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Questi fanno gli indiani

Pubblicato da: Categoria: COVER

12
OTT
2017

Taranto sembra tornata agli anni bui della crisi siderurgica che, tra sequestri e tensioni sociali, aveva di fatto bloccato e diviso un’intera comunità. E i cittadini intanto continuano a essere divisi

La divisione collettiva, in tandem con la debolezza politica, è l’elemento che più di frequente facilita il lavoro sporco di chi storicamente cerca di lucrare in riva allo Ionio avendo gioco facile.
Riavvolgiamo il nastro e proviamo a mettere in fila gli elementi cercando chiavi di interpretazione che vadano oltre la fredda cronaca: nel mese di giugno 2017 il ministro Calenda benedice l’acquisizione dell’Ilva da parte di Am Investco Italy, la joint-venture composta dal colosso franco-indiano ArcelorMittal e il Gruppo Marcegaglia. Il tutto nonostante i pareri negativi dei tecnici incaricati dai commissari straordinari di valutare le offerte ed il rischio Antitrust europeo.
In soldoni AmInvestco si era impegnata a versare 1,8 miliardi per Ilva e altri cinque rami d’azienda  garantendo una produzione di 6 milioni di tonnellate esplicitando anche gli ingenti tagli occupazionali. Il Governo si era impegnato a riassorbire gli esuberi impegnandoli in opere di ambientalizzazione alle dipendenze della gestione commissariale. Sotto il profilo ambientale, AmInvestco si era impegnata ad utilizzare tecnologie “a bassa emissione di anidride carbonica, tra cui la cattura e l’utilizzo del carbonio”, la copertura dei parchi minerari e investimenti in conto capitale pari a 1,15 miliardi.
Oggi invece si apprende che, mentre il Governo pensava di aver trovato un compratore in grado di disinnescare la bomba Taranto, i franco indiani credono invece di essere arrivati in una colonia a dare l’elemosina ai poveri indigeni: la lettera d’intenti consegnata dalla nuova probabile proprietà prevede che i lavoratori superstiti impegnati negli stabilimenti ex Ilva vengano licenziati per poi essere assunti in costanza di Jobs Act e per giunta senza conservazione di anzianità, contratto integrativo e livelli retributivi. Nello specifico - ed in vista dell’avvio del confronto coi sindacati - è stato chiarito che verranno riassunti 9.885 dipendenti su 14.200: in particolare a Taranto saranno 7.600 anziché 11mila, 900 (su 1500) a Genova, 700 a Novi, 345 a Marghera, 160 a Milano e 125 a Racconigi. Circa 4mila esuberi (pare 3311 solo a Taranto) resteranno invece in carico all’Amministrazione straordinaria e verranno impiegati nelle operazioni di bonifica e risanamento ambientale.
Così, quel patto che sembrava carente “solo” dal punto di vista tecnologico (o forse vogliamo dire che la copertura dei parchi minerari sia la migliore tecnologia possibile?) si è rivelato un fallimento anche dal punto di vista dei livelli e della qualità occupazionale. Nulla invece sui lavoratori dell’indotto (7603 lavoratori dipendenti da circa 346 aziende) e sui fornitori che sembrano essere stati abbandonati al loro destino.
Il seguito lo conosciamo tutti: i lavoratori hanno proclamato uno sciopero di 24 ore che ha avuto una adesione talmente imponente da  consigliare al Ministro Calenda di fare la voce grossa facendo saltare il tavolo di confronto con la proprietà che era stato organizzato al Ministero dello Sviluppo Economico.
"Senza un impegno a garantire i livelli salariali e gli scatti di anzianità non ci sono le premesse per aprire un tavolo di confronto" ha spiegato al termine dell'incontro Carlo Calenda.
A voler essere maliziosi e provando a tradurre le parole dell’autorevole esponente governativo, esse -  e vorremmo tanto aver torto marcio - ci suonano più o meno così: “vada per un piano ambientale che è una marchetta clamorosa, vada per addossare sulla collettività per quattro anni gli esuberi, vada per il Jobs Act ma incontriamoci a mezza strada sui tagli agli stipendi perché altrimenti gli operai oggi ci mangiano vivi. Abbiamo le elezioni alle porte per cui rimandiamo il tavolo e proviamo a prendere tempo”.
Pronta la risposta Aditya Mittal, direttore finanziario e responsabile Europa di ArcelorMittaldi il quale replica in maniera general generica “Vogliamo trovare una soluzione insieme a governo, istituzioni locali e sindacati per un futuro sostenibile di Ilva”, con il chiaro intento di tirare a campare.
Dall’altra parte della barricata, chi come noi ha avuto modo di ascoltare i messaggi vocali che si scambiavano i lavoratori Ilva, le attese sono diverse: dobbiamo lottare per i nostri diritti senza pensare alla giornata di lavoro che perdiamo perché ci devono assicurare le stesse condizioni che abbiamo adesso, la situazione è gravissima urla un operaio al telefono visibilmente preoccupato. Per Andrea invece le favolette sono finite: non ci fidiamo più di chi ci dice di stare tranquilli – dice - tra un esuberato che prende lo stesso stipendio per quattro anni e noi che prenderemo 1200 euro al mese senza prospettive di un piano industriale credibile, forse stanno meglio coloro che vanno alla gestione commissariale.
Il rischio è che gli operai si sentano tutelati da questa “mmuina” ministeriale la quale, stando alla storia recente, non vorremmo si risolvesse nel solito gioco tra il poliziotto buono e quello cattivo con il finale già scritto.
Probabilmente la chiave interpretativa la fornisce un altro operaio che in un messaggio vocale dice giustamente che gli operai di Taranto sono soli a combattere a differenza di quelli genovesi che sono appoggiati dalla città e dalle Istituzioni. In realtà è la città intera a essere sola e non gli operai visto che Genova ha preteso ed ottenuto la chiusura delle aree a caldo regalandole a Taranto.
Le Istituzioni tarantine, specialmente quelle territoriali, sono tagliate fuori dai giochi dato che fino ad oggi non hanno toccato palla limitando il loro apporto alla mera produzione di comunicati stampa come quelli del Sindaco Melucci che una volta esorta all’unità istituzionale, un’altra volta ringrazia il ministro Calenda intestandosi una parte del merito di aver fatto saltare il tavolo ed un’altra ancora esprime dubbi sulla qualità delle soluzioni contenute nel piano ambientale.
Di grazia, piacerebbe sapere dal Sindaco di cosa dovremmo essere grati al Governo: del ridicolo piano ambientale? Del Jobs act  introdotto nel periodo congiunturale più sbagliato? O delle concessioni che il Governo ha fatto ai nuovi investitori circa la dilatazione nei tempi di attuazione di un’AIA che nasce già “pannicello caldo” diventando “acqua fresca” se applicata a babbo morto (magari babbo morto di inquinamento)? Ed il sindaco che parla bene l’inglese, cosa ha detto alla nuova proprietà quando l’ha ricevuta a palazzo di città? Ha forse detto “the pen is on the table” dando poi fondo a tutto il primo capitolo del libro di inglese delle medie?
Ed i Parlamentari che fanno? Ed Emiliano, il paladino della decarbonizzazione, cosa farà, la solita gitarella a Taranto – magari con tutta la Giunta – proferendo supercazzole? Zero tutuli o questi reggono il gioco? Questi sono nulli o conniventi?
Dal canto suo la città si divide ancora in lavoratori ed ambientalisti. Questi ultimi stanno a guardare come se il fatto non li sfiorasse, imputando agli operai di aver remato contro la questione ambientale e per questo osservano  con rancore o quasi rivalsa (tranne qualche rara eccezione).
Quando capiremo che non esiste una questione occupazionale scissa da quella ambientale? Quando capiremo che la vicenda Ilva è una vicenda sistemica?  Quando capiremo che parliamo di un fatto talmente grande da rendere impossibile la cancellazione dello stabilimento all’insegna della salute o la prosecuzione indiscriminata della produzione all’insegna del lavoro? Quando capiremo che la visione d’insieme ed il gioco di squadra sono tutto nelle partite difficili? Quando capiremo che non saper fare massa critica è ciò che maggiormente penalizza Taranto? Quando la smetteremo di cianciare di Sparta onde poi marciare in ordine sparso a tutti i livelli?
Non si tratta di cercare una unità generica, una vaga solidarietà ipocrita o un “volemosebene”. Qui si tratta di capire che siamo di fronte a un colosso produttivo incancellabile per decreto la cui gestione offre degli indizi che portano al disastro: produrre solo sei milioni di tonnellate, sottopagare le maestranze, fare un piano ambientale farsa non mettendo in campo investimenti finalizzati ad introdurre le migliori tecnologie sul mercato significa andare dritti dritti verso un nuovo “caso Riva” e questo sarebbe imperdonabile.
Poi i genovesi giocheranno la partita per conto loro (è già successo), il gruppo Marcegaglia magari si sfilerà una volta raggiunti i propri obiettivi non dichiarati (è già successo col tessile) e nel frattempo magari lo stabilimento siderurgico sarà stato utilizzato (nottetempo) oltre le proprie possibilità per massimizzare la produzione in spregio di ogni norma o accordo (è già successo). Come al solito assisteremo al teatrino delle riprese televisive notturne che documentano il disastro, assisteremo alle smentite categoriche, assisteremo ai veri metodi Archinà e la giostra riprende.
Non marciare uniti – pretendendo salute e lavoro -  significa creare 7.600 schiavi, 3.300 socialmente utili, altri morti sul lavoro, centinaia di nuovi malati dentro e fuori dalla fabbrica oltre ad una comunità nuovamente sfruttata, mortificata dal colonizzatore di turno e debole. La cosa peggiore? Ce lo saremo meritato.



 



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