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L´INCONTRO

Pubblicato da: Categoria: Curiosità

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LUG
2016
Da quando mi sono separata e siamo tornate ad abitare in città, sono diventata ancora più apprensiva. Tutte le mattine, durante il periodo scolastico, accompagnavo mia figlia Ivonne all’angolo di casa e poi la seguivo con lo sguardo sino a che non la vedevo oltrepassare il cancello della scuola. Prima, in paese, era tutto più semplice e dove sono nata non era nemmeno un paese. Ottocento anime in tutto, forse. Ma il mio ex marito aveva preferito tornare a vivere in campagna, nella vecchia casa dei suoi genitori. Le paesane, lo capii più tardi, erano delle pettegole nate. Criticavano tutti e tutto. Soprattutto quelle povere donne che non potevano replicare, perché assenti. – Donna Margherita se la intende con il delegato sindaco che è anche il medico condotto: ecco perché dice di sentirsi sempre male. Per farlo andare a casa sua e farsi “visitata” – La malignità era diffusa, senza che si potesse stabilire però, con certezza, se il marito doveva essere considerato becco per una maledicenza politica o per cause più banali. Faceva il guardiacaccia e stava sulle scatole a tutti perché, dicevano, era intransigente. E siccome non stava mai a casa, bene faceva la moglie a mettergli le corna. Ed era sulla bocca di tutti anche perché, pur vantandosi di aver fatto il militare nella Folgore, davanti al trapano del dentista, scappava a gambe levate.
Del periodo della mia infanzia io ricordo le lunghe giornate trascorse tra i prati, il succedersi delle stagioni. Il rigoglio della primavera, il caldo e il verde scuro dell’estate, le giornate piovose e il colore giallo e ruggine dell’autunno, la neve dell’inverno che cadendo spegneva ogni rumore e al mattino, vicino alle case, si potevano notare le impronte degli animali selvatici che di notte si erano avvicinati per cercare un po’ di cibo.
Mio padre arrivava solo a fine settimana e quando era a casa io non dormivo con la mamma. Mi portava dei piccoli doni, una bambola, dei cioccolatini, spesso cose utili: scarpe, calze, guanti.
Per andare a scuola dovevo prendere la corriera, ma mi piaceva viaggiare, anche se dovevo farmi certe levatacce, specialmente d’inverno, con quel freddo. Frequentai le superiori dalle suoree all’esame d’italiano mi toccò il riassunto della vita del cardinale Bellarmino, la cui festa ricorre, se non sbaglio, il 13 maggio. Era una specie di inquisitore, che visse tra la metà del ‘500 e l’inizio del ‘600. Duro e piuttosto ottuso, aveva difeso a spada tratta le sacre scritture contro Giordano Bruno e Galileo Galilei, il quale cercò invano di spiegargli che era la terra che girava intorno al sole, e non il contrario. Ma fu tutto inutile, Bellarmino restò della sua idea, Bruno finì sul rogo e Galileo dovette abiurare e poi ritirarsi sino alla fine dei suoi giorninella sua casa di Arcetri, vicino Firenze.
Di quel soggiorno dalle suore ricordo soprattutto l’ora della refezione. Mentre mangiavamo una di noi, a turno, leggeva pagine del vangelo, ma io apprezzavo in particolare l’abilità delle suore cuciniere. A casa non avrei mai potuto mangiare pesce, troppo caro, e per il venerdì, che imponeva il magro, si mangiava pastina in brodo e cefalo al forno. E a chi storceva il naso, la suora, che girava imperturbabile fra le tavolate, diceva che anche Gesù aveva moltiplicato i pesci e i pani, per cui il cefalo doveva essere mangiato. Anche se le suore ce la mettevano tutta, non saprei dire perché, ma in seguito il mio fervore religioso cominciò a spegnersi. Era passata l'età degli abbandoni, della fiducia candida: ormai non credevo più che con la preghiera e i fioretti si potessero liberare dalla fame e dalla miseria i bambini africani. E non credevo nemmeno più che quelli venuti al mondo prima di Cristo dovessero eternamente girovagare nel limbo, una località vaga, imprecisata e soprattutto, a mio avviso, improbabile.
Finii l’anno senza particolari rimpianti né rimorsi e poi, per frequentare l’università, mi trasferii in città. Incontrai un ragazzo che diceva di fare il giornalista e per dimostrarmelo mi volle portare al giornale e presentare al suo capo redattore dicendogli che mi piaceva scrivere.
«Cosa vuoi fare,anche tu la giornalista? Sicura? La strada è lunga sai, piena di insidie. Comunque portami qualche pezzo e poi ne riparliamo. Anzi. Questa sera c’è consiglio comunale. Vai con lui e fatemi un riassunto di come sono andate le cose, poi ne riparliamo».
Nel tardo pomeriggio andammo in municipio e il ragazzo mi spiegò che non c’era bisogno di stare li a sorbirsi tutto il dibattito e i pro e i contro che si sarebbero avvicendati. Bastava farsi dare l’elenco dei punti all’ordine del giorno della seduta e poi spuntare quelli approvati e se c’era qualcosa che poteva  interessare il lettore, trarne un pezzo. Ci facemmo dare una copia dall’uscieree poi andammo a farci una pizza. Al ritorno tornammo dall’uscere il quale ci indicò i punti approvati. Parlammo anche con un paio di consiglieri, uno dell’opposizione e l’altro della maggioranza e poi via a scrivere. Il pezzo fu accettato e così cominciai a collaborare anch’io con il giornale.
Non ambivo certo a diventare un’Oriana Fallaci, ma passare le giornate tra tribunale, questura e ospedali, per avere di prima mano le notizie di nera, era snervante e mi sembrava riduttivo, ma quello mi toccava. Al pronto soccorso dell’ospedale conobbi Giacomo. Il mio futuro marito. Era di turno, ma c’era un momento di calma e ci mettemmo a parlare. Ci scambiammo anche i numeri di cellulare, così, disse, mi avrebbe informata subito se ci fossero stati dei ricoveri per incidenti gravi, sparatorie,morti sospette, crolli, avvelenamenti, ecc..
Mio padre, quando gli dissi che volevo continuare a studiare e fare la giornalista, non si dimostrò contento, anzi, era contrariatoche andassia perdere tempo al giornale, o fossi sempre in giro alla ricerca di notizie.
«Non so se sei cretina o una poveraccia che si crede chissà chi solo perché ha letto tre libri. Pensa a laurearti prima possibile e poi trovati un lavoro serio che ti permetta di mantenerti da sola. Se no,la prossima volta che vai in ospedale, fatti fare una Tac al cervello, che ne hai bisogno».
Non mi feci fare la Tac e continuai a scrivere per il giornale e l’anno successivo mi sposai, ancor prima della sospirata, per mio padre, laurea. In viaggio di nozze Giacomo mi portò a Venezia: aveva una certa debolezza per le cose scontate e banali. E in fondo, ma questo lo scoprii in seguito, per me era rimasto un estraneo che al mattino andava al lavoroe tornava la sera; mangiava e poi, mentre io mi sentivo sola e non riuscivo ad addormentarmi, lui iniziava a russare.
Spesso litigavamo e lui buttava tutto per aria, piatti, sedie, tovaglia, salvava solo, all’ultimo momento, le bottiglie dei liquori. E se gli chiedevo perché non portasse più la fede al dito, lui rispondeva che se l’era tolta per lavarsi le mani in un bagno dell’ospedale, un attimo e non c’era più. “Siamo circondati da ladri”, concludeva. E’ sempre stato sfortunato, poverino.
***
Il mio amore per lui si spense così, come era nato, lentamente e senza rimpianti. Lui non tornò più in paese e io me ne feci presto una ragione. L’unico rimpianto? Essermi sposata troppo giovane e con un uomo che non si accontentava di una sola donna. Il fiume non può cambiare il suo corso, gli argini lo condurranno sempre e solo al mare, e anche Giacomo continuerà ad essere attratto da nuove avventure. E così, con mia figlia, feci le valigie e mi trasferii in città.
Continuai a collaborare con il giornale. Il capo redattore era cambiato, ma riuscii ugualmente a farmi assegnare ad altro incarico perché mi accorsi che ero tanto codarda che il dolore degli altri mi spaventava e mi faceva star male. Dopo aver scritto di una signora che tutte le notti, a mezzanotte, andava alla stazione ad aspettare il treno proveniente da Roma, dissi basta. Il marito le aveva telefonato: "Arrivo con il direttissimo delle 00,20", un infarto gli aveva impedito di presentarsi all'appuntamento, mala moglie continuò comunque per anni ad andare ad aspettarlo sotto la pensilina del primo binario, e questo mi fece piangere dalla commozione e dissi basta.
Adesso non mi occupo più di nera, ma di gossip: cultura, moda, cucina, curiosità in genere.
«Ah, ci sei riuscita. Brava. Adesso non far fare, non lasciar fare, occupatene sempre tu e da sola– così non ti fregano». Mi disse Rita, una collega, quando la misi al corrente del cambiamento.
«Il capo redattore non è cattivo, è solo un idiota. Corre dietro a tutte le donne che incontra. Ma tu non ti far coinvolgere, lascialo cuocere nel suo brodo».
«Ha già fatto delle vittime?» le chiesi, e lei pronta: «Sì, la lingua italiana».
Ma io, per come lo aveva detto, pensai che vittima del capo redattore lo fosse stata anche lei.
Sino a che Ivonne frequentava le scuole medie, continuai ad accompagnarla all’angolo di casa e poi a seguirla con lo sguardo sino a scuola. Ma quando iniziò le superiori e mi vide indossare il soprabito, mi chiese: «Dove vai?».
«Ti accompagno, come al solito…».
«Mamma, per favore…».
Io capii e a malincuore mi tolsi il soprabito e lo gettai sul letto. Era cresciuta e ormai voleva stare da sola tra i ragazzi come lei, quelli che si vestono come gli adolescenti tra gli adolescenti, che a loro volta si vestono come gli adolescenti tradivi (i genitori), che appunto si vestono come i loro figli. Mi dispiaceva che non volesse più che l’accompagnassi, anche perché, ogni mattina, alla stessa ora o quasi, negli anni precedenti, mi capitava di incontrare sempre un signore che accompagnava la figlia al lavoro. Lo vedevo arrivare da lontano e quando mi passava accantoci scambiavamo uno sguardo fugace. Era un bell’uomo, alto, distinto e doveva essere anche molto gioviale, perché quando si rivolgeva alla figlia lei sorrideva e spesso ridevanoassieme. Una volta mi fermai nel portone e lo attesi per vederlo passare. Volevo vederlo da vicino e con calma e dovetti convenirne, era decisamente un bell'uomo.
***
Lo incontrai ancora qualche altra volta per strada, sempre elegante, sempre distinto, in giacca e cravatta e sulla spalla una borsa nera che probabilmente conteneva un portatile. Uno sguardo fugace e subito via. Non so perché, ma provavo sempre un certo non so che quando lo incontravo.
Poi arrivò l'incontro vero e proprio.
In un pomeriggio caldo e luminoso, ero appena scesa dalla macchina, quando me lo trovai davanti. Avevo parcheggiato troppo vicino, troppo vicino alla sua.
«Ce la fa ad entrare?» gli chiesi. Lui mi fece un sorrise e mi rispose di sì. Era proprio lui, e sentii il cuore che batteva a mille, ma feci finta di niente e mi girai per andare via.
« Mi scusi signora, ma ci conosciamo?Il suo, mi sembra, è un viso conosciuto» mi sentii dire, appena fatti pochi passi.
«Non proprio» gli risposi, girandomi.
«Però…»
Proseguii:
«Per diverse mattine ci siamo incrociati. Io ero con mia figlia e lei con la sua».
Lui si toccò la fronte con la mano e poi fece un cenno, come a dire: sì sì, ora ricordo.
«Che strano. Per molto tempo mi sono chiesto chi potesse essere quella signora che incrociavoogni mattina a quell’angolo, ed ora eccoci qui. Posso presentarmi?» mi domandò, porgendomi la mano. Si chiamava Andrea, scambiammo ancora qualche parola e poi chiese se poteva offrirmi qualcosa al bar. Io gli risposi di sì e assieme attraversammo la strada e raggiungemmo dei tavolini all’aperto.
***
Mentre mi accomodavo lui si appoggiò allo schienale della poltroncina e mi accorsi che girava la testa per seguire il movimento delle mie gambe, poi la fece ricadere sul petto così che i suoi occhi mi guardarono di sotto in su, e intanto il suo viso aveva assunto quell’espressione distesa di chi finalmente ha raggiunto il suo scopo.
Passarono alcuni istanti prima che mi dicesse qualcosa poi, come destandosi da un lungo sonno, mi fissò e chiese: «Scusami, ero sovrappensiero. Cosa prendi?».
«A cosa stavi pensando?» gli chiesi, passando anch’io dal lei al tu.
«Ad una poesia che quando l’ho letta per la prima volta mi ha fatto pensare a te. E l’ho riletta tante volte che forse me la ricordo a memoria».
«Me la fai sentire? Mi piacerebbe scoprire i versi chepossano avermiaccostata ai tuoi pensieri».
«Forse ho esagerato. Non credo di ricordarla tutta a memoria, ma ci provo. Spero di non fare una brutta figura: “Oh angelo della soavità, io sono un sognatore e non domando niente. Vorrei solo averti qui per poter fissare nel profondo il tuo sguardo severo, i tuoi occhi che solo per un istante si sono posati su di me. Ma quell’istante è bastato per infiammare il mare d’emozioni che già mi provocavano.”»
Quando finì di recitare la poesia rimanemmo per un tempo imprecisato in silenzio, poi chiese:
«Allora?»
E io risposi:
«Perché mi attribuisci degli occhi severi?»
«Perché quando ti incontravo, speravo in uno sguardo partecipe, se non proprio complice. Invece lo percepivo severo e rivoltomi quasi con fastidio».
«Se devo essere sincera, con capisco» gli risposi, seppure avessi capito benissimo.
Abituata alla monotonia della mia piatta quotidianità, ero turbata, ma inspiegabilmente anche felice di sentirgli dire quelle cose. Avevo il bisogno di riappropriarmi di quelle emozioni che ormai da tempo mi erano state negate, ma che non avevo dimenticato, e così decisi di lasciarmi coinvolgere.
Restammo a parlare ancora a lungo, seduti a quel tavolo, tra la gente che ci passava accanto, poi, dopo aver consumato un’ultima bibita, ci alzammo e tenendoci per mano raggiungemmo il parcheggio.
«Non voglio perderti proprio ora che ti ho trovata» mi disse Andrea, aprendo lo sportello e sedendosi sul sedile affianco al mio.
«La mia la verrò a prendere poi. Domani. Non so… Ora voglio stare ancora con te».
Io mi girai per guardarlo e senza aggiungere altro misi in moto ed uscii dal parcheggio. Ero contenta perché anch’io stavo provando le sue stesse emozioni.
 


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