MENU

Alessandro Porzio/ Io, Angela e il cinema

Pubblicato da: Categoria: COVER

12
APR
2013

 

Si definisce un autore, più che un regista, gli piace il dramma e il lungo(metraggio). Dopo essersi aggiudicato un’importante menzione al Bif&st, l’artista pugliese ci racconta la sua passione per il cinema e per la sua… musa
 
Ha soli ventisei anni, ma ha già un talento da vendere. Merito delle idee ben chiare e delle sue convinzioni; merito dell’entusiasmo con il quale si butta in tutto ciò che fa e del suo particolare modo di osservare il mondo, attento e scrutatore, scrupoloso fino al punto di individuare e di tirar fuori tutte le emozioni e le sensazioni che si celano nel più profondo degli animi.
Amante e fautore del cinema impegnato, Alessandro Porzio colleziona un successo dietro l’altro. L’ultimo è stato proprio al Bif&st, dove ha ricevuto un importante e meritatissimo premio per il suo cortometraggio “Rumore bianco”.
 
Alessandro, come ti definiresti?
«Beh, sono un regista. Tuttavia, preferisco definirmi un autore poiché scrivo io stesso le sceneggiature dei film che realizzo. E vi è una certa differenza. Il regista si occupa di girare una pellicola, interpretando ciò che altri hanno scritto. L’autore invece ha un suo linguaggio, allo stesso modo di chi fa musica: c’è il cantante che esegue un brano, magari anche alla perfezione, e c’è il cantautore, che comunica e trasmette il suo messaggio».
 
E il tuo linguaggio qual è? In quale genere ti esprimi al meglio?
«Senza dubbio nel dramma. Per natura mi piace trattare temi più seri. Mi sono cimentato anche nella commedia, ma poi sfociavo sempre nella riflessione, finendo con il lasciare un messaggio che fosse più importante. Mi piace sviscerare la psiche dei personaggi, poiché ritengo che la bellezza di un film sia data dalla ricchezza dei suoi personaggi e un po’ meno dalla storia. Anche in esperimenti più leggeri, come per esempio la commedia grottesca “Vagina”, ho cercato di dare un significato più profondo al testo».
 
Sei giovanissimo, ma partiamo dall’inizio. Com’è nata la tua passione per la regia e dunque per il cinema?
«Ho studiato fotografia e ho sempre avuto una passione per la scrittura. La somma di questi due addendi non poteva che essere il cinema. È stato un processo naturale, mi è bastato unire i miei più grandi interessi in un unico veicolo comunicativo. Ho iniziato durante la scuola superiore, quando ho realizzato il mio primo lungometraggio. Poi nel 2009 è stato il momento di lavorare sul secondo, “Non te ne andare”. In quel film ha recitato il piccolo Claudio Salvato, il quale è stato premiato come miglior attore al Tropea Film Festival. Inoltre, ho girato alcuni videoclip e diversi cortometraggi».
 
E non ti sei fatto mancare neanche il teatro.
«Già. Ho scritto infatti un monologo, “I nostri giorni” – che adesso sto riscrivendo come romanzo – che tratta il tema della tossicodipendenza, senza però esplicitarlo in maniera lampante. Non si parla mai di droga, eppure si sa che ci si riferisce a quello. È la storia di Alice, una ragazza vittima dell’abuso di sostanze stupefacenti, la quale riuscirà a uscire dal tunnel distruttivo nel quale era caduta, grazie all’aiuto di suo padre. Un aiuto arrivato in una forma piuttosto stravagante, in quanto l’uomo per aiutare sua figlia decide di far lui stesso uso di droghe. Alice, rivivendo il dramma di suo padre decide di riprendere in mano la sua vita e di tornare “pulita”, come si dice in gergo. Suo padre a quel punto sparirà e lei inizierà a intrattenere una vera e propria corrispondenza epistolare, che però rimarrà a senso unico. Le lettere scritte dalla ragazza non verranno mai spedite, proprio perché non si conosce neanche il luogo in cui si trova il mittente. Dunque, alla fin fine serviranno solo a farle riscoprire se stessa. Ed ecco che ritorna l’introspezione e la voglia di scavare nell’animo dei personaggi».
 
È un tema piuttosto forte.
«Mi piace che il cinema racconti il vero e per questo scelgo temi reali, che fanno parte del nostro vivere. Sono convinto, tuttavia, che per raccontare la verità la si deve per forza conoscere e dunque si deve vivere sulla propria pelle ciò che si vuole narrare. Per questo motivo, ne “I nostri giorni” l’argomento “droga” è trattato solo in maniera implicita. Non è un mondo che mi appartiene, non è una realtà che conosco personalmente, dunque mi sono limitato a parlare di ciò che sapevo».
 
Ultimamente, un tuo cortometraggio ha vinto un importante premio.
«Sì, esatto. “Rumore bianco”, un corto scritto e diretto da me, prodotto da Diero e interpretato da Claudia Vismara e Matteo Pianezzi, ha ricevuto una menzione speciale al Bif&st 2013. Ricevere quel premio dalle mani del grande Daniele Vicari è stata una soddisfazione immensa. Sono, inoltre, doppiamente contento per la vittoria perché la storia trattata è di un certo spessore. Non si tratta di quelle emozioni che fanno subito presa sul pubblico; al contrario, è un messaggio che va compreso, che fa riflettere. Parla, in estrema sintesi, di amore così come di abbandono. È ambientato in una stanza d’ospedale, dove il protagonista, un uomo paralizzato, viene lasciato dalla sua fidanzata. A prima vista si potrebbe pensare che lei sia un’egoista e forse si tenderà a simpatizzare per il ragazzo; ma in realtà il messaggio è molto più complesso. Ci si chiede chi dei due abbia più diritto alla vita. È giusto che la sua fidanzata sacrifichi tutto per lui?».
 
Sono quesiti assolutamente legittimi. Non deve essere stato facile riuscire a condensare tutta la vastità dei sentimenti provati dai due personaggi.
«Infatti per realizzarlo mi sono documentato molto. Ho parlato con diverse persone che hanno vissuto sulla loro pelle un’esperienza così devastante e ho cercato di renderla al meglio in quei pochi minuti. L’intero video inoltre è girato in piano sequenza. Dunque non ci sono artifici, né trucchi di montaggio. È tutto così come appare nella sua essenzialità».
 
Ogni autore riesce a dare il meglio di sé in un genere specifico. Nella scrittura, per esempio, c’è chi punta sul racconto breve, riuscendo a condensare in poche righe intere storie, e chi invece dà il suo meglio nel romanzo. Nel tuo caso, invece, qual è il mezzo che senti più tuo: il corto o il lungometraggio?
«Direi il lungo. Vedete, io lascio sempre i finali aperti. Non amo dare una conclusione definitiva, anche perché, se è vero che il cinema deve raccontare la vita, ogni vita finisce con la morte. Se tanto mi dà tanto il finale di un film, per essere definito realmente un finale chiuso, deve concludersi con la morte dei personaggi. Altrimenti c’è sempre spazio per un seguito. È come se, terminata la visione del film, i protagonisti continuassero a vivere indipendentemente da tutto. Per questo motivo prediligo i lungometraggi. Mi dà maggiore possibilità di esprimermi; ho più tempo per scavare nel più profondo dell’essere».
 
Mi sembra di intuire che sei un patito del cinema di spessore. Che tipo di spettatore sei?
«Senza dubbio quello che cerca il film più impegnativo. Non vado troppo spesso al cinema, in realtà, perché la maggior parte dei film che trasmettono sono banali, commerciali. Capisco questa logica, non mi fraintendete. È normale che si scelga di produrre e di distribuire film che la gente vada a vedere in massa. L’ultima volta che sono andato al cinema io, nella sala c’erano quindici persone. Di contro, nello stesso momento in un’altra sala c’era il pienone, perché magari la pellicola era stata molto pubblicizzata, era interpretata dall’icona del momento e dunque ha attirato tantissima gente. Si pensa che il pubblico abbia bisogno di ridere, e quindi si realizzano delle schifezze che però hanno larga presa. Non dovrebbe essere così. Il compito dell’autore deve essere proprio quello di trasmettere un messaggio, di istruire il pubblico. E, ovviamente, affinché il pubblico sia istruito ha bisogno di essere svezzato, in modo tale che il film più impegnato non risulti una voce fuori dal coro, ma un modo nuovo di vedere e interpretare il mondo».
 
Poche settimane fa c’è stata la notte degli Oscar…
«Sì, e sono rimasto sveglio tutto il tempo per vederla. Uno dei film che ha riscosso maggiore successo è stato “Argo” di Ben Affleck, che però non ho ancora visto, dunque non posso dare un giudizio. Direi in sostanza che tutti gli Oscar tecnici sono stati senza dubbio meritati. Ma quello che ho più apprezzato è stato in realtà un film di cui non si è parlato molto: si chiama “Amour” ed è stato scritto e diretto da Michael Haneke. Ha vinto anche la Palma d’Oro al 65° Festival di Cannes. Protagonisti sono due anziani, sposati già da diverso tempo, che si trovano ad affrontare una grave malattia che colpisce uno di loro, la donna, e suo marito le rimarrà accanto sino alla fine. Stupendo».
 
Se dovessi citarmi un regista a cui fai riferimento nel tuo lavoro?
«Allora sarebbe Bertolucci, ma anche Bellocchio. Solo che il primo è più universale, direi; si presta un po’ meglio a essere visto dai giovani. È più crudo e lo apprezzo molto per questo».
 
Il film preferito, invece, quello che ti ha fatto amare l’immenso mondo del cinema, qual è?
«“Lo scafandro e la farfalla” di Julian Shnabel. È anche piuttosto recente, se non ricordo male del 2007. Molto bello, davvero».
 
Al momento ti stai occupando di un nuovo progetto?
«Assolutamente. Sempre con la DIERO, sto realizzando un altro cortometraggio, che sarà girato quasi interamente in Valle d’Itria, e per la precisione a Locorotondo. Parlerà sempre in qualche modo di amore, ma toccherà un universo “speciale”. Dico solo questo. Il resto lo dovete scoprire».
 
Ultimamente la Puglia sta diventando una location molto richiesta nel mondo del cinema. Come mai, secondo te?
«Beh, anzitutto bisogna ringraziare l’Apulia Film Commission per lo splendido lavoro che svolge. Grazie a loro, la nostra regione è rinata e viene conosciuta in tutto il mondo. Inoltre, abbiamo la fortuna di avere delle bellezze naturali che mozzano il fiato e soprattutto la luce che tutti ci invidiano. Il modo in cui i raggi del sole colpiscono la nostra terra è incantevole ed è perfetto cinematograficamente parlando. Io, poi, ho scelto Locorotondo in particolare perché mi ha regalato Angela (Curri, ndr)».
 
Che romantico! Visto che l’hai citata, spieghiamo ai nostri lettori che sei fidanzato con una nostra vecchia conoscenza. Anche Angela lavora nel campo del cinema e studia recitazione: avete mai lavorato insieme?
«Sì, abbiamo girato un videoclip, “La presenza della tua assenza”, del maestro Stefano Ottomano, un carissimo amico che stimo moltissimo e che tra l’altro cura tutte le mie colonne sonore. Angela, inoltre ha un ruolo anche nel nuovo corto che sto girando, quello citato poc’anzi. E mi auguro di poter fare ancora molti lavori con lei perché è meravigliosa».
 
È la tua musa?
«Decisamente. Anche quando non è presente nei miei lavori…è la mia fonte di ispirazione!».
 
 


Lascia un commento

Nome: (obbligatorio)


Email: (obbligatoria - non sarà pubblica)


Sito:
Commento: (obbligatorio)

Invia commento


ATTENZIONE: il tuo commento verrà prima moderato e se ritenuto idoneo sarà pubblicato

Sponsor