione culturale di Paolo Grassi, di Bertold Brecht e di tanti altri pedagoghi teatri. E non a caso uso la parola “pedagoghi”. Personalmente, sono rimasto a Roma, perché mi chiamano per mettere in scena gli spettacoli. Qui, questo non avviene. Spesso ci viene detto che non facciamo nulla per la nostra città o che il problema è che non abitiamo a Martina! Francamente mi sembra soltanto un alibi. Da qualche anno esistono le mail e anche i cellulari».
 
Si evince, comunque, dalle Sue parole un forte legame con la sua terra, nonostante le difficoltà.
«Amo questa città. Se avessi degli spazi in cui operare e agire metterei sul piatto la mia esperienza per i miei concittadini e tornerei oggi stesso». 
 
So che ha collaborato con molte grandi professionalità del settore. 
«Sì, ho avuto l’onore e il piacere di affiancare come organizzatore o come aiuto regia, moltissimi professionisti. Attualmente il progetto più impegnativo, ma nello stesso tempo più interessante che sto seguendo è Ocean Terminal, spettacolo tratto dall’omonimo romanzo di Piergiorgio Welby, diretto e interpretato da Emanuele Vezzoli. Questo spettacolo è uno degli emblematici casi di teatro civile. Un teatro che impegna moralmente tutti coloro che sono coinvolti, come pubblico ma soprattutto come cittadini. Ocean Terminal tiene legati alla sedia. Ho visto commuoversi un tecnico luci, un organizzatore, uno scenografo: non accade in tutti gli spettacoli. Siamo stati in scena a Roma, in Svizzera e prossimamente in Toscana, in Sicilia e in Lombardia». 
 
C’è qualcuno con cui desidererebbe lavorare in futuro?
«Un nome fra tutti credo sia Massimo Ranieri. Ho visto alcuni suoi spettacoli e vi confesso che non ho trovato ancora un attore così completo, atletico e preciso nelle sue azioni. Ranieri conosce benissimo il palcoscenico, per me è uno scienziato della scena. Ne conosce i segreti, i pregi, i difetti. Poi la sua esperienza con Eduardo De Filippo, i suoi racconti lo rivestono di aurea speciale. Amo gli attori che non si crogiolano mai sulla loro bravura. Per Ranieri, così come per Eduardo gli esami non finiscono mai. Così dovrebbe essere. Sempre». 
 
Qual è stata la soddisfazione più grande che ha ricevuto a tutt’oggi?
«Ritengo che ogni esperienza sia un piccolo tassello di un puzzle che ciascuno di noi deve valutare alla fine. Un puzzle chiamato “soddisfazioni”. Io ho ancora trentun anni, con la situazione economica e di grande apatia che c’è verso i giovani, posso dire di essere stato fortunato a fare questo lavoro. Sempre in maniera indipendente e autonoma. Posso dire che ogni cosa che ho fatto mi ha dato soddisfazione. Non ho mai fatto spettacoli solo per soldi. Ho sempre voluto fare le cose di cui condividevo logiche culturali e artistiche. Ho dato sangue, anima, sudore, corpo, tempo, fatica in ogni progetto, anche quando erano veramente impossibili da realizzare». 
 
Il Suo approccio al teatro è prettamente rivolto all’ambito della scrittura, della didattica e della regia. Ha mai desiderato diventare un attore?
«Nell’ambiente, si dice che molti registi sono degli attori non proprio bravi, un esempio lampante può essere quello di Giorgio Strehler. Io sono salito sul palco più volte, lo conosco, anche perché non potrei scrivere o fare il regista se non conoscessi il funzionamento di quella “scatola nera”. Ma non mi reputo assolutamente un attore e non ho mai desiderato diventarlo. Fare il regista mi completa. Sarà “masochista”, me ne rendo conto, ma preferisco assumermi la responsabilità dell’intero spettacolo che non include soltanto il ruolo dell’attore: occorre scegliere le luci, le  musiche, le scenografie e, soprattutto, tutti i rapporti umani che si intessono quando si passano insieme mesi tra prove e repliche. Tutto questo implica una responsabilità non indifferente. L’attore incontra molte difficoltà nella fase delle prove e i registi in questo svolgono un ruolo fondamentale: devono indicargli la strada giusta, funzionale e soprattutto credibile agli occhi dello spettatore. Io sono più portato per questo tipo di lavoro». 
 
Progetti imminenti?
«Sto gestendo la direzione organizzativa di un neonato Risto|Teatro a Roma, lo Skené, dove alla buona cucina abbiamo abbinato degli spettacoli teatrali di alto livello. Attualmente è in corso la rassegna “10 Ragazze per Skené”, 100 giorni di spettacoli, con sole donne. È un progetto ambizioso quello di questa struttura ma c’è l’entusiasmo. A Marzo invece, al Teatro Agorà di Roma dal 7 al 24, sarà in scena per tre settimane la commedia dal titolo Non siamo qui per le telecamere da me scritta e diretta. Un affresco sul mondo televisivo diviso tra corteggiatrici, tronisti, postini, serate in discoteca e coppie che nascono in modo diverso…non le dico tutto altrimenti i martinesi che sono a Roma non vengono a vederla!».
 
Ambizioni future e sogni nel cassetto?
«Come diceva un attore, avrei bisogno di un armadio quattro stagioni, non mi basta un cassetto! Sono tante le cose che vorrei fare. La prima, mi creda, è quella di venire a Martina e fare uno spettacolo. Inoltre, mi piacerebbe fare una giornata di studio, un incontro, un focus con tutti i giovani professionisti martinesi sparsi in Italia che si dedicano a tutte le forme di spettacolo. Vorrei che i cittadini e le istituzioni si rendessero conto di quanti siamo. Francamente, ho trovato un sensibilità notevole da parte delle istituzioni per quanto riguarda questo possibile evento. Speriamo si possa concretizzare». 
 


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