Capita spesso di imbattersi in persone che sostengono di aver vissuto, in qualità di protagonisti, delle storie romanzesche, sensazionalistiche nonché alquanto improbabili.
Quando ci si imbatte in persone che sostengono d’aver vissuto, in qualità di protagonisti, delle storie in apparenza improbabili non bisogna subito presumere che esse risultino necessariamente impossibili né bisogna escludere che possano perfino contenere degli elementi di verità: se non oggettiva quantomeno soggettiva.
Quindi, anche prescindendo dalla verifica di quanto effettivamente accaduto, possiamo supporre in prima istanza che il taglio sensazionalistico conferito agli eventi raccontati possa benissimo sottendere l’intenzione più o meno consapevole di suscitare delle emozioni forti nell’interlocutore, di monopolizzarne l’attenzione: atteggiamento tipico dell’esistenza alienata di colui che, sbilanciato verso l’esterno, sente di vivere solo nello sguardo dell’altro e, mancante di una propria autentica interiorità, si ritrova a creare e a far propria una storia che non gli appartiene, e a raccontarla ripetutamente, spesso sorretto dalla fallace convinzione di risultare credibile agli occhi altrui.
D’altro canto non possiamo nemmeno escludere a priori che le costruzioni narrative in questione possano anche costituire un estremo tentativo di riorganizzare una realtà personale e sociale divenuta ormai estranea per motivi che non ci è dato sempre conoscere. In questi casi la produzione ideativa, per quanto “altra” possa sembrare, si configura, al contrario di quel che si è soliti credere, non come puro errore, ma come sforzo compensativo; non semplicemente come conseguenza di un’eventuale patologia, ma soprattutto come volontà di recupero, nella misura in cui restituisce una versione dei fatti che potrebbe perfino riavviare l’esistenza dell’interessato all’interno di una logica alternativa, dove il cosiddetto reale acquisisce un altro senso e un’altra profondità.
E sbaglia chi intende smentire queste persone con la logica e con i fatti, finirebbe solo col destabilizzarle, rendendosele per giunta anche nemiche; così come sbaglia parimenti chi pretende, al contrario, di colludere infruttuosamente con il loro mondo particolarissimo, dal quale si può anche essere pericolosamente travolti. L’atteggiamento più indicato consiste in questi casi nel sospendere il giudizio circa la verità oggettiva, per prendere semplicemente atto di quel che viene raccontato, magari cercando, se possibile, di coglierne il senso. Consiglio, inoltre, di astenersi dal giudizio morale e moralistico, ricordando sempre come ogni neurotipo, così come ogni struttura di personalità, non è necessariamente portatrice di colpa, ma di caratteristiche che predispongono, a volte in maniera abbastanza meccanica, determinati modi di funzionare. Ciò non toglie che, nell’ambito di un rapporto terapeutico, si possa sempre lavorare sulle capacità residue, sulla cosiddetta parte sana, dalla cui opportuna valorizzazione può derivare una migliore qualità dell’adattamento.