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VIETATO LAMENTARSI?

Pubblicato da: Categoria: Curiosità

14
SET
2017

Tempo fa, qualcuno, tra il serio e il faceto, ha vietato le lamentele. Una prescrizione utile oppure controproducente? Si può far questo? E con che esito?

Benché i linguisti siano in disaccordo sull’etimologia del termine “lamento”, noi tutti oggi conferiamo ad esso un significato inequivocabile: atto di esprimere il proprio dolore, malessere o disagio riguardo ad una data situazione. Tutto ciò richiama il grande tema della sofferenza, ossia quella condizione (fisica o psichica) in cui ci si confronta con i propri limiti. E, ad ogni forma di sofferenza, lieve o grave che sia, corrisponde un problema, che l’uomo, in quanto essere razionale, cerca di comprendere, quindi di risolvere. Il problema diviene così pensiero ed assume, nella nostra specie, una forma verbale: diventa discorso. Ed un problema non ancora risolto diviene, quindi, un pensiero o, meglio, un discorso ricorrente, che intrude spesso nella consapevolezza e che disturba la quiete della vita quotidiana. Questo pensiero o discorso può benissimo rimanere privato, ma può anche essere condiviso socialmente: nasce la lamentela!
Vi sorprenderà sapere che essa, rispetto alla ruminazione solitaria, presenta dei notevoli vantaggi, connessi proprio all’aspetto sociale. Infatti, chi si lamenta ha modo di confrontarsi con un’altra persona, potendo così ricevere da essa un supporto cognitivo, emotivo, se non addirittura materiale. La lamentela, per mezzo del dialogo e dell’incontro, può così risultare propedeutica alla soluzione del problema a monte.
Vietare di lamentarsi, fosse anche per scherzo, significa non permettere a chi soffre di esprimere la propria naturale sofferenza, piccola o grande che sia, impedendo così che essa, attraverso il confronto con gli altri, possa essere compresa ed auspicabilmente risolta. Vietare di lamentarsi significa negare il dolore altrui, imporre all’altro una maschera che non gli appartiene, quindi aumentare ulteriormente il suo dolore.
Dunque, piuttosto che vietare la lamentela, bisognerebbe auspicarne modalità più efficaci. Non si può pretendere che un principiante lo faccia bene sin dall’inizio, ma – col tempo, coll’impegno e col giusto indirizzo – ogni essere umano può in ciò dare il suo meglio! Una buona lamentela è proprio quella in cui si esplica la capacità di individuare il problema, la sofferenza ad esso sottesa e le persone che potrebbero essere d’aiuto nel risolverlo.
D’altronde, in termini molto meno pragmatici, mi chiedo cosa avremmo ottenuto se avessimo, per assurdo, soffocato, a suo tempo, il tipico atteggiamento lamentoso della specie umana. Che sarebbe successo se avessimo (posto che sia possibile) impedito ad essa di discettare sulla natura del limite e della sofferenza? L’arte, la religione, la filosofia da cosa nascerebbero se non anche da un lamento sublimato, dalla consapevolezza, appunto, del limite e della sofferenza?
Torna così il nostro argomento: il problema non è la lamentela in sé, ma il modo (proficuo o meno) con cui la si porta avanti.



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