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Il suono della pietra

Pubblicato da: Categoria: COVER

16
NOV
2017

Agli inizi del Novecento gente fatta di vento e pietra abitava la valle. La famiglia Speciale era una di queste. Un racconto che inizia su queste pagine e finisce dentro nel cuore di chi legge

Carmine Speciale viveva la sua genetica predisposizione ad una vita fatta di privazioni e sacrifici con naturale accettazione. Lo sguardo lucido e rassegnato rispecchiava il senso pacato e dimesso del vivere. La fedeltà al pragmatismo del lavoro lo legavano alla terra come una quercia secolare, le radici erano talmente profonde e salde che neanche abbattendolo era possibile separarlo da essa. Anche solo immaginare una vita diversa, lontano, sradicato dalla sua vigna lo disorientava. Insostenibile vertigine data dalla perdita d’identità. Poche parole e spesso sempre uguali pronunciate con fermezza lo facevano sembrare saggio. Questo perché parlava solamente di cose di cui possedeva una conoscenza pressoché totale. Mai una volta, neanche per sbaglio, il  giovane figlio Arcangelo sentì una lamentela provenire dalla bocca del padre. Neanche nelle situazioni più disperate o nelle ore più buie.
“Il Signore non dà mai prove che non puoi sopportare - diceva Carmine e aggiungeva- Il problema è che forse pensa che io ne posso sopportare davvero tante”.
Carmine considerava il suo appezzamento sacro come un santuario, con riverenza e gratitudine gettava il sangue giorno dopo giorno senza ambizione. Senza desideri. Quieto e pago custode dei segreti della fatica contadina che di generazione in generazione erano giunti fino a lui. E dopo di lui di generazione in generazioni così per sempre. In questo credeva.
Lo stormire del vento tra gli alberi folti del bosco e radi del prato, il cielo terso, le colonne di formiche, il fruscio dei passi tra gli steli arsi dell’erba, le pietre ferite dal tempo, il cinguettare dei passeri, la terra carica di colore, l’arrivo della pioggia, i versi degli uccelli notturni, la luna distante, gli odori, coglievano, invece, il figlio Arcangelo disperatamente inerme. Spesso afflitto.
Il giovane, completamente analfabeta e estraneo a qualsiasi conoscenza che andasse al di là dalla pratica contadina, si era fatto la strana convinzione che tutto quello a cui assisteva, non riuscendo a capirlo, potesse andare perduto.
Sentiva dentro di sé il bisogno di tradurre queste trepidazioni della natura, di nominarle, in un certo qual modo. Come se il limite di esprimerle diventasse un ostacolo a viverle davvero.
La sua giornata era un susseguirsi di incombenze, da quando apriva gli occhi fino a quando li richiudeva. Bisognava dare da mangiare alle galline e sperare che avessero fatto le uova, poi era il turno delle capre che bisognava anche mungere. Non appena finito, di corsa, si recava alla Masseria Caracciolo, che si trovava su una salita a qualche chilometro di distanza, dove consegnava il latte di capra e le poche uova. Al ritorno doveva dare da mangiare ai maiali, bagnare l’orto, e raccogliere la legna. Aiutava il padre a prendersi cura della vigna e degli ulivi. La madre, poi, aveva sempre bisogno d’aiuto nell’orto. Nel bosco a seconda della stagione si recava a raccogliere i frutti selvatici o i funghi. Dopo aver consumato il pasto ricominciava esattamente tutto daccapo, fino al tramonto.
Il trullo della famiglia di Arcangelo Speciale sorgeva al centro di un caratteristico paesaggio trullano.
La particolare costruzione del trullo è una precisa espressione dell’astuzia contadina, quella cioè di abitare un terreno di difficile abitabilità, trasformando uno spazio destinato alle provviste o ai pastori, in singolari modelli abitativi. Caratteristiche erano anche gli elementi decorativi con cui venivano personalizzati: segni stilizzati che esprimevano una forte carica di simbologia. Croci, cuori trafitti, monogrammi e serpenti. Suggestive interpretazioni di alcuni studiosi sostengono che nei trulli sono presenti i simboli di ancestrali rituali e espressioni di antiche credenze magiche.
Spigolosi e sparsi i trulli spuntavano numerosi in tutta la valle a proteggere le notti e i giorni di famiglie di buona volontà. Alcune notti, a dire il vero, dal freddo proteggevano poco.
Poco distante dal trullo degli Speciale c’era una grande cava. La cava era di proprietà di un amico del padre e, dopo il lavoro nei campi, spesso capitava che Arcangelo andasse fin lì. Delle volte c’era del lavoro da fare e qualche spicciolo da portare a casa. Alla cava enormi blocchi di pietra attendevano il proprio destino inermi. Fermi, ma non in silenzio.
Almeno un paio di volte al mese alla cava si recava don Martino Semeraro, grande artiere della pietra. Veniva personalmente per scegliere i blocchi di pietra che avrebbe usato. Non si fidava di nessun altro all’infuori del suo orecchio per decidere quali prendere. Il giovane Arcangelo amava assistere a quello strano rito che gli altri facevano fatica a capire.
Mastro Martino Semeraro si metteva davanti al blocco di pietra, fermo. Le dita correvano a toccare avidamente, gli spigoli, i lati.
Poi, dopo aver conosciuto intimamente il profilo del blocco estraeva un piccolo pezzo di ferro che aveva attaccato al collo. Lentamente avvicinava l’orecchio al centro e batteva. Batteva il blocco di pietra fermo davanti a lui con quel pezzetto di ferro che di solito dondolava inutilmente sul suo petto.  Smetteva solo dopo aver ascoltato quello che aspettava di ascoltare. Allora, toccando il blocco di pietra, come a ringraziarlo, lo acquistava. In caso contrario passava ad un altro. Cosa sentisse con quei colpi nessuno lo sapeva. Tutti giuravano che il rumore era esattamente il medesimo per tutti i blocchi di pietra. Ma evidentemente per Martino Semeraro non era così, riusciva a sentire qualcosa che sentiva solo lui.
Mentre avveniva il consueto rito di selezione dei blocchi da parte del maestro scultore, Arcangelo andava a posizionarsi di lato leggermente spostato dalla parte del blocco, in ginocchio. Faceva quello che avrebbe fatto per il resto della sua vita, scegliere la prospettiva da cui guardare un’emozione.
E di emozioni, a dispetto della vita che conduceva, ne viveva tante e tante ne avrebbe vissute in futuro. Per ora si accontentava di strappare quelle sue emozioni  avidamente dal lento e sempre uguale susseguirsi delle sue giornate come fossero pezzettini di carne tra gli ossicini di pollo e ne godeva tremendamente.
 



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