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Il racconto/ Diventare padre

Pubblicato da: Categoria: Curiosità

7
AGO
2015
Quando lasciai l’ospedale albeggiava, qualche stella era ancora visibile in cielo ma l’aurora stava per scalzare definitivamente la notte in cui lui ero diventato papà
 
Mentre ero in macchina, alla ricerca di un bar per prendermi un caffè o un brandy, ancora non lo avevo deciso, alla mente cominciarono ad affiorami mille pensieri e ricordi. 
Ci eravamo conosciuti un anno prima quando, ognuno per proprio conto, ci trovavamo a Roma per partecipare all’ennesimo concorso pubblico. “Per non intristirmi nella miseria”, rispondevo a chi mi chiedeva perché insistessi tanto a voler rincorrere tutti i concorsi che venivano banditi in Italia. In via Cristoforo Colombo ero arrivato verso le otto, e con altri cinquemila partecipanti ero in attesa che venissero aperti i cancelli del palazzo dei congressi. Un gruppo di ragazze, anche loro in attesa e appoggiate ad un muretto, stavano parlando allegramente tra loro: “Male che vada abbiamo fatto una passeggiata a Roma. Figuratevi, io vorrei fermarmi qui fino a domenica, per andare a San Pietro a vedere il Papa”. “E come torni poi a Martina Franca. Che devi dire a casa?” Le rispose ridendo un’altra ragazza del gruppo. Io, che mi trovavo a poca distanza, sentendo da dove provenivano quelle ragazze mi girai e chiesi: “Scusate di dove siete? Chi è di Martina?” Tutte”, gli rispose Eleonora, una delle ragazze. “Anch’io sono di Martina”. Soggiunsi, inserendomi nel gruppo delle ragazze. Quando finalmente i cancelli si aprirono e tutti si accalcarono all’entrata, Eleonora, una delle ragazze, mi cercò con lo sguardo e mi chiese: “Entri con Noi? Ci mettiamo vicini?” Il capannone predisposto per la prova scritta era immenso e i posti a sedere, disposti su una ventina di linee parallele lunghe all’infinito, forse più di sei mila. Io seguii Eleonora tra i banchi e quando prese posto mi sedetti dietro di lei. La prova consisteva nell’apporre una ics su una delle quattro risposte che si trovavano già scritte su un lungo questionario di test psicologici. Finito di collocare su tutti quei arzigogolati fogli le crocette a casaccio, perché sapere tutte le risposte risultava evidente sin dall’inizio, non consegnai il lavoro, ma attesi che Eleonora mi facesse un cenno per poi uscire insieme. Appena all’aperto ci chiedemmo a vicenda come fosse andata la prova. “Boh”. Disse Eleonora. “Boh”. Le feci eco io. “Dove alloggi”. Ci chiedemmo all’unisono e subito scoppiammo in una fragorosa risata. Eleonora alloggiava in un istituto gestito dalle suore, nei pressi di Porta Pia. Io aveva preferito prenotare in un albergo fuori Roma, a Castel Gandolfo, sul lago d’Albano nella zona dei Castelli romani. Una volta all’aperto, senza attendere le altre ragazze, ci avviammo verso il centro della città e arrivati in Campo dei Fiori ci fermammo per un breve spuntino. “Torniamo questa sera, sul tardi? Che ne dici? Qui la notte c’è la movida romana”. Chiesi, mentre ci stavano alzando per riprendere il cammino. “ Non lo so.” Mi rispose Eleonora. “Bisogna vedere che ne pensano le suore. A che ora chiudono il portone.” Sfruttammo tutto il pomeriggio e buona parte della serata passeggiando tra piazza Navona, il Panteon, piazza Venezia e Trinità dei Monti. Ci stavamo tenendo per mano e, anche se non ricordavamo quando e dove fosse accaduto per la prima volta, provavamo una piacevole e deliziosa sensazione nel sentire quel contatto fisico. Per fare piacere ad Eleonora ci facemmo anche due volte tutta via Condotti: prima guardando le vetrine di destra e poi, risalendo, quelle di sinistra. Il giorno successivo andai ad aspettarla in via XX Settembre, nei pressi dell’istituto, ma quando Eleonora si presentò all’appuntamento non tornammo in via Cristoforo Colombo. “Adesso saremo classificati tra quelli che non lavorano. Disoccupati che non cercano lavoro e nemmeno studiano”. Mi disse Eleonora cercando la mia mano. “Concorso più, concorso meno che vuoi che importi? Risposi. “Tanto, hai visto che marea di gente eravamo. Anzi, guarda, sono contento che per una volta sia stato io a decidere e non gli altri: Non ammesso. Lo dico io e non loro. E chi se ne frega?” Replicai dirigendomi  con Eleonora verso piazza Esedra. La mattina successiva, mentre le amiche andarono al terminal per prendere il pullman che le avrebbe riportate in Puglia, noi ci fermarono a Roma e andammo a San Pietro. “ Madonna, non l’avevo mai vista. Ma questa basilica è più grande dello Auchan”. Si lasciò sfuggire, con un fischio di meraviglia, Eleonora. Quando tornammo a Martina Franca, avevamo già deciso: saremmo andati a vivere assieme. Sentivamo di volersi bene. Stavamo bene assieme e la decisione fu presa. Presa magari affrettatamente, come sostenevano i genitori di Eleonora, ma nessuno riuscì a farci cambiare idea. Non eravamo più giovanissimi, e alle spalle avevamo tutti e due esperienze e storie finite male, delusioni e abbandoni, ma volevamo provarci ancora una volta. Tutti e due svolgevamo un lavoro saltuario, determinato, ma che ci consentiva comunque di poter guardare al futuro, per i tempi correnti, si intende, con sufficiente tranquillità. 
Quella notte ero stato svegliato da Eleonora verso mezzanotte: “Guido penso che ci siamo. Mi sento strana. Ho dei dolori”. Mi disse scuotendomi, mentre con l’altra mano si proteggeva istintivamente il ventre. In pochi minuti mettemmo tutto l’occorrente in una sacca e ci dirigemmo verso la clinica. Quando arrivammo Eleonora venne subito visitata da un dottore e poi fatta sparire dietro una pesante porta a vetri. Io invece fu invitato ad accomodarsi fuori. Dovevo aspettare nella sala d’attesa. “Agli uomini non è permesso restare qui, fuori dalle ore di visita. E’ un reparto prettamente femminile”. Mi sentii dire da una petulante infermiera che mi stava accompagnando alla porta. Coi passi misurai la stanza per lungo e per largo. Mi fermavo e mi sedevo, ma subito sentivo il bisogno di muovermi e allora mi alzavo e ricominciavo a camminare nervosamente in quell’angusto, soffocante spazio. Ogni tanto mi giungevano i vagiti di qualche neonato, ma non mi azzardava ad oltrepassare la porta e il corridoio che mi separavano dal reparto, anche se speravo che finalmente qualcuno venisse ad avvisarmi che quello era il vagito di mio figlio. Solo verso le cinque del mattino si aprì una porta a vetri laterale ed una infermiera, in camice verde e mascherina sul viso, mi informò che tutto era andato bene e che madre e figlio stavano riposando. Quando finalmente mamma e figlio furono portati in camera, riuscii a scambiare qualche parola con Eleonora. Era stanca, esausta, con gli occhi arrossati e ancora pieni di lacrime e allora mi limitai a darle un bacio sulla fronte e ad accarezzarle il viso. “E’ bellissimo”. Mi disse, indicandomi il frugoletto che teneva sul petto. Io ebbe il tempo di vedere una testolina, ricoperta di capelli nerissimi, addormentata e poi, per lasciarli riposare, preferii uscire e tornare a casa per rinfrescarsi e cambiarsi. Durante la notte, in tutta quella lunga snervante attesa avevo camminato, pregato, sudato, ma aveva dimenticato la cosa più importante: avvertire i genitori, sia di Eleonora che i miei. Ed ora mi chiedevo se fosse il caso di farlo in quel momento o aspettare quando fossi tornato in clinica e farlo assieme ad Eleonora. Dopo essermi fatto la doccia e cambiato d’abito, ritornai in clinica con dei fiori per Eleonora e un ciuccetto blu per il nostro piccolo Lorenzo. Ma quando arrivai ebbi un sussulto: la stanza era invasa da una marea di gente: i genitori, le sorelle, zie, nonni e amiche di Eleonora e al posto degli auguri, che io mi aspettavo di ricevere, dovetti subire una infinita reprimenda per essermi dimenticato di avvisarli. Quando la sfuriata ebbe in qualche modo termine, perplesso chiesi scusa e mi allontanò per informare anche i miei genitori: “Mamma sono diventato papà e voi nonni.” “Quando, figlio mio? Adesso?” “No mamma, questa notte, verso le quattro”: “E ti ricordi ora di avvisarci, nel pomeriggio?” “Mamma, per favore, non ti ci mettere anche tu adesso”. 
Erano trascorsi due anni da quel giorno, quando una domenica mattina, mentre poltrivamo ancora a letto, ci vedemmo arrivare, ciondolante, a piedi nudi e stropicciandosi gli occhi, il piccolo Lorenzo. Eleonora lo prese tra le braccia, lo baciò e poi lo adagiò tra di noi. “Cosa vorrai fare da grande, Lorenzo? Io dico che devi studiare, ma poi diventare un grande: magari un grande dottore, un grande ingegnere, un grande avvocato. Deciderai tu cosa, ma devi promettermi che diventerai un grande. Vero Lorenzo? E tu Guido, cosa ne pensi?” Mi chiese. “Io?..... Io penso che l’importante sia vederlo diventare grande. Poi sarà lui a decidere”. Risposi sottovoce accarezzando i capelli del bambino, che nel frattempo si era addormentato succhiandosi il pollice.
 


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