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Il racconto/PRECARIO

Pubblicato da: Categoria: Curiosità

5
FEB
2016
Da qualche mese sono andato a vivere da solo o meglio, con un amico per dividere le spese, in un piccolo appartamento all’ultimo piano di un vecchio stabile che, non avendo l’ascensore, ci è stato dato in locazione ad un prezzo semi ragionevole.
Ho 36 anni, laureato in economia e commercio e sono un precario che svolge tre lavori precari e che guadagno, quando mi va bene, mille euro al mese. Sono fidanzato da otto anni con Margherita, anche lei rigorosamente precaria: di mattina fa la maestra in un asilo nido privato e, quando capita, la babysitter. E siccome la chiamano prevalentemente il venerdì e il sabato sera, non riesco mai a trascorrere un fine settimana decente assieme a lei.
Dal lunedì al venerdì, dalle otto alle tredici, lavoro a part-time nello studio di un commercialista; tre pomeriggi alla settimana vado in una casa di riposo per anziani a tenere in ordine la contabilità, la corrispondenza e, una volta al mese, a preparare le buste paga dei dipendenti e il tempo che rimane lo sfrutto per seguire le pratiche dei quattro commercianti che sono riuscito a sottrarre alla concorrenza. 
Quando parlai della mia intenzione di andare a vivere da solo, eravamo tutti e quattro a cena: io, mio padre, mia madre e mia sorella Giuliana. La prima a dire qualcosa fu mia sorella, cioè, non disse molto, sibilò solo un liberatorio: era ora. Mio padre invece alzò per un attino lo sguardo verso di me e poi mi chiese laconicamente se la mia era una decisione già presa o ancora di la da venire e quando gli risposi di si, che avevo già il contratto di locazione in tasca, replicò:
< Allora, visto che si libera la tua stanza, io sposto la scrivania, il computer e parte delle mie cose in camera tua. Così la sera potrò lavorare in santa pace al pc, senza avere nelle orecchie il televisore che tua madre tiene sempre a tutto volume. >
Mia madre invece, dopo aver lasciato trascorrere qualche minuto senza dire una parola, si voltò verso di me e chiese:
< Perché vuoi andartene? Hai dei soldi da buttare? Hai fatto bene i tuoi calcoli prima di azzardare questo passo? Hai calcolato quanto ti verrà a costare questa tua bella alzata d’ingegno? O hai intenzione di andare a convivere con Margherita? >
Le stavo per rispondere che avevo semplicemente la necessità di sentirmi autonomo in tutto e per tutto e che con Margherita non avevamo ancora parlato di convivenza. Ma siccome la vera ragione era un altra, abbassai la testa sul piatto e non aggiunsi nulla.
Quello che ormai non riuscivo più a sopportare, in realtà, era quel mutismo che si era radicato nel rapporto tra mia madre e mio padre. Non si parlavano più. Al massimo, quando proprio dovevano dirsi qualcosa, grugnivano dei si, dei no. Si va bene o, al massimo, quando proprio non potevano farne a meno, si scambiavano delle rigide e frettolose frasi che subito si trasformavano in aspri e spigolosi litigi, che a loro volta, immancabilmente, sfociavano in musi lunghi e in altrettanti lunghi silenzi. E anche il rapporto con mia sorella era diventato altrettanto distaccato. Lei conduceva la sua vita ed io la mia e non c’era nulla che ci accomunasse, se non il malessere reciproco per dover condividere assieme gli spazi di casa.
La molla che fece scattare la decisione arrivò però una mattina, subito dopo essere uscito dallo studio del commercialista e mentre stavo per recarmi alla casa di riposo. Per strada mi ero fermato in un bar per fare uno spuntino e mentre stavo aspettando che mi preparassero un tramezzino, girandomi, notai seduto a un tavolo, in compagnia di una signora molto più giovane di lui, mio padre. Sorseggiavano un aperitivo e sorridevano e parlavano amabilmente tra loro. 
Stranamente non provai nessuna emozione, né ebbi nessuna reazione, se non un leggero imbarazzo per trovarmi li, con le spalle appoggiate al bancone, intento a guardarli mentre loro continuavano a conversare. Ma probabilmente la mia curiosità attirò l’attenzione della signora perché, mentre mio padre seguitava a tenerle le mani e a parlarle, lei incominciò a guardarmi e poi non smise di fissarmi. D’un tratto si sporse verso mio padre e gli disse qualcosa e lui si interruppe, trasse indietro la testa e si girò verso di me. Come mi vide, prima tornò a guardare la signora, e poi si alzò per venire verso di me. < Ciao Matteo. Come mai qui? >
Mi chiese, cercando di non lasciar trapelare la sorpresa e l’imbarazzo che invece provava, e che erano evidenti. Gli risposi che mi trovavo li per mangiare qualcosa prima di riprendere a lavorare e lui, sfoderando un sorriso solo apparente, mi invitò ad avvicinarmi al loro tavolo perché, disse, voleva presentarmi la signora che stava con lui: una sua collega. Io lo pregai di lasciar perdere perché, gli risposi, avevo una certa fretta e mi stavano aspettando. Così, lui con una pacca sulla spalla ed io stringendogli la mano come se fosse un vecchio conoscente, ci salutammo in modo imbarazzante e ridicolo. 
Pagato ed uscito con il mio tramezzino in mano, questa volta, appena arrivato in strada, provai un inaspettato e improvviso disturbo, o meglio, un disgusto, tanto che il tramezzino finì intonso nel primo cestino della spazzatura che mi si parò davanti. In serata, mentre mi trovavo ancora nella casa di riposo alle prese con fatture, bollette e ingiunzioni di pagamento, il mio cellulare squillò ed era mio padre. < Matteo ciao. Dove ti trovi? > < Sto lavorando. Dimmi. > Gli risposi. < No, niente. Senti volevo dirti… Cioè, pensavo che forse sarebbe meglio chiarire. Sai non vorrei che tu pensassi… Insomma, ci siamo capiti, non vorrei che ti lasciassi scappare, magari inavvertitamente, qualcosa con tua madre perché lo sai, con il carattere che si ritrova, ne farebbe una tragedia. E’ una collega. Si, eravamo lontani dall’ufficio ma perché stavamo andando in giro per delle commissioni e, visto che la giornata era così bella, abbiamo approfittato per fermarci a prendere un aperitivo e fare due chiacchere. Sai è… è sola. E’ divorziata. Ha un figlio e un mare di problemi da risolvere. Stavamo solo parlando. Cercavo di tirarle su il morale e di darle qualche consiglio. Sai com’è? Tu capisci come vanno queste cose, vero?... > Io, più per arginare quella sequela di imbarazzanti scuse, che per tranquillizzarlo, lo interruppi: < Non preoccuparti. Ho capito. Non mi devi spiegazioni e poi non avrei comunque detto nulla. Stai tranquillo. >
< Ecco. Appunto. Volevo chiederti proprio questo. Di non farne parola a casa. Ed era quello che volevo sentirti dire. Per stare tranquillo, capisci? Ecco tutto. > Lo riassicurai ulteriormente ma lui, ritenendo forse che fosse giunto il momento di lasciarsi andare, almeno con me, dopo un momento in cui sentii solo il suo respiro, riprese, come liberandosi da un peso che lo stava opprimendo da non so quanto tempo: < Matteo, credimi, non mi ha cambiato solo la giornata, la settimana, il mese o l’anno, mi ha cambiato la vita. E a te lo voglio dire perché sei un uomo e sai come vanno queste cose; e come vanno con tua madre non c’è bisogno che ti dica nulla, che te lo spieghi... Lo sai benissimo >
Rimasi in silenzio perché non sapevo cosa rispondergli. E sinceramente non me ne importava nemmeno un gran che di cosa gli avesse cambiato, a mio padre, quella signora. 
Restai ad ascoltarlo, mentre lui continuava a lasciarsi andare, elencando mille spiegazioni e talvolta cercando comprensione, se non proprio la mia complicità, solo perché era mio padre. 
Chiusa la comunicazione, mi stupii ancora una volta di non avere provato nessuna reazione, nessuna emozione. Restai solo per un attimo con il cellulare in mano a pensare da quanto tempo non mi sentivo per telefono con mio padre: una vita. Poi ricominciai a concentrarmi sui tasti della calcolatrice, cercando di far quadrare le spese gonfiate e gli introiti ridimensionati che la titolare della casa di riposo si ostinava a voler far passare come normale amministrazione.
Quando la sera rientrai a casa, mio padre mi stava aspettando alzato e sembrava ancora turbato, perché mi seguì in camera mia. Non disse nulla, non mi rivolse la parola, si limitò a guardarmi con cipiglio interrogativo, e allora gli buttai li due sbrigativi: tranquillo, tranquillo e poi cominciai a svestirmi. Lui, dopo aver tirato un lungo sospiro di sollievo, mosse solo il capo in un cenno affermativo e, senza aggiungere parola, tirandosi dietro la porta, uscì dalla stanza.
Con mio padre non tornammo più sull’argomento, ma da quel giorno cominciai a prendere seriamente in considerazione l’idea di andare a vivere da solo e finalmente, dopo mesi di incertezze e indecisioni, mi ero deciso. Così, dopo aver affrontato i malumori depressivi di mia madre, la crescente impazienza di mia sorella e dopo aver aiutato mio padre a spostare scrivania, pc e scartoffie nella mia ex stanza, sono andato via di casa. 
Da quando ero andato a vivere da solo le giornate si stavano susseguendo come al solito monotone tra le scartoffie, ma per stare al passo con i miei tre lavori da precario e per gestire la mia nuova situazione da single, le giornate erano diventate convulse e anche sempre più difficili da gestire. Ma ero comunque contento della decisione presa. Finalmente mi ero affrancato da quella situazione familiare che non riuscivo più a sopportare. E piano piano mi ero anche abituato a dovermi organizzare tutto da solo.
Un lunedì sera, mentre ero nella stanzetta, adibita ad ufficio della casa di riposo, Euclide, la figlia della titolare, una montata e altezzosa ragazza un po’ più grande di me, aprì la porta e mi chiese: < Ti ha detto niente mia madre? > < No. Nulla. Cosa avrebbe dovuto dirmi? >
Le chiesi, pensando perplesso a quello che mi avrebbe dovuto dire la madre e che senz’altro ora mi avrebbe riferito lei. Ma per fortuna le mie preoccupazioni svanirono immediatamente quando Euclide mi riferì che la madre voleva che l’accompagnassi, assieme al loro avvocato, a fare un sopralluogo ad una vecchia casa di riposo in vendita, che loro volevano rilevare, ristrutturare e poi gestire. Io detti la mia disponibilità e chiesi solo quando saremmo dovuti andare.
< Partiamo venerdì pomeriggio così nella serata di sabato, dovremmo essere di nuovo a casa. > < Ma dove si deve eseguire questo sopralluogo? E’ tanto lontano da dover restare fuori anche la notte? > Le chiesi stupito. < Si. Sono circa 350 chilometri, ora non ricordo la località, ma abbiamo già provveduto per i pernottamenti. > Avvisai Margherita che in quei due giorni sarei stato assente per lavoro e le dissi anche dove sarei andato, ma non con chi. Mi rispose che anche lei sarebbe stata impegnata in quei due giorni con il suo solito secondo lavoro e così, dandoci appuntamento per la domenica successiva, ci salutammo.
Quando, il venerdì pomeriggio arrivai alla casa di riposo, trovai solo Euclide ad aspettarmi, perché, mi spiegò, il loro avvocato aveva avuto un contrattempo. < Andiamo noi due. Tanto è il primo approccio. Andiamo solo a dare un’occhiata. Guida tu per favore, io con questi SUV non ho la dimestichezza che ha mia madre. > Mi disse Euclide sedendosi al posto del passeggero e incominciando subito ad armeggiare con il suo cellulare. 
Facemmo la strada in poco meno di tre ore e arrivammo in quella località che stava ormai per imbrunire e allora Euclide pensò di chiamare i suoi interlocutori per rinviare il sopralluogo al mattino successivo. Dopodiché, prima gironzolammo per un po’ tra i negozi del centro, poi andammo a cena in un elegante ristorante e, prima di andare a letto, arrivò la sorpresa.
< Matteo… vuoi già andare a letto? Perché non ci facciamo indicare una bella discoteca e andiamo a divertirci? >
Perplesso le risposi che le discoteche, con la loro musica assordante, proprio non le sopportavo e che preferivo andarmene a letto. Lei mi guardò meravigliata e poi, con aria sorniona chiese: < Con chi? > < Come con chi? Con la fata turchina. Non vedi che sono solo? Con chi dovrei andarci a letto? > < Non so? Magari con me? Perché a te dispiacerebbe? >
Che rispondere? L’offerta era allettante, anche se inaspettata e così, dopo aver lasciato scorrere del tempo al bar dell’hotel, sorseggiando vino rosso e conversando più per entrare in sintonia che per la voglia di parlare, salimmo al piano superiore. Il mattino successivo, quando mi svegliai ero solo nella stanza e allora mi vestii in fretta per raggiungere Euclide. La trovai al bar che stava facendo colazione e l’unica cosa che mi disse, in risposta al mio buongiorno, fu: < Guarda che il caffè fa schifo. Prova con il te. > 
Confrontammo i nostri appunti; ci facemmo indicare dal cameriere la strada per raggiungere la zona dell’incontro; parlammo tanto e di tutto, ma non disse nemmeno una parola su ciò che era successo quella notte e così capii che per lei ero stato solo un semplice diversivo. Uno valeva l’altra: discoteca o me, pari o dispari. Niente di più, niente di meno. 
Al ritorno si mise lei al volante e quando arrivammo alla casa di riposo si fermò davanti alla mia macchina e, mentre scendevo, rispose al mio saluto con un semplice cenno della mano e poi ripartì. Io buttai il borsone sul sedile posteriore e, salito in macchina, chiamai Margherita.
< Sono rientrato ora Margherita. Dove ti trovi? > < Sono a casa Matteo. Il bambino ha la febbre e i genitori non se la sono sentita di uscire e lasciarlo solo con me. Così niente babysitter questa sera. Tu cosa devi fare? Sei stanco o ci possiamo vedere? >
Le risposi che sarei passato a prenderla di li a poco per andare a farci una pizza e poi, se voleva, potevamo andare a casa mia. Tanto ero solo. Il mio amico coinquilino non c’era perché era in giro per l’Italia, deciso ad inseguire il suo sogno di musicista. 
Cenammo in una rumorosa pizzeria e poi finimmo la serata a casa mia. Al mattino, quando mi svegliai Margherita era al mio fianco, già sveglia e mi stava osservando. Io, ancora assonnato, le dissi buongiorno e poi la trassi e me.
< Buongiorno anche a te amore. Ma quando ti decidi a chiedermi di venire a vivere qui con te? E’ così bello svegliarsi e poterci abbracciare subito. > Mi chiese Margherita mentre si lasciava scivolare tra le mie braccia. < Ma tu sei già qui con me e soprattutto dentro di me. > Le risposi, mentre lei da sotto il cuscino stava tirando fuori un pacchettino e mi sussurrava nell’orecchio:
< Tanti auguri Matteo. Ti amo tanto. > < Auguri perché > Le chiesi stupito. < Che si deve festeggiare? Che ricorrenza sarebbe oggi? E solo domenica, o sbaglio? > < E’ domenica ma è anche San Valentino, zuccone. Sono otto anni che stiamo assieme e otto anni che te ne dimentichi. >
 
 


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