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Antonella Chionna/Il bello di dire no

Pubblicato da: Categoria: COVER

29
GEN
2016
Vive mondi paralleli che influenzano quello che scrive e che canta. Il suo comandamento interiore è rimanere fedele a se stessa e alla sua creatività, anche a costo di parecchi rifiuti. D’altronde – ci ha chiesto - «voi andreste a letto con chiunque?»
 
La recente uscita sul mercato discografico (disponibile anche su i-tunes e spotify) del disco di Antonella Chionna& Andrea Musci, Halfway to dawn – sing a song of Strayhorn, accende i riflettori sull’artista martinese Antonella Chionna. Si tratta del suo secondo cd ufficiale (per la casa discografica DODICILUNE – distribuzione IRD) dopo il brillante esordio Adiafora che sancisce la maturità artistica della cantante e conferma i mezzi tecnici non comuni. A soli 25 anni la Chionna entra di diritto nei piani alti del canto jazz italiano, un panorama affollato e qualificato, anche in virtù della ulteriore, prevedibile crescita artistica. Agostino Convertino, che l’ha intervistata per Extra, la definisce nightingale (usignolo) per la sua padronanza della gamma alta della voce ma, in realtà, Antonella Chionna si distingue su tutta la linea delle ottave. Il risultato è una straordinaria duttilità vocale che le consente l’uso della voce come un vero e proprio strumento, in continuità con le grandi interpreti del canto jazz del secolo scorso. 
 
Dopo il tuo disco d’esordio “Adiafora” e una prestigiosa presenza in una compilation dedicata a Billie Holiday, arriva il tuo secondo lavoro ufficiale (Halfway to dawn – sing a song of Strayhorn), dedicato alla figura del grande Billy al fianco di Duke Ellington, ndr). Quali sono le differenze sostanziali tra i due lavori?
«Adiafora si presenta all’ascolto esattamente per quello che il concept esprime: “Le cose indifferenti”. E’ un lavoro basato prevalentemente su antifrasi socio-musicali: su quello che ha condizionato i miei ascolti adolescenziali, su quello che era la mia condizione umana e musicale cinque anni fa; ho iniziato a pensarlo e a scriverlo nel 2011. E’ un disco ironico: vocalmente, concettualmente ed è composto da un organico standard, è “facile” all’ascolto e, appunto,  è adiaforeico.  Halfway to dawn (sing a song of Strayhorn) esce, quasi, in concomitanza con il mio venticinquesimo compleanno: focalizza meglio l’attenzione su ciò che, non essendo indifferente, qualifica in pieno il mio pensiero vocale o artistico, che dir si voglia. Quest’ultimo album assume maggiori responsabilità e rischi: l’organico è ridotto, Dio benedica Andrea Musci (il migliore chitarrista/compositore in circolazione), il concept è monografico, Dio benedica Billy Strayhorn, l’assetto vocale è definitivamente dimensionato: Dio benedica le dinamiche e gli estremi della voce». 
 
La promozione di un disco, soprattutto per un artista giovane quanto dotato, può rappresentare la parte più difficile di un lavoro. Qual è il tuo giudizio in merito alla situazione pugliese e, più in generale, come stai spingendo il disco a livello nazionale?
La promozione di un disco, confrontandomi con i colleghi di cui condivido status e pensiero musicale, non può riguardare esclusivamente il musicista: avviene, nelle situazioni in cui sono coinvolti giovani artisti di mia conoscenza, che in mancanza di una reale possibilità di cooperazione tra le figure in gioco, il lavoro sia polarizzato a discapito del fare musica concretamente o del singolo, che dir si voglia band, duo, trio ecc. Una buona parte del lavoro di promozione è eccellentemente portata a compimento dalla casa discografica, in tal senso la Dodicilune mi aiuta notevolmente; in questo risiede l’importanza della scelta legata all’etichetta che saprà valorizzare al meglio il tuo lavoro.
 
Il tuo approccio discografico alla musica, e a quella jazz in particolare, avviene per sentieri non sempre facili in un’epoca di grande circolazione degli “standard” prodotti da una frotta di giovani ed agguerriti artisti.
 
Secondo te, questo rappresenta un handicap o alzare sempre (e scomodamente) l’asticella della qualità è l’unico modo per non omologarsi?
«Non credo che il problema siano gli standard o il jazz o la volontà di omologarsi, anzi: il limite del cantare o suonare alla maniera con cui erano suonati gli standard, ai tempi della mia giovane nonna (anni cinquanta/sessanta) è una condanna a priori, se penso che il “Canto Jazz” è finito (bisognerebbe anche capire se sia mai esistito): seriamente cosa potrei aggiungere io alla genialità di una Sarah o un’Anita o una Billie o, per restare in Italia, una Tiziana? Nulla: non sono in grado. Non certo per modestia che non considero un valore ma, per logica: i miei martiri interiori sono tutti italiani e ascrivibili al XXI secolo. 
Sono nata nel 1990, c’erano i computer e i cellulari e il Nintendo: credo che l’unico modo di creare qualcosa di nuovo sia restare fedeli a se stessi, anche se sei schifosamente versatile e, in tal senso, fare una selezione, può aiutare; dire no, grazie: questo non lo faccio, non m’interessa. 
D’altronde, tu andresti a letto con chiunque? 
Io, forse: ma so come va a finire».
 
Sei mai colta dalla tentazione di allestire produzioni che ammiccano al grande pubblico per far conoscere le tue straordinarie qualità tecniche?
«Credo di aver risposto parzialmente, nella risposta precedente, a questa domanda.
Credo anche che queste straordinarie qualità tecniche, cui alludi nella domanda, siano prevalentemente nelle orecchie di chi mi vuole meno bene; mi spiego: quando uno è, apparentemente, inattaccabile si tende a circoscriverlo in un ambito incontrovertibile: “Oh, questo non lo so fare o non mi piace: è perché io sono emotivo e quello è tecnico”, nella mia testa avviene, invece: ”Oh, questo non lo so fare e che mi piaccia o meno: mi compro il disco, al limite gli faccio un colpo di telefono.”, in questo modo elimino il gusto personale e guardo al quadro generale: e in questo, non c’è nulla di tecnico.
La mia voce parla da sola, e può non piacere; certo sarebbe, come dire che non ti piaccio perché sono mora con gli occhi scuri: posso allestirmi quanto voglio, vedrai quello».
 
Oltre a fare la cantante e la compositrice sei anche una eccellente scrittrice – poetessa. Come si conciliano questi due mondi creativi? Sono impermeabili l’uno all’altro o possono influenzarsi vicendevolmente?
«In realtà sono anche una scarsissima ex ballerina classica, un’amorevole zia, una terribile figlia e una discreta intenditrice di liquori e sigari: sono mondi paralleli che influenzano quello che vivo; dalla mia ho il fatto di aver sempre letto molto, per puro diletto, e di avere sempre avuto una parlantina, secondo i casi, abbastanza sviluppata: credo che contribuisca a tenere i “due” mondi vicendevolmente permeabili».
 
Una domanda solo apparentemente banale: quali sono i progetti futuri per una artista giovane e in piena marcia?
 
«Non considero l’esterofilia un valore aggiunto, tuttavia non nego che la curiosità di fuggire la provincia nazionale sia forte. E per provincia nazionale, intendo il modus operandi che intacca, quotidianamente, le mie energie intellettuali: essere in un modo conveniente, stare con quelli “giusti”, possedere lo status, desiderare il voler desiderare, fare finta perché in fondo sei avvizzito e irrecuperabile. Per quanto combattivo, forte e vitale tu possa essere, la provincia è coesa e regolata esattamente dalle moltiplicabili costanti sopra elencate: che non qualificano, a mio avviso, un essere umano. Inoltre, concluderò a marzo il mio percorso accademico e sto lavorando a tre progetti: il primo riguarda l’assemblaggio di tutti i miei scritti in lingua inglese e francese, il secondo riguarda (ironia della sorte) l’esplorazione degli standard con un pianista americano col quale sto avendo la piacevole possibilità di confrontarmi, il terzo ha già un focus potente sul mio prossimo disco da solista di cui conosco titolo, organico e contenuti ma che, per ovvie ragioni, non posso svelare».
 


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