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UN CASO DI COSCIENZA

Pubblicato da: Categoria: Curiosità

7
MAG
2018

Nella vicenda del piccolo Alfie Evans, il pragmatismo delle istituzioni inglesi ci lascia un po’ contrariati. Quando le ragioni del cuore non coincidono con quelle dello Stato.

Alfie Evans, come ben sapete, era un bambino inglese affetto da una gravissima patologia neurodegenerativa, che (stando ai referti) gli aveva da tempo danneggiato in maniera irreparabile gran parte del cervello, compromettendo così non solo le funzioni cognitive superiori ma anche le capacità sensoriali. In data venti marzo, il tribunale, in merito ad un giudizio tra i genitori di lui e l’azienda ospedaliera che lo teneva in cura, decise che, nel primario interesse del bambino, bisognava attenersi a quanto già stabilito in scienza e coscienza dal personale medico, il quale, non ravvisando alcuna possibilità di recupero, aveva ritenuto opportuno procedere con la sospensione delle pratiche di mantenimento in vita, prospettando per il minore un piano di accompagnamento al decesso, dai medici ritenuto prossimo e inevitabile. D’altronde, stando ad una sentenza successiva, sembra che, nella tutela del minore, non potesse nemmeno applicarsi il celeberrimo “Habeas Corpus”, sia perché l’Habeas trova esclusiva applicazione nei casi di arresto giudiziario o di violazione dei diritti civili; sia perché il bambino, ad ogni modo, mai avrebbe potuto disporre pienamente del proprio corpo esprimendosi a riguardo con delle volontà: motivo per il quale ad esprimersi in sua vece è stato il giudice, che, di diritto, si è reso interprete dell’interesse del minore, prevalente su quello dei genitori, a maggior ragione quando essi risultano (a dire del giudice stesso) così provati da non poter valutare la questione in maniera razionale e oggettiva. Abbiamo poi visto come lo stesso giudice, sempre saldo sulle sue posizioni, abbia successivamente negato ai genitori di Alfie la possibilità di trasferire il piccolo al Bambin Gesù di Roma, ospedale che, come ben sappiamo, aveva dato piena disponibilità per la presa in carico del caso. Così, qualche giorno dopo, Alfie, senza più il supporto delle macchine, cessa di vivere. Questo è quanto abbiamo potuto leggere sui giornali e sugli atti giudiziari reperibili in rete.

Si sa: ogni popolo ha le sue leggi. Non sta a noi dire se siano giuste o sbagliate. Di certo il dramma di Alfie ci mostra quanto sia difficile, per le Istituzioni, contemperare diritti diversi ma forse ‒ chi lo sa? ‒ conciliabili. I diritti di Alfie avrebbero potuto conciliarsi con quelli dei suoi genitori? Il diritto del malato, il suo “miglior interesse” (il “best interest” dei giuristi britannici), si può conciliare coll’altrettanto preminente diritto che i suoi cari hanno di sperare o di vivere insieme a lui un altro giorno ancora?

Pare che il tribunale inglese si sia attenuto pienamente al parere dei medici, che a loro volta suppongo rispondano, oltre che ad evidenze cliniche, anche a necessità di natura gestionale e difensiva. Ne consegue una decisione, prima medica e poi giudiziaria, di tipo abbastanza pragmatico. Magari non è questo il caso, ma vi dico che, ad ogni modo, il limite del pragmatismo corrisponde al pragmatismo stesso. La centratura, pragmatica, sui fatti e sulle cose ‒ oggettivi fino a prova contraria! ‒ fa necessariamente passare in secondo piano le vicende umane, quindi la componente soggettiva e psicologica del fatto stesso. Così un servizio in teoria rivolto alla persona può, purtroppo, finire per essere maggiormente orientato e subordinato ad aspetti (che supponiamo) oggettivi.

Allora quale sarebbe la soluzione? (parlo dell’Inghilterra). Spostarsi da un modello autoritario e oggettivante verso un altro che magari tuteli, a maggior ragione nei casi ritenuti senza via d’uscita, anche il diritto soggettivo alla speranza e alla libertà di cura? D’altronde, tornando a noi, pare che nessuno specialista interpellato abbia saputo dire con certezza se Alfie potesse o meno provare dolore. Quindi, se non era nemmeno certo che soffrisse, perché non aver permesso che si continuasse con le macchine per il mantenimento in vita? E se il “miglior interesse” del bambino si profilava, anche e soprattutto per tale dubbia sofferenza, incerto, perché respingere alcuni diritti suoi e dei suoi genitori, come quello di intraprendere, all’estero, un ulteriore percorso terapeutico?

Ma, al netto delle tante questioni possibili, preferisco pensare che le nostre difficoltà nel comprendere questa faccenda, tutta inglese, dipendano dagli inevitabili limiti della traduzione. In fondo, cosa c’è, nella cultura di un popolo, di più caratterizzante di ciò che, appunto, si perde nella traduzione?



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