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1916/2016

Pubblicato da: Categoria: Curiosità

25
FEB
2016
« Mi alzo: sono contento. Vengono i mesi e gli anni, non mi prenderanno più nulla. Sono tanto solo, tanto privo di speranza che posso guardare dinanzi a me senza timore. La vita, che mi ha portato attraverso questi anni, è ancora nelle mie mani e nei miei occhi. Se io abbia saputo dominarla, non so. Ma finché dura, essa si cercherà la sua strada, vi consenta o non vi consenta quell’essere, che nel mio intimo dice “io”.Egli cadde nell’ottobre 1918, in una giornata così calma e silenziosa su tutto il fronte, che il bollettino del Comando Supremo si limitava a queste parole: “Niente di nuovo sul fronte occidentale”. Era caduto con la testa avanti e giaceva sulla terra, come se dormisse. Quando lo voltarono si vide che non doveva aver sofferto a lungo: il suo volto aveva un’espressione così serena, quasi che fosse contento di finire così. »
Queste sono le ultime righe delromanzo: “Niente di nuovo sul fronte occidentale”. Scritto nel 1929 da Erich Maria Remarquee che narra le vicende di un soldato semplice tedesco, durante la prima guerra mondiale: “”Facendo leva sugli ideali della nazione, onore e orgoglio, gli insegnanti di una scuola superiore tedesca persuasero i loro allievi, per l’onore della Patria, ad arruolarsi come volontari e il protagonista, Paul Bäumer, si arruolò insieme ai suoi compagni di classe. Avevano tutti diciannove anni ed erano convinti di vivere una grande avventura e di essere destinati a diventaredegli eroi. Tuttavia, con il passare del tempo, i ragazzi si accorsero di quanto la guerra fossecrudele e inutile e si chiesero anche, senza ottenere nessuna risposta, chi avesse veramente voluto la guerra e per quale ragione.Giorno dopo giorno l'avventura si trasformò in una tragedia, in cui i vincoli di amicizia e cameratismo che aiutavano a superare le atrocità e le difficoltà quotidiane della guerra sparirono con la morte di tutti i compagni di Paul. Anche al protagonistavenne riservata la stessa sorte. Egli morì in una giornata tranquilla e di sole,tre giorni prima della fine della guerra””.
Quando ricevetti l’invito a partecipare alla giornata dedicata agli eventi storici del 1916, la prima cosa che mi venne in mente di fare fu quella di andare a rileggere questo libro e poi documentarmi sulle battaglie che si svolsero nello stesso annoin Francia, tra Verdun e la Somme e quelle sull’Isonzo e Pasubio in Italia,che contarono oltre un milione di perdite tra gli alleati franco-inglesie italiani e i nemici austro-tedeschi. Presiscrupolosamenteappunti anche sui processi e le conseguenti condanne a morte inflitte ai patrioti italiani:Cesare Battisti, Fabio Filzi e Damiano Chiesa, che furono eseguite, in tempi diversi, nello stesso anno. Poi, arrivato il giorno del convegno, presentai la mia relazione al comitato organizzatore e attesi il mio turno seduto, assieme ad altri docenti e storici, sul palcoscenico di un teatro gremito di giovani studenti.
Quando il coordinatore mi avvisò che era arrivato il mio turno e per questo mi invitava ad avvicinarmi al microfono per leggere la mia relazione, proprio in quel momento mi stavo chiedendo cosa potesse interessare ai ragazzi che avevo di fronte di quelle vicende ormai remote e soprattutto così lontane dal loro modo di essere. Perplesso per un attimo rimasi ancora seduto al mio posto e poi mi alzai decisoa parlare si agli studenti, ma non come avevano fatto gli oratori che mi avevano preceduto, che avevano letto le loro considerazioni e valutazioni sugli avvenimenti storici di quel 1916, con enfasi, ma parlando a braccio e lasciando da parte relazione, formalismi, date, conflitti, battaglie e vittime della guerra. Esordii parlando del libro di Remarqueche, appunto, raccontava proprio di studenti come loro. Della loro stessa età, che partirono per la guerra imbevuti di un entusiasmo non loro e che poi si trovarono a combattere in prima linea contro nemici mai conosciuti, né mai visti prima.
Non mi soffermai a lungo a parlare di quelle pagine, perché ebbil’impressione di non essere ascoltato, di parlare al vento. E allora conclusi frettolosamente l’argomento invitandoli a leggere quel libro e aggiunsiche loro si dovevano ritenere una generazione fortunata e che tali si dovevano sentire sempre, perché mai l’Italia aveva visto trascorrere tanto tempo, settant’anni, senza esseretrascinata in un conflitto bellico, in una guerra. Poi, pensando che avrebbe fatto piacere anche a loro esserecoinvolti nella discussione, gli invitai a farmi delle domande su quello che ritenevano più opportuno, non solo su fatti specifici accaduti in quel lontano1916, ma su ciò che ritenevano più opportuno.
Dopo un momento di inaspettato e assoluto silenzio dei ragazzi, che io percepii come una naturale ricerca di argomenti da discutere, ne scaturìinvece un dibattito sui generis, con fischi e manifestazioni di dissenso. Una bagarre generale e solo perché mi ero permesso di dire loro che si dovevano ritenere una generazione fortunata. 
Evidentemente mi ero sbagliato, perché mi risposero a più voci di non sentirsiaffatto una generazione di fortunati, anzi. Per loro era il contrario. Ritenevano che tutto dovesse esserecambiato, migliorato, modificato: dalla scuola, alla cultura; dalla politica al lavoro. Esi misero a reclamareil bisogno diuna maggiore libertà tra i sessi che ritenevanol’indispensabile;e poi parlarono delcoinvolgimento socialee politicoche doveva essere anche quellosacrosanto.Qualcuno invocòaddirittura il diritto di insorgereperpoter esprimere con forza il loro malessere e dissenso: ribellarsi per ottenere più tutela,più sicurezza, perché unavvenire migliore era non solo un loro diritto, ma una pretesa.
Mentre gli studenti continuavano a reclamare nuove forme di coordinamento tra il mondo giovanile,la politica e lo Stato, mi venne in mente che anche qualcuno della mia generazione o poco prima,agli inizi degli anni settanta, nelle piazze,chiedevaa gran voce la parità sociale, mentregli universitari pretendevanoil 18 politico. Poi, dopo qualche anno, si trovarono, se gli era andata bene, a lavorare in fabbrica con una tuta blu addosso e una moglie conuna schiera di figli affamati chestavano aspettando a casa.
Avrei voluto far capireloro la differenza che c’era tra le generazioni che avevano attraversato, se non erano morti prima in battaglia,due conflitti mondiali con il fucile spianato e la baionetta innestatae la loro di generazione, che gli consentiva dipoter tenere tranquillamente in mano un innocuo cellulare e che se indossavano dei pantaloni sdruciti e strappati sulle ginocchia o portavano le scarpe senza calzini lo facevano per seguire un look dettato dalla moda del momento, mentre i ragazzi del 1916,se indossavano pantaloni strappati e sdruciti,era perché avevano solo quelli. E se ai piedi non avevano le calze, era perché di calze non nepossedevano.Ma a che scopo continuare? Come avrebbero potuto immedesimarsi in una generazione così diversa dalla loro ed in anni così travagliati e lontani?
Si, avrei voluto farli riflettere, ma in fondo, a che scopo? E allora ci rinunciai perché era evidente che non mi stavano più ascoltando e che non volevano capire che la loro vita, il loro futuro e il loro benessere e anche ciò che chiedevano, con slogan preconfezionati e già sentiti migliaia di volte,lo dovevano realizzare da soli e con la loro forza di volontà; che l’avvenire era il loro e che pertanto se lo dovevano costruireda soli con le loro mani e chedovevano essere loro stessi a darsi da fare, e non altri, a realizzare il loro futuro e tutto quello che pretendevano.
Avrei voluto anche aggiungere che non potevano pensare che la paghetta settimanale dei genitori e i regali dei nonni sarebberopotuti durare in eterno. Sarebbe arrivato il giorno chetuttoavrebbe portato via eallora: responsabilità, futuro, lavoro, famiglia, salute, sarebberoimmancabilmentecaduti sulle loro spalle. 
Estavo anche per chiedere se erano pronti ad affrontare una vita diversa da quella degli slogan, della pubblicità e diversa anche da quella che sognavano e che si aspettavano ma,prima che arrivassi ad esasperare ulteriormente la platea, la fortuna mi venne in aiuto perché in quel momento un docente si alzò e con il microfono a tutto volume cercò di riportare la calma. Ma nemmeno lui aveva capito che a nessuno dei ragazzi interessava più seguire quegli avvenimenti del 1916,e pertanto, forse,era giusto che tutto tornasse nell’oblio.
Alla fine, bene o male, tra tanti fischi e qualche applauso, la conferenza ebbe termine e il teatro cominciò a svuotarsi. 
Quando uscii anch’ioin strada, mi sentii chiamare da una ragazza, una futura ragioniera che frequentava il quinto anno.
< Professore. Professore. Posso disturbarla un attimo, per favore? >
Mi chiese, mentre si stava facendo largo tra i compagni per raggiungermi.Iomi fermai, certodi doverfronteggiare ancora delle estenuanti e residue lagnanze della ragazza, ma invece quando mi arrivò vicino chiese:
< Professore me lo scrive qui il titolo di quel libro? Vorrei acquistarlo, se si trova ancora in libreria, visto che ha detto che è del ‘29. >
Io le dissi subito che non ero un professore e poi scrissi sul suo diario il titolo del libro e le chiesi anche il suo nome.
< Donatella professore. Mi chiamo Donatella, ma le vorrei anche direche lei dovrebbe modificare un pochino l’atteggiamento che ha dimostrato versonoi giovani. Non tutti i giovani sono uguali sa,e non tutti vanno in giro con i jeans strappati e senza calzini per seguire la moda. E meno male che c’è questa moda professore, se no io non saprei proprio come uscire di casa. Mio padre è in cassa integrazioneda non so quanti anni. Mia madre è casalinga e si adatta a fare mille lavori e lavoretti e sapesse i sacrifici che fanno per mantenere mio fratelloall’università. E’ bravo sa. Studia e si laureerà presto. Ma intanto sapesse che fatica facciamo per tirare avanti. E guardi il mio cellulare: me lo ha regalato una mia amica che sa della mia condizione e per non farmelo pesare ha trovato anche la scusa di voler studiare sempre con me e così vado a mangiaretutti i giorni a casa sua. Ma io lo so che lo fa per aiutarmi. Per farmi mangiare qualcosa di diverso dai soliticavoli e verze, o gli avanzi che mia madre riesce a riciclare.>
L’ascoltavocon stupore, in uno stato di trance: tutto il vociare e le grida dei ragazzi si erano smorzati nelleparole di quella ragazza. Sorrideva mentre mi parlava, ma quanta dignità nelle sue parole. 
Quello che diceva mi colpì a tal punto che mi fece vergognare di quello che avevo pensato di quei ragazzi, per quello avevo detto loro dal palco e che avrei voluto ancora dire.
< Senti. Come hai detto che ti chiami? >
< Donatella, professore. >
<Ah, già, Donatella. Ti ho già detto che non sono professore e se ti interessa quel libro vieni con me, qui all’angolo c’è una libreria e sono sicuro che il libro è ancora in commercio e vorrei regalartelo io, se permetti. >
< Grazie professore. Mi basta conoscere il titolo che ha scritto qui sul mio diario: Niente di nuovo sul fronte occidentale, ha detto, vero?>
Si, le risposi, mentre mi stavo avviando verso la libreria, ma lei mi trattenne per un braccio e mi fermò:
<No professore. Preferisco di no.Non mi faccia sentire come una mendicante che chiede l’elemosina.Mi basta conoscere il titolo. Quando potrò me lo andrò a comperare da me. La ringrazio e la saluto professore. Buona giornata.>
Già interessata e attenta a quello che si stavano dicendole sue amiche e dimentica dei suoi problemi familiari e forse anche di quanto aveva detto a me, la vidi tornare nel gruppo che aveva abbandonato per venire da me e allegramente rimettersi a conversare con le altre ragazze. 
Io restai a guardarla incredulo e mi venne in mente la frase che diceva spessomia madre quando si rivolgeva a noi ragazzi:“Beata gioventù”, poi, con la remota speranza di poterla un giorno incontrare ancora,mi avviai verso la libreria per acquistare quel libro. 
 


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