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Michele Papadia/A TUTTO JAZZ

Pubblicato da: Categoria: COVER

27
SET
2013
Ha cominciato a suonare nelle chiese del suo paese, ed è finito a lavorare con i più grandi artisti del panorama italiano e internazionale. Rimpiange il panzerotto pugliese ma il suo cuore batte ritmi afroamericani
 
Somiglia a Jack Black, quell’attore simpaticissimo a dall’aria scanzonata che conquista con la sua gioiosa personalità. E non parlo solo di aspetto fisico. Michele Papadia, eccezionale musicista martinese, in comune con il divo californiano ha anche la genuinità dei sentimenti e una grande, grandissima passione per la musica, soprattutto per quella improvvisata. Artista di indiscusso talento, il giovane Michele ci racconta gli insegnamenti che la vita gli ha dato.
 
Sei originario di Martina Franca, ma vivi altrove per lavoro immagino.
«Sono nato e cresciuto a Martina Franca fino ai diciotto anni, dopodichè, come tanti ragazzi della mia età, sono partito per studiare all'Università, Facoltà di Architettura di Firenze per la precisione. La musica era comunque già una grossa realtà della mia vita, sia come passione che semiprofessionalmente. Ho scelto appunto Firenze come destinazione, città "a misura d'uomo" in cui ho trovato amici, input culturali, musicali e artistici in generale, una società abbastanza multietnica che è stata da subito una base fondamentale della mia formazione artistica e umana».
 
Hai una formazione classica e ti sei specializzato prevalentemente nel jazz. Come ti ha conquistato questo genere e cosa rappresenta per te?
«Ho una formazione classica come base di una tecnica pianistica che ho poi sfruttato e modellato per suonare ciò che più mi piaceva e mi ispirava: musica "creativa", "improvvisata", aperta, cercando da sempre, e alla fine trovando, una sintesi di tutta la musica afroamericana, insieme a quella europea, sia colta che popolare. Ho avuto la fortuna di avere in famiglia mio nonno materno, Michele Martellini, non vedente, dotato di una grande sensibilità musicale e umana, grande pathos, che mi ha insegnato i primi rudimenti musicali e mi ha da subito dato l'occasione di suonare nelle chiese di Martina, dalle più piccole alle più grandi, da S. Pietro a S. Antonio, S. Domenico, S. Martino, accompagnando cori, e così via. Esperienza questa che si è rivelata poi fondamentale per la mia carriera professionale; ho imparato infatti ad accompagnare cori, cantanti spesso anche non perfettamente intonati e a tempo, dunque a volte anche in modo creativo e improvvisato, cambi di tonalità e ritmo repentini, a conoscere i vari tempi di una messa, a improvvisare finali e intermezzi musicali, ho acquisito una certa sicurezza nel suonare di fronte ad assemblee e comunità sempre diverse, l'uso di vari strumenti, armonium ad aria a volte fatiscenti, organi elettrici o a canne, più difficili da gestire. Esperienze che hanno contribuito all'inizio a farmi le ossa e a suonare poi sia in club che in teatri con poche centinaia di persone, festival con diverse migliaia di persone sino a grandi eventi, soprattutto negli States, con anche più di 100.000 persone davanti, oltre ad avermi dato la capacità di accompagnare e interagire con musicisti, cantanti, artisti in genere, cori di diversa estrazione musicale. Credo che questa esperienza grazie al nonno materno, sia stata fondamentale anche per mio fratello Ettore che, oltre a essere un egregio pianista classico solista e direttore d'orchestra, è anche molto portato e richiesto come accompagnatore e preparatore di cantanti lirici. Stesso tipo di talento ma in ambiti musicali completamente diversi. 
All'età di quattordici anni poi, mentre suonavo in una piccola chiesa in via Taranto in cui la domenica mattina celebrava Don Martino, chiesa trasformata in sala prove durante la settimana, ho conosciuto una ragazza qualche anno più grande, Silvia Schiavone, tuttora la mia più grande amica, che mi ha prelevato dalla chiesa e presentato ai suoi amici musicisti tarantini, tra cui il suo ragazzo, il bassista Umberto Calentini, che mi ha preso a cuore facendomi suonare con lui e gli altri musica prevalentemente afroamericana, dal blues al funk, soul, jazz. È stata la mia più grande ed efficace scuola di musica, sono partito da quell'esperienza».
 
Più di recente sei approdato al pop. È un genere che ha una maggiore presa sul pubblico al giorno d’oggi, o trovano spazio anche altri stili?
«Negli ultimi anni, pur continuando a collaborare in ambito afroamericano, con artisti come Ana Popovic, Susan Tedeschi, Robert Randolph e altri, mi capita sempre più di avere collaborazioni in ambito pop. In realtà già nel '94 avevo cominciato a collaborare intensamente con Gabriella Ferri, di cui ero pianista e arrangiatore. Ho lavorato con lei fino al '98, suonando anche all'estero, in Europa e Sud America. È stata la mia prima esperienza "pop", anche se d'autore: un'esperienza unica con un'artista grandissima, magnetica, vera. Ricordo che ogni mio compleanno e giorno di Natale non mancava di telefonarmi per gli auguri anche a casa dei miei genitori a Martina Franca. Un episodio simpatico che ricordo con il sorriso, il nostro primissimo concerto insieme. Eravamo, alla fine del '94, in un teatro di Berna, nella Svizzera tedesca e Gabriella sale sul palco dalla parte del pubblico,  venti minuti prima dell'ora stabilita, cominciando a parlare al pubblico, all'inizio perplesso, poi subito conquistato in un religioso silenzio. Noi eravamo ancora nel camerino a vestirci. Entrati sul palco Gabriella mi chiedeva, come previsto, di cominciare a suonare un'introduzione per un suo brano d'apertura; l'unico problema era che lei era seduta al mio posto davanti al pianoforte! Di casi poi "difficili da gestire" in ambito pop ne ho incontrati molti negli ultimi quindici anni, lavorando molto con altri artisti tra cui in particolare Patti Pravo e Anna Oxa, delle cui band ero pianista/tastierista e direttore musicale; ho poi avuto collaborazioni live e in studio di registrazione con Jovanotti, Max Pezzali, Articolo 31, Davide Van De Sfross, Bobo Rondelli, e tanti altri. Da alcuni anni collaboro stabilmente con Dolcenera, mia grande amica da oltre quindici anni, Karima, che considero la mia sorellina e conosco da quando, a tredici anni, la notai che cantava in una chiesa di Livorno e la invitai a cantare in un teatro per un concerto che organizzavo io con una cantante americana;  lo scorso anno ho avuto la fortuna di essere pianista/organista di Adriano Celentano nei suoi concerti all'Arena di Verona, trasmessi in diretta su Canale 5. A parte le collaborazioni, ciò per cui sono orgoglioso è che la frequentazione più assidua dell'ambiente pop negli ultimi anni è avvenuta anche e soprattutto grazie il raggiungimento di un mio sound, di una mia personalità musicale, frutto di tanta e variegata esperienza di palco».
 
Hai lavorato davvero con artisti straordinari. Ce n’è qualcuno che prediligi o che apprezzi particolarmente?
«Di sicuro prediligo e apprezzo maggiormente, almeno musicalmente, gli artisti più vicini alla mia sensibilità musicale, intrisa di black music in senso lato. Dunque non posso non citare la collaborazione con la grande Etta James e la sua band, la Phantom Blues Band, di base a Los Angeles, con cui sporadicamente ma per anni ho avuto l'onore di suonare; poi Erma Franklin, Patti Austin… artisti straordinari che mi hanno dato tanto! Eccezionale e unica è stata poi l'occasione di collaborare, nell'estate 2000, con la Warner Bros per alcuni eventi organizzati tra Italia e Svizzera, in cui ho avuto il piacere di accompagnare la grande Withney Houston in un repertorio di Spirituals, genere di cui lei era interprete straordinaria e con cui è nata e cresciuta. Emozione pura, che ho poi provato in altre occasioni con diversi artisti di gospel, anche meno conosciuti ma autentici e ispirati. Con Jovanotti ho lavorato per lo più in studio; nonostante non sia un vero e proprio cantante è comunque un grande comunicatore e catalizzatore di bravi musicisti e soprattutto di idee spesso fresche e innovative, almeno in Italia. Nicoletta, in arte Patti Pravo, la considero una delle ultime grandi interpreti della musica italiana, diva, magnetica, unica, provocatoria, nonostante di difficile gestione sul palco. Nei nostri momenti di piano e voce mi trasmetteva sempre tanta energia e vibrazioni. Ricordo con simpatia un episodio di un paio di anni fa.: finita la prova del suono, al Sistina di Roma, io mi ero trattenuto al pianoforte suonando, a teatro vuoto, una mia composizione, fra l'altro molto particolare e complessa. Lei si è avvicinata a me con un gran sorrisone dicendomi: "Ah, ricordo che ai miei tempi suonavo sempre anch'io questo brano al pianoforte!!". Ultimamente non sta passando un grande periodo e le auguro di ritornare sul palco presto. Di Manuela, in arte Dolcenera, nutro una profonda stima e rispetto per essere un'artista completa, grande voce e personalità, energica pianista, brava e singolare autrice di brani e testi, sempre curiosa e pronta a rischiare artisticamente, oltre alla indiscussa simpatia. In ambito jazz italiano ammiro molto il trombonista Gianluca Petrella, con cui ho lavorato per anni e in diversi progetti. Gianluca è un profondo conoscitore ed esecutore del jazz tradizionale e moderno che ha saputo unire al free e sonorità contemporanee ed innovative, alla musica elettronica, con una sconvolgente creatività e disinvoltura. La collaborazione con lui mi dato tanto».
 
Tornando alla tua produzione il tuo primissimo album “Kythera” è stato realizzato nel 1997. Com’è nato?
«Era un progetto completamente acustico, jazz, di musica originale, in cui jazz afroamericano, musica brasiliana e tradizione colta europea erano ben compenetrati in una musica molto aperta e di ampio respiro; miei compagni di viaggio erano Paolimo Dalla Porta a contrabbasso, Massimo Manzi alla batteria, Stefano "Cocco" Cantini al sax e Gilson Silveira alle percussioni».
 
Con “Afrocentradelic”, invece, si parla di nu-jazz. Cosa si intende di preciso?
«È un genere di difficile catalogazione, in quanto c'è una grande fusione della tradizione jazz elettrica, dal Miles Davis degli anni ‘70 ai Wather Report, unita al funk, al rock, alla musica africana e alle esperienze contemporanee del jazz newyorchese, con incursioni nell'hip hop. Insomma una musica di ricerca, anche se con una precisa personalità e un sound omogeneo. Questo album, che si discosta completamente dalla produzione discografica jazz italiana, ha avuto un ottimo riscontro nelle varie riviste jazz internazionali. Spero ci sia presto un seguito!».
 
Attualmente in cosa sei impegnato?
«Al momento, sotto l'aspetto "live", continuo dopo otto anni insieme a collaborare con la chitarrista e cantante Ana Popovic, in giro per il mondo; con Dolcenera, con cui stiamo preparando il nuovo album; con Omar, un grande artista soul inglese; e sto lavorando a nuovi progetti discografici con Karima e nel jazz con Gianluca Petrella. Inoltre sono parecchio attivo a livello didattico, aspetto che amo quasi quanto il "live"; sto scrivendo un metodo didattico abbastanza corposo e personale e seguo alcuni corsi e seminari in giro per l'Italia. Quando ho un po' di respiro e tempo mi dedico a scrivere la mia musica. Oltre la musica partecipo attivamente alle attività di un'associazione che aiuta l'Africa e l'India sotto molti aspetti. Si chiama Bhalobasa. In questi luoghi vorrei andarci sempre più spesso, ho un grande "Mal D'Africa" da soddisfare».
 
E il sogno nel cassetto? 
«Musica sempre più di qualità ma anche e soprattutto, più amore genuino e… una famiglia mia».
 



Commenti:

SANDRO MORINI 27/SET/2013

Grande Michele, un salutone

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