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C´è chi dice no/Questo non è amore

Pubblicato da: Categoria: COVER

29
NOV
2013
Tante le forme di violenza sulle donne, e talvolta così subdole da non lasciare lividi. Ma il dolore c’è, eccome. È necessario un cambiamento culturale, anche nelle cose più semplici. E a certe canzoni, preferiamo parole d’amore
 
Ieri
Aida Patria Mercedes, Maria Argentina Minerva, Antonia Maria Teresa Mirabal sono tre sorelle nate a Ojo de Agua, provincia di Salcedo nella Repubblica Dominicana, da una famiglia benestante. Famose per aver combattuto duramente la dittatura del dominicano Rafael Trujillo, la loro lotta è ricordata con il nome di Las Mariposas (Le farfalle). 
Il 25 novembre 1960 Minerva e Maria Teresa decidono di far visita ai loro mariti, detenuti in carcere. Patria, la sorella maggiore, decide di accompagnarle nonostante il parere contrario della madre che teme per le sue figlie. Le tre donne, infatti, vengono prese in un’imboscata da agenti del servizio segreto militare, torturate e uccise. I loro corpi massacrati vengono gettati con la loro macchina in un burrone. Il brutale assassinio delle sorelle Mirabal sconvolge un’intera popolazione e il 17 dicembre 1999 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, con la risoluzione 54/134, dichiara il 25 novembre Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne,  in loro memoria.
Oggi
Sono passati 53 anni dall’assassinio delle tre sorelle, ma il loro nome continua a essere ricordato assieme a quello di tutte le altre donne che nel corso di questi anni hanno pagato con la vita le violenze di persone senza scrupoli, vittime di un retaggio culturale gretto e di tendenze misogine e primitive. 160 i casi di femminicidio nel 2012: una violenza che nei casi peggiori uccide, ma che si manifesta sotto mille aspetti, lacerando e annullando  lentamente la dignità femminile. Qualche mese fa, in un’intervista rilasciata su questo settimanale, la dott.ssa Cinzia Mammoliti, criminologa, parlava di “vampiri energetici”, uomini seriali che, attraverso manipolazioni verbali, esercitavano abusi psicologici. Una delle forme più subdole e meschine che mina equilibri mentali, plasma la nostra volontà e si nasconde dietro la maschera di un uomo gentile, insinuandosi nell’apparenza beffarda di una relazione perfetta: violenza psicologica. A Molfetta, pochi giorni fa, tuona la notizia di una quattordicenne adescata su facebook e stuprata ripetutamente da un branco di ragazzini, tre dei quali minorenni. Durante una recente puntata della trasmissione Le Iene, Pablo Trincia racconta la storia di Daniela, una ragazza bulgara malmenata e maltrattata dalla sua datrice di lavoro, paradossalmente una psicologa, che oltre a riempirla di lividi, la ricopre costantemente di insulti legati alla sua provenienza straniera. In questo caso il mobbing esercitato sul luogo di lavoro, per giunta in condizioni di sfruttamento, evidenzia come sia una donna a esercitare violenza su un’altra donna: un aspetto fondamentale che deve aiutarci a non scadere in visioni fuorvianti che etichettano l’uomo come unico responsabile di ogni forma di violenza femminile. Una lista di esempi ancora troppo lunga e un’infinità di storie che si intrecciano nel dolore e nella disperazione di donne diverse, ma accomunate da un simile destino. Ma come reagiscono le vittime di queste situazioni? E quanti ostacoli devono superare prima di tornare a vivere?
Quando le donne non sono sole
In Italia sono ancora troppo poche le donne che denunciano. In molti casi, la donna è inibita da una mentalità che l’ha sempre relegata a una posizione subalterna, inducendola a percepire come ‘normali’ episodi di violenza domestica reiterati ai danni della sua persona e di eventuali figli che rendono l’impasse ancora più ostica. Ci sono donne che non hanno un’indipendenza economica e questa condizione frena il loro allontanamento dal compagno, altre donne, invece, si convincono di poter cambiare colui che lentamente sta divorando la loro anima, chiudendosi in un silenzio letale fatto di vergogna, timore e paura. Tuttavia, uscire da queste situazioni è possibile e sono tante le storie che ce lo dimostrano: esempi di donne che hanno reagito riappropriandosi della loro vita, denunciando e rivolgendosi a dei centri antiviolenza, strutture validissime che offrono percorsi riabilitativi e diverse forme di assistenza. Un aiuto in più (e necessario) pare provenire anche dalle istituzioni: recentemente, infatti, il femminicidio è diventato legge arricchendosi di un provvedimento che garantirà più protezione alle donne con la speranza che giungano segnali positivi anche dalla macchina della giustizia, spina nel fianco del nostro Paese, costantemente alle prese con procedure lunghissime e processi interminabili che talvolta si concludono in un nulla di fatto, lasciando i colpevoli impuniti. 
Quando gli uomini non devono rimanere soli
Colpevoli che vanno giustiziati, ma anche cambiati. Alla radice di ogni violenza si nasconde sempre un disagio che diventa aberrante e sfocia in manifestazioni di imposizione sull’altro da riconoscere e curare. Il carcere non sempre rappresenta una possibilità di redenzione, per questo è importante radicarsi nella mentalità del cambiamento. Il primo centro pubblico per uomini che usano violenza contro le donne, Ldv (Liberiamoci dalla violenza) è nato nel 2011 dall’Ausl di Modena, sul modello norvegese che ha formato gli operatori italiani: qui, uomini di tutte le età, le classi sociali e di ogni estrazione culturale, all’apparenza normali, vengono aiutati a liberarsi dalla violenza e nei casi migliori otto maschi su dieci ci riescono, dopo aver seguito una lunga terapia dall’inizio alla fine. 
Uomo e donna come società
È importante che le donne capiscano che non reagendo saranno le prime a permettere violenza e che gli uomini realizzino che la violenza è una scelta, la peggiore possibilità, figlia di una cultura sbagliata, dove il maschio per dimostrarsi tale deve reprimere le emozioni, sin da bambino. A volte è proprio da qui che bisogna partire, dall’infanzia, dall’adolescenza, perché ancor prima di intervenire sul singolo uomo e sulla singola donna, bisogna lavorare tantissimo in termini di società, analizzando seriamente quali siano i modelli più diffusi con i quali ci confrontiamo quotidianamente e nei quali si riflettono le generazioni più giovani. Qualche tempo fa, leggevo di alcune proteste contro il germe atavico della misoginia, evidente in maniera sottile anche nei testi delle canzoni più famose. Si parlava di Mina, con il suo Grande Grande Grande, completamente avvinta e dipendente da quell’uomo «peggio di un bambino capriccioso che la vuole sempre vinta lui», per poi parlare della musica di oggi, quella che fa più male perché ascoltata dai nostri ragazzi. Testi sessisti, crudi e violenti, quelli che «ti ci strappo le ovaie e me le cucino» (Fabri Fibra, Venerdì 17) che «godo nel vederti persa, vittima della mia rabbia» (Modà, Vittima), che inducono a meditare un attimo, prima di canticchiarne le note sotto la doccia: scusate se in questo momento sto smontando la colonna sonora di qualche lettore, ma io certe canzoni le ho debellate dal mio repertorio: preferisco intonare ancora parole d’amore che riempiono i cuori, preferisco continuare ad ammirare e a credere negli uomini onesti e rispettosi, in grado di trasmettere sensazioni bellissime, preferisco continuare a godermi la mia vita, piuttosto che far godere qualcun altro della mia rovina. 
 


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