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MATERNITÁ

Pubblicato da: Categoria: IL RACCONTO

9
FEB
2017

Cosa ricordo di quel giorno? Ero in ansia per il test che avevo deciso di fare quella mattina. Luigi doveva rinunciare a poltrire nel letto, aveva un lavoro da consegnare e sarebbe rimasto fuori di casa tutto il giorno. Aveva piovuto, scrosci violenti e lampi avevano bersagliato i vetri tutta la notte e i tuoni ci avevano svegliato più volte. La città si era destata zuppa di un inchiostro sporco e il cielo era cupo, incombente. Uscimmo da casa assieme e andammo al lavoro.
    Alla fine la pioggia era cessata e durante la pausa uscii dall’ufficio. Ancora non sapevo cosa andavo farneticando, il pensiero era nato così, improvviso, durante la notte, una sensazione scaturita dal profondo. Feci pochi passi e m’infilai in una farmacia. Aspettai che il cliente davanti a me si allontanasse e feci la mia richiesta in fretta, in un sussurro veloce.
 «Un test di gravidanza, per favore».
La farmacista mi fece un sorriso e tornò con una confezione rettangolare, di colore azzurro. Pagai e tornai in ufficio. Lessi le istruzioni e feci il test nel bagno, con le spalle appoggiate alla porta. Presi lo stick e attesi. La striscia di conferma comparve prima sfumata, tenue, e poi diventò di un blu netto. Segno che ero incinta. Ero felice.
 Rimisi il cappuccio alla bacchetta e la riposi nella borsa. Per dirglielo avrei atteso sino a sera, quando saremmo stati entrambi a casa. Quando avremmo potuto stringerci e commuoverci insieme, al riparo da tutti.

    Tornai alla scrivania, ma quel pomeriggio sembrava non voler finire mai, poi, finalmente, girai le chiavi della porta di casa e lo trovai lì, con la testa nel monitor e le mani sulla tastiera. Ci salutammo. Mi avvicinai e lui rimase a guardarmi, forse percepiva qualcosa. Gli diedi un bacio sulle labbra e gli misi in mano la barretta del test.
  «Tieni, papà, ecco la prima immagine di tuo figlio».
 La guardò, la rigirò, poi alzò lo sguardo su di me e sorrise. Cominciò ad agitarsi a saltare. Mi abbracciò, mi strinse forte. Divenne petulante, dovevo stare attenta, dovevo riguardarmi. Perché non gli avevo telefonato? Sarebbe venuto a prendermi, ero stata avventata a muovermi con il motorino con quel tempo. Andò in cucina, tornò con una bottiglia di spumante e due bicchieri. Brindammo sino a svuotarla e poi prese la bottiglia e cominciò a cullarla come fosse un bambino appena nato.
«Walter» disse. Walter era il nome che avevamo sempre immaginato per nostro figlio.
«E se è femmina?» Chiesi.
«Waltera» e rise. Risi anch’io. Una risata euforica, spossata dallo spumante e da quella gioia che stava per illuminare la nostra casa.
 Diventò serio, preoccupato, e mi chiese se ero sicura che quella cosa funzionasse.
 Cosa potevo rispondergli? Chiamai la mia ginecologa e mi disse che dovevo andare a fare un prelievo per controllare la quantità di Beta Hcg, presente nel sangue.
Ci addormentammo così, felici, uno nelle braccia dell’altra. Sprofondati sotto le coperte.
 Mi svegliò il sibilo di una sirena, dalla cucina arrivava l’odore del caffè. Luigi si era alzato e lo raggiunsi. Ci vestimmo e andammo ad attendere che il laboratorio di analisi aprisse. Mi sollevai la manica del golf, mi strinsero il laccio di gomma intorno al braccio, spostai lo sguardo per non vedere la siringa che cercava la vena. Uscimmo, ci salutammo e andammo al lavoro.
 In serata Luigi tornò al laboratorio di analisi per ritirare i risultati e io lo aspettai sul balcone. Lo vidi arrivare e guardò su, sventolò la busta, sorrise e si mise a correre.
 Telefonai alla mia ginecologa. Le lessi i risultati e mi disse che era tutto a posto, il livello del Beta Hcg era ancora un po’ basso, ma nella norma.
Trascorsero giorni sereni, di pace. Luigi mi chiamava continuamente in ufficio, voleva sapere come stavo, cosa stavo facendo. A casa posava l’orecchio sulla mia pancia, solo l’orecchio perché non voleva pensarmi con la testa. Se ne restava lì, in quella posizione reclinata, un po’ scomoda, con la faccia trasognata.
Quando lo dicemmo ai miei genitori, non riuscirono a parlare. Vidi i loro occhi inumidirsi, farsi dolci…  istintivamente mio padre cercò la mano di mia madre. Non vedevo quel gesto da anni.
 Passarono altri giorni e venne la prima ecografia. Il gel sulla pancia aveva la consistenza di una scia gelatinosa, sgradevole. Il battito non c’era. L’embrione c’era, un puntino nero in mezzo al nulla, ma il battito del cuore no.
 «Forse è ancora presto. Forse vi siete sbagliati nei calcoli. Lo avrete concepito più avanti». Mi disse il medico, e riempì la scheda. Mi suggerì di non ripetere l’esame prima di una settimana e si alzò. Ci strinse la mano e fece entrare un’altra donna in attesa… una donna con un pancione grosso di almeno otto mesi. Rifeci l’esame dopo dieci giorni e il battito non c’era ancora.
  Persi il bambino due giorni dopo.
 «Vienimi a prendere».
«È successo qualcosa?»
«Vienimi a prendere». Gli ripetei.
 Luigi arrivò correndo. Lo abbracciai e affondai la testa nella sua giacca. L’ho perso. L’ho perso. L’ho perso. Continuavo a ripetergli. Ero andata in bagno e lì era successo. Un’emorragia improvvisa.
 All’ospedale mi visitarono, mi fecero l’ecografia e il medico di turno sorrise. Mi disse che ero stata fortunata, che del resto non si trattava nemmeno di un vero e proprio aborto.
 «Sono ovuli ciechi. Il corpo se ne libera naturalmente». Aggiunse.
Confortati dal medico che ci disse di non farne un dramma, ce ne tornammo a casa così, a mani vuote …
Glielo chiesi in serata, mentre era di spalle, non me la sentivo di guardarlo negli occhi. Sorrisi e gli dissi che gli volevo bene...
 «E tu, Luigi, me ne vorrai ancora? Mi vuoi ancora bene?»
 «Io non ti voglio bene, scema. Io ti amo. Io vivo solo per te». Mi rispose, quasi stizzito.
 Non ne parlammo più.
Tutti i nostri amici cominciarono ad avere figli, le loro case cominciarono a essere invase da pannolini, abitini, biberon, bavaglini, semolini,pappine, febbre e gengive doloranti… giocattoli.
  Per non andare a trovarli inventavo delle scuse. Dicevo a Luigi che erano noiosi, tediosi.
 Una sera entrammo in un negozio di animali. La vetrina era piena di cuccioli. Luigi ne tirò su uno. Lo accarezzò, si fece leccare la faccia. Rise. Era la prima volta che lo vedevo ridere così di gusto dopo tanto tempo, poi lo rimise giù, in mezzo agli altri cagnolini.
«Andiamo, dai». Disse.
«Se vuoi, lo prendiamo».
 «Ci pensiamo. Ora andiamo». Mi rispose, prendendomi sotto braccio.
Passò un altro anno. Il più lungo della mia vita e anche il più costoso, a causa delle cure a cui mi ero sottoposta.
 Tornammo dal medico, un brav’uomo, onesto. Mi visitò e dopo di nuovo alla scrivania, ci guardò, spostò lo sguardo da Luigi a me, scosse la testa, gli dispiaceva, disse, davvero, ma non era il caso di insistere. I miei ovuli erano scarsi, pochissimi, insufficienti.«Succede, purtroppo. Lei è quasi del tutto sterile». Poi aggiunge che avevo una sterilità del novantacinque per cento… una sterilità totale, secondo i suoi parametri.
 Io annuii, e intanto strinsi le mani di Luigi. Lui si alzò, si strofinò il naso, si risedette.
 «E quel cinque per cento?» chiese.
Il medico stirò la bocca in un sorriso amaro, si passò una mano sulla testa canuta:
«Miracoli» e aggiunge:
 «Si lascia sempre la possibilità d’intervento ai miracoli, non ci costa niente».
  Si alzò. Disse che dispiaceva anche a lui. Non volle un euro, quella volta, e ci aprì la porta.
 Scesi le scale con in testa il rimbombo di quelle parole: lei è sterile.
Camminammo in silenzio. Per strada mi fermai per ricordargli di comprare i quotidiani ma Luigi scosse la testa:
 «Tanto, ognuno parla per sè e a se stesso… gli basta scrivere quello che pensano, poco importa se è attinente alla verità o alla realtà dei fatti». Mi rispose.
 Continuammo a camminare verso casa e intanto mi dicevo che ero una stupida! Una stupida come le mosche che vanno a sbattere contro i vetri. Stupida, perché mi ostinavo ad andare a sbattere contro la cruda realtà, contro quelle parole che non lasciavano spazio a nessuna possibilità.
 Con Luigi parlammo anche d’adozione, ma non siamo mai andati oltre a quella a distanza. Ogni mese compilavamo un modulo e inviavamo i soldi per aiutare due bambini nella loro America Latina. Non abbiamo voluto vedere le loro foto, né conoscere i loro nomi.
 Passa il tempo e passano gli anni. Mi sono rassegnata e Luigi finge di non pensarci più. Ho cambiato lavoro, sono andata a lavorare in una piccola casa editrice che è sempre sul punto di chiudere. Traduco dal tedesco e dal francese. Un lavoro tranquillo, monotono, che però non permette distrazioni, e soprattutto di pensare ad altro.
Viaggio spesso. Accompagno Luigi nei suoi viaggi di lavoro: Parigi, Londra, Berlino. Guardo fuori dall’oblò. Il cielo è terso e laggiù sembra che tutti siano in pace. La gente fa le sue cose, esce, va per negozi, attraversa la strada, accompagna i figli a scuola, corre nei parchi.
 Quando torniamo la casa odora di chiuso. Nell’armadio c’è sempre quell’immenso pacco di cartelle cliniche, di ecografie, di analisi, di referti medici, di soldi buttati. Per fortuna abbiamo da fare. Luigi mi aiuta a svuotare le valige e io metto tutto in lavatrice. Poi ci guardiamo, per oggi basta, siamo stanchi e andiamo a farci la doccia. Usciamo nudi e con i capelli grondanti andiamo nel salone, davanti alla vetrata per metterci in posa, come di fronte al fotografo. Chissà se quel curiosone del palazzo di fronte non abbia inforcato gli occhiali per vederci meglio?
 Poi andiamo in cucina, apriamo il frigorifero e ridendo mangiamo quel poco che ci offre. Vogliamo essere felici, la felicità la cerchiamo a tutti i costi. Ci spetta di diritto eri teniamo che sia in debito con noi. Ma non vogliamo pensarci e andiamo a letto.
 Passa un mese e ho un ritardo. Lascio trascorrere un’altra settimana, ancora ritardo. Non ci voglio credere, non voglio illudermi, non devo illudermi. Non dico niente a Luigi, ma intanto prendo appuntamento con la mia ginecologa. Si parla come tra amiche e mi prescrive degli esami, una dieta, degli integratori, vitamine, ferro. La mattina successiva lascio che Luigi esca prima di me e poi inizio il solito iter. Mi precipito al laboratorio di analisi e presento la richiesta. Alzo la manica, mi lascio stringere dal laccio emostatico, giro la testa da un’altra parte per non vedere.
Vado al lavoro e non smetto di guardare l’orologio. Le ore non passano mai.
Prima di tornare a casa, passo dal laboratorio di analisi e ritiro i risultati. Non apro la busta, aspetto che rientri Luigi. Mi siedo sul divano, accendo il televisore, cerco di stare calma. Finalmente sento girare le chiavi nella toppa e gli vado incontro. Lo saluto, gli do un bacio e anche la busta. Ormai è diventato esperto anche lui. Siamo fermi nell’entrata, la porta d’ingresso ancora aperta. Prende la busta e intanto mi guarda interrogativamente negli occhi. La apre quasi tremando, prende il foglio, abbassa lo sguardo e dice:
 «Sei incinta!!». Le gambe mi diventano molli, le lacrime mi stanno inondando gli occhi, ma cerco di restare calma. Con un calcio chiude la porta e mi abbraccia.
«Vedrai che questa volta sarà quella buona. Lo sento amore». Mi dice, mentre continua a stringermi. Mi sento mancare il fiato per la sua stretta, ma non dico niente. Rimango così, stretta tra le sue braccia: pensosa, tesa, ma felice e speranzosa.
I nove mesi trascorsero tra timori e speranze, ma anche tranquilli. Parto cesareo ed è nato Walter, che ora ha sedici anni ed è qui con me.
 Siamo in vacanza in Croazia, in un villaggio turistico sulla costa. Luigi è uscito presto per partecipare, assieme ad altri villeggianti, a una battuta di pesca d’altura.
Noi ci siamo alzati con calma, ho atteso che Walter facesse la sua interminabile doccia, e ora siamo seduti a un tavolino esterno della caffetteria dell’hotel, assieme ad altra gente tutta con l’infradito ai piedi, bermuda e t-shirt, in attesa della prima colazione.
  La ragazza, con il suo grembiulino bianco si avvicina, sta per lasciare il vassoio sul tavolino ma le sfugge di mano e va a cadere sui jeans di Walter. La ragazza resta impalata, sgrana gli occhi e si porta una mano alla bocca che si è spalancata in un gesto di stupore e paura. Il caffellatte bollente ha ustionato le gambe di Walter, mentre i succhi di frutta hanno reso una poltiglia, i suoi jeans. Parlando in inglese, con un lieve accento balcanico, la ragazza si scusa. Walter si alza e bofonchia: impedita, imbranata, imbecille, ma siccome è un bravo ragazzo in inglese le dice: don’t worry … it’s okay.
 La ragazza continua a scusarsi e gli porge un tovagliolo. Si china per raccogliere il vassoio e le tazzine rotte. Intanto è arrivata una donna robusta, si avvicina e parla in fretta con la ragazza, non si capisce una parola, ma è chiaro che la sta maltrattando. La ragazza tiene la testa bassa, ha le guance rosse, infuocate. Walter si tira su e tocca la spalla alla donnona e le dice: it's my fault... the girl is very good, very much good …, e poi aggiunge un okay interrogativo, duro, che non permette repliche. Il donnone se ne va e Walter si risiede. La ragazzina gli dice ancora una volta sorry e si allontana per andare a prendere un altro vassoio. Walter le fa un sorriso dei suoi, ma appena andata via aggiunge:
 «Questa ma’, è un’incapace totale». Ed io gli rispondo che “questa”, ha l’età sua e già lavora. Lui allora s’infiamma, e mi dice che anche lui avrebbe voluto lavorare e che sono stata io a non permetterglielo. È vero, voleva attaccare volantini pubblicitari sui parabrezza delle macchine, lasciarli nei portoni delle case, per quindici euro al giorno. Non mi andava che stesse per ore in mezzo alla strada, in compagnia di certi ragazzi con gli occhi lucidi di marijuana. Avrei potuto dirgli che quello non era un vero lavoro, che era il solito ripiego, che un lavoro per essere considerato tale richiedeva studio e soprattutto necessità, e che lui invece non ne aveva bisogno. Ha il suo motorino, i ray ban, indossa roba firmata, va a scuola di tennis, in più ha dei risparmi in banca, ma sto zitta perché siamo in vacanza e non mi va di discutere.
È un ragazzo viziato. Luigi ed io non facciamo altro che accontentarlo in tutto, lo so. Ma è nostro figlio, e lo abbiamo atteso così tanto che non riusciamo a negargli niente. E d’altronde lui ci ripaga andando bene a scuola e con tanto affetto.
  È tornata la ragazzina con un nuovo vassoio colmo di succhi di frutta e caffellatte. Walter si alza in piedi di scatto, come temesse di ritrovarselo addosso. Si guardano e scoppiano a ridere.
«You are great», dice la ragazzina con voce allegra, prima di tornare al suo lavoro.
«Ti ha detto che sei un grande», gli dico e lui sorride.
 Beata giovinezza.

     

 



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