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VENT´ANNI SENZA LUCIO/BATTISTI, CI RITORNI IN MENTE

Pubblicato da: Categoria: Curiosità

6
SET
2018

Il 9 settembre 1998 ci lasciava uno dei più grandi musicisti e cantanti di sempre. Ecco un ricordo d'autore

C’è qualcuno che come il sottoscritto ama di più il Lucio Battisti della seconda fase creativa, quella dei cosiddetti “dischi bianchi”? Non che il resto della produzione non lo apprezzi, ci mancherebbe, però la sfornata dei lavori che va da “DON GIOVANNI” a “HEGEL” rappresenta una prova di coraggio, oltre che di sperimentazione allo stato puro.
Pensate se una cosa del genere l’avesse fatta De Gregori: assolutamente impossibile. La vena cantautorale del “principe” si è sempre imburrata di una sorta di conservatorismo dylaniano, abilmente alternata a riprese della migliore tradizione del canto e della melodia italiana (“La donna cannone”, “Sempre e per sempre”, e così via).
Una volta Adriano Pappalardo -uno dei migliori amici di Battisti- disse in un’intervista che l’autore di una delle canzoni più struggenti dei primi anni settanta, “E penso a te”, gli avrebbe rivelato di volere scrivere nuovi pezzi, rivoltando musica e testi come calzini. E questo, dopo la ventennale esperienza condivisa con Mogol.
Un primo assaggio fu sperimentato in “E già”, un album i cui testi furono affidati alla moglie di Battisti. Testi che avrebbero dovuto “tenere” la svolta elettronica di tutto il lavoro. E invece così non fu. La delusione dei vecchi fan si tradusse nel flop di vendite più clamoroso nella carriera dell’artista di Poggio Bustone. L’album uscì nel 1982, anno della mia maturità classica e ricordo che fu il primo lp di Battisti che non acquistai. Anche io ero rimasto deluso da tutta l’operazione. Certamente perché venivo fuori dall’ascolto degli album registrati a Londra con arrangiamenti e orchestrazioni a volte civettuole e ruffiane, ma sempre coerenti con il resto del lavoro. “Nessun dolore”, “Prendila così”, “Perché non sei una mela”, “Con il nastro rosa”, per esempio, sintetizzavano in entrambi gli album la maturità di un percorso che comunque -paradossalmente- affrontava già la fine di quel binomio quasi da proverbio (aho’, state così sempre assieme che me parete Mogol Battisti).
Il 1986, annus horribilis per il sottoscritto, poiché la ganza aveva preso il volo in un pomeriggio di sabato, quasi all’improvviso, ecco la rivelazione: DON GIOVANNI. Musica e testi rivoltati come un calzino, aveva ragione il profeta di “Ricominciamo”. La prima cosa che faccio è prendere la busta che contiene il disco, mentre inizio ad ascoltare, e leggerne sulla superficie beige/ocra i testi. Ma, soprattutto, leggerne l’autore: Pasquale Panella.
Ora, a ventidue anni la memoria può anche ingannare, però quel nome non mi era nuovo. Anni prima, mica tanti, suonavano non raramente in radio alcuni pezzi di Enzo Carella (mitici “Barbara” e “Amara”). Ebbene, i testi glieli aveva scritti proprio Panella. Quel groviglio di doppi sensi e di uso anarchico della parola li aveva strutturati lui, attagliati addosso come un sarto fa con i suoi migliori clienti.
Solo che per Battisti non ci vuole solo lo srotolamento musicale di una serie di frasi. Per lui ci vuole qualcosa in più. E quel qualcosa diventa l’esercitazione minimalista e dadaista del testo abbinato allo spartito. Solo che se lo spartito in “Don Giovanni” continua ad esistere attraverso la produzione di Greg Walsh e l’orchestrazione di Robin Smith (non quello dei Cure, eh!), nel secondo “disco bianco” l’elettronica prende il sopravvento e i testi la omaggiano sino al sublime “L’apparenza”. E’ questo il brano-manifesto dell’operazione Battisti/Panella: l’eccezionalizzazione del minimale. Prendere un momento di vita di pochi secondi e renderlo infinito, amplificandone i gesti e le intenzioni. “Quindi facendo finta che non sai parlare, ti metti un dito in bocca, l’anulare …”, Panella ferma l’attimo per una frazione di secondo, quindi esalta il gesto come in un’epica qualsiasi, come se quel dito fosse la naturale prosecuzione di un’impresa. Eppure, tutta la canzone è solo la descrizione di un regalo, di un omaggio. “Avrei una voglia, un taglietto d'affetto.
Cosa sento ma niente. Un affetto non si prova, s’indossa direttamente” di “Per altri motivi” racconta di villini che camminano, belle pancione e liste dei vini, facendo ritornare Panella al tema culinario che spesso ha usato nelle stesure di testi precedenti. L’album “L’apparenza” è un mix tra il sacro battistiano e il profano panelliano, se la musica ormai elettronica prende il largo, i testi la inseguono, la raggiungono per poi doppiarla, tanto che ormai il caso non è più il nuovo Battisti, ma la scoperta Panella.
Chi ha bazzicato il dadaismo riconosce in quei testi la danza delle parole che ricercando rime e calembour vanno a creare situazione e immagini che ognuno metabolizza per sé, attraverso i filtri culturali che gli sono propri e congeniali.
Il terzo “disco bianco” è “La sposa occidentale”. Qui di Battisti come l’ho sempre conosciuto -o voluto conoscere- non vi è quasi nulla. La musica inizia a diventare scarna, non c’è più traccia di batteria o chitarra elettrica. I testi si sono fatti più criptici, a parte forse solo il brano che dà il titolo all’album. “Non dobbiamo avere pazienza, ma accampare pretese intorno a noi come in un assedio, ed essere aggrediti dalle voglie più voluminose: un fiore, che è un fiore, io non te l'ho mai portato vuoi improvvisato, vuoi confezionato, ma trasferisco da te tutti i fiorai, è più facile a dirsi, e infatti te lo dico”, una dichiarazione d’amore alle donne più vogliose e voluminose, una dichiarazione d’intenti su ciò che semplicemente desidera una donna e su ciò che invece vuole fare l’innamorato. Se a lei piacciono i dolci, lui non le compra paste e mignon, bensì impianta “una impastatrice industriale che mescola e sciorina la crema sulle scale”. Il resto dell’album sembra tirato via, pezzo dopo pezzo.
E’ solo l’annuncio di ciò che avverrà negli ultimi due lavori di Battisti, “Cosa succederà alla ragazza” e “Hegel”. Nel primo spiccano solo “Ecco i negozi” e “La metro eccetera”: la musica latita, un tentativo timido di rap nei “negozi” rende poco credibile il resto dell’opera, quella eccezionalizzazione dell’attimo vissuto si trasforma in un’orgia di parole e concetti che vanno a perpendicolo con la struttura musicale, ormai il senso parallelo è solo un ricordo.
Freddo e distante, “Hegel” segna la fine della collaborazione tra Battisti e Panella. A parte “La bellezza riunita”, non vi è più nulla che possa considerarsi anche solo un esperimento. Tutto è finito.
Eppure, io preferisco, dopo tanti anni, questi lavori. Il coraggio, la voglia di rimettersi in gioco, il cambio di passo di Lucio battisti mi hanno affascinato.
E sapete però qual è stato il paradosso? Che dopo tanti anni ho ripreso in mano e rimesso sul piatto “Emozioni”, versione originale del 1967, regalatomi da mio zio Roberto in un attimo di eccessiva benevolenza, lui che di Battisti è stato un fan assoluto. L’ho quindi riascoltato, ho anche messo in moto la dinamica dei miei ricordi infantili e foggiani, ma niente: continuo a preferire “Equivoci amici” e “Fatti un pianto”. E che ci vuoi fa’ …?
Che Dio Ti benedica, Lucio (ma pure Panella …).



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