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Salvo Sottile/Indovinate chi è il colpevole

Pubblicato da: Categoria: COVER

27
FEB
2015
Dopo “Quarto grado” in tv, il  giornalista siciliano presenta il suo romanzo dove c’è un killer e tante verità. Un modo di “disintossicarsi” senza mai perdere di vista la cronaca
 
 
Al Dock’s 101, quel posto immaginato dai suoi cinque soci per trascorrere curiosamente le serate tra musica, libri, teatro, amici e cucina creativa, il 20 febbraio Salvo Sottile ha presentato “Cruel”.  A dialogare con l’autore sul suo romanzo edito da Mondadori, uscito il 14 gennaio e già al secondo posto nella top ten dei thriller più letti in Italia, la sagace giornalista di TeleNorba Grazia Rongo. Al termine del firma copie, Salvo Sottile si è concesso un Dock’s caffé, una sigaretta fumata ammirando il lungomare di Via Nardelli e non si è sottratto a un extra interrogatorio.
 
Salvo Sottile ci dia degli spunti per accanirci alla lettura del suo "Cruel".                                       
«Cruel è un romanzo che racconta un male all’interno di un luogo chiuso e quindi all’interno di questo romanzo ci sono tanti personaggi e ognuno è un colpevole possibile, perchè ognuno ha un motivo per uccidere. Ci sono tanti serial killer: c’è quello dei ricordi, il serial killer del cuore e infine quello vero che ha la faccia paciosa di chi non ti aspetti e ti dà una carezza. Non c'è una verità, ce ne sono tante. Il lettore entrerà dentro questa storia  seguendo un suo filo, una sua convinzione che poi si ribalterà alla fine quando leggerà l’ultima parte».
 
Una studentessa assassinata, Marta Luci, un giornalista cialtrone e un poliziotto. Quanto Salvo Sottile c'è in questi personaggi e negli altri che albergano nella redazione del crime magazine "Cruel", campo gravitazionale del male?
«C’è parte di me in ognuno di loro, anche nei personaggi malvagi che ho disegnato in filigrana per farli vedere al lettore. "Cruel" è  un impasto di varie sensazioni,  suggestioni e bagagli di esperienze, le mie! Ho iniziato a fare il giornalista da ragazzino in Sicilia, nei tempi in cui il  mestiere passava per le suole delle scarpe perchè bisognava andare in giro in cerca di notizie e si era costretti a crescere troppo in fretta».
 
E da ragazzo cresciuto e con le suole delle scarpe consumate è stato anche inviato di guerra in Afghanistan. La crudeltà l'ha vista con gli occhi, qual è l'immagine che non può cancellare dalla memoria?
«Quella di aver visto molta gente che cercava di fuggire verso la salvezza e che invece veniva mitragliata appena usciva da un confine,  oppure vedere delle donne picchiate per strada, bambini che morivano come le mosche,  quelle sono cose che non dimentichi mai.  Viviamo in un mondo in cui ci voltiamo dall’altra parte quando ci sono queste storie, non vogliamo guardarle però,  purtroppo,  sono realtà che  succedono vicino a  noi e con cui dobbiamo fare i conti».
 
Ritiene sia possibile catalogare come un atto di crudeltà anche la distruzione di opere d'arte?  Gli Hooligans del Feyenoord, profanando la Barcaccia del Bernini a Roma, hanno acceso un dibattito infuocato in merito. 
«Può essere ma quella è più inciviltà che crudeltà, associata alla mancanza di preparazione nell’affrontare temi come questi.  Lì secondo me un po’ di  responsabilità qualcuno ce l’ha perché ha sottovalutato il pericolo di quello che sarebbe potuto succedere.   Non penso sia crudeltà ma più incuria di chi doveva controllare e non ha controllato,  incuria di chi viene  lasciato libero di  distruggere qualunque cosa».
 
Durante l'incontro, mentre dialogava con la collega Grazia Rongo,  ha affermato di aver scritto "Cruel" per disintossicarsi dal male, perchè? 
«Noi abbiamo cambiato il modo di raccontare la cronaca nera  in televisione però,   a un certo punto,   il distacco che devi avere nel raccontare le storie  non  lo hai più  perché sei troppo coinvolto.  Avevo bisogno di un periodo di pausa per staccare,  per fermarmi e incominciare a pensare.  Questo romanzo,  insomma,  è il modo che ho scelto per cercare di elaborare tutto quel male che avevo accumulato e disintossicarmi».
 
Come si annidava in lei quel male?
«Nel modo in cui lo raccontavo agli  altri lasciava tracce dentro di me perché, comunque, una coda sedimentava all’interno della mia  persona.  Sono fatto di carne e ossa, altrimenti avrebbero fatto condurre a un robot».
 
C'è qualche caso che le ha lasciato impronte maggiori?
«Tutti mi sono rimasti impressi e tutti li ho analizzati col filtro della ragione cercando di capire,  ancora a distanza di anni,  come sono andate le cose. Non ci sono riuscito, ne ho citati alcuni prima, da Chiara Poggi a Sarah Scazzi». 
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Ha ricordato anche gli occhi a "sentinelle del lutto" del caporalmaggiore  Salvatore Parolisi  che ha ammazzato nel 2011 la moglie Melania Rea. Credeva alla sua innocenza urlata in tv mentre lo intervistava?
«Non gli credevo!  Ho avuto il primo sentore che il lavoro che stavo facendo evidentemente non stava dando i suoi frutti e che non ero sufficientemente distaccato. Ammetto di aver avuto anche un po’ di  pregiudizio,  poi alla luce della sentenza non avevo torto».
 
Il caso è tornato recentemente alla ribalta perchè la Corte di Cassazione non ha riconosciuto l'aggravante di crudeltà,  nonostante le 35 coltellate inferte dall'assassino alla vittima. Qual è la sua opinione in merito?
«Che non c’è l'aggravante della crudeltà mi sembra folle,  perché già dare 35 coltellate  a una persona è crudele».
 
Sa spiegarci il motivo per cui  le vicende di femminicidio sono così morbosamente seguite? 
«Tutte le donne più famose della cronaca nera sono tutte normali. Roberta Ragusa, Melania Rea, Elena Ceste  sono donne che avremmo potuto incontrare per strada e che hanno avuto mariti molto simili ai  mariti comuni.  Si crea una sorta di effetto di immedesimazione nella storia».
 
Il problema è cercare di capire dove sta la verità e oggi,  puntualmente,  troppi indiziati vengono giustiziati in processi mediatici o sui social ancor prima che venga emessa la sentenza di condanna. Cosa sta accadendo?
«Oggi è difficile trovare un’inchiesta, una storia a prova di bomba. Ci sono sempre due verità:  quella  dei media che permettono alla storia di emergere, di venire alla luce del sole e poi c’è la verità delle forze dell’ordine. L'una senza l’altra non ha ragione di esistere,  perché delle storie si parla solo quando c’è un riflettore acceso.  La cronaca ha sempre bisogno di un volano altrimenti non ha ribalta e questo provoca una sua degenerazione, anche del modo di raccontarla.  La cronaca nera è una sorta di droga messa in circolazione per pompare l'ascolto. A volte può essere utile alle vittime parlarne, altre volte parlandone a sproposito si può solo fare danni.  Le  storie di cronaca nera vengono date in pasto al pubblico  perché c'è il processo di immedesimazione ma anche perché noi è come se volessimo sentirci raccontare sempre la stessa storia.  I programmi televisivi non danno indizi,  non risolvono inchieste ma raccontano storie che attirano l’attenzione. Noi viviamo in quel quadro per un paio d’ore e poi usciamo dal quadro puliti e quasi contenti,  perché guardando i drammi degli altri le nostre vite ci risultano migliori. E' come quando c'è un temporale e noi lo guardiamo dietro  alla finestra, ne  siamo attratti ma vogliamo stare all’asciutto.  Non conta il giornalismo investigativo, conta come viene offerta la storia al grande pubblico e l’attenzione viene manipolata.  La verità non sempre è quella che appare!».
 
In "Cruel" c'è la nota:  "Al capostazione Sciuto, che poi la vita è tutta una questione di treni afferrati e persi". Quel capostazione di Cefalù era suo nonno materno, che ricordo ha di lui?
«Un ricordo molto forte,  gli ho dedicato il libro proprio per questo.  Sono cresciuto con lui e se ne è andato quando avevo 13 anni. Alla  fine  mi è rimasto un po’ il rimpianto di non averlo visto e vissuto da grande».
 
A proposito di treni afferrati e persi mi è venuto in mente "Quarto grado",  la trasmissione che ha portato al successo su Rete 4 e alla cui conduzione c'è attualmente Gianluigi Nuzzo.
«Di "Quarto grado"  io ho un ricordo splendido,  ho dedicato anche il libro a una persona che ha lavorato con me,  detto questo,  poi  nella vita si cambia,  ci si ferma,  si prendono strade diverse però alla fine  restano le passioni,  i bei ricordi e anche la consapevolezza di aver fatto un buon lavoro e un servizio utile alle persone».
 
Un servizio utile alle persone che le diede popolarità tanto da renderla vittima delle  parodie di Fiorello.  Quale fu la sua reazione?
«Buona. Siamo amici e io non mi prendo mai troppo sul serio quindi, quando mi fanno le parodie,  ci rido sopra sempre».
 
Una curiosità:  lo sa che a due passi da Locorotondo,  a Martina Franca,  è nato Donato Carrisi, autore di romanzi bestseller e considerato il mago del noir?
«Certo! Io sono un grande fan di Donato,  siamo molto amici e mi ha fatto una splendida presentazione del mio libro a Milano. Io  sono pazzo dei  suoi libri, me li bevo tutti e mi piacciono tantissimo. Lui,  oltre ad essere un grande scrittore,  è una persona eccezionale di cui mi onoro di essere amico».
 
Gli ha chiesto cosa pensa del suo romanzo?
«L’ha definito uno dei thriller più belli che abbia mai letto quindi questo mi fa piacere».
 
Scriverà ancora romanzi di notte, mentre i suoi figlioletti dormono, o tornerà a condurre col suo ineluttabile carisma?
«Non so. Per  ora "Cruel", "Cruel" e basta!».
 



Commenti:

Antonella 27/FEB/2015

Complimenti!!! Articolo letto d'un fiato!!! Interessanti le tue domande e le sue risposte!!!

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