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LA FORZA DI REAGIRE

Pubblicato da: Categoria: IL RACCONTO

16
FEB
2017

Mia madre viveva con me da più di un anno e mezzo, e non so a chi delle due questa situazione pesasse di più. Non siamo mai andate veramente d’accordo, mai, neppure quando ero bambina, perché a suo dire ero troppo capricciosa, impulsiva e petulante.
Il ricordo che ho di lei da piccola è che era distante. Lei l’ha sempre negato, ma credo che non desiderasse un terzo figlio. L’espressione crucciata che aveva in una rara foto che la ritraeva mentre era incinta di me, la diceva lunga. E potevo contare sulle dita di una mano le volte in cui il mio comportamento non le avesse dato fastidio, suscitato nervosismo o addirittura rabbia.
Non so se sarei stata diversa se mi fossi sentita accolta con amore, se mi fossi sentita accettata. Invece, fin da bambina, sono stata tutto ciò che a lei non piaceva: timida, impacciata, poco brillante nello studio e un disastro in cucina. E bruttina, sì, anche quello. Senza i boccoli dorati di mia sorella e gli occhi azzurri di mio fratello.
Io avevo tentato di indossare un tutù e trasformarmi in un’eterea ballerina che ballava sulle punte, ma con la mia corporatura risultavo semplicemente ridicola. Non è andata meglio con la ginnastica artistica, non avevo fiato né coordinazione e i miei movimenti risultavano sempre fatalmente maldestri. E anche con lo studio non è andata meglio, anche se facevo di tutto per riuscirci. Intuivo, a differenza dei miei fratelli, che l’affetto di mia madre era condizionato dai miei risultati.
Non ne ho ottenuti, e lei ha preferito rivolgere le sue attenzioni ai suoi figli più meritevoli, delegando a mio padre la responsabilità quasi esclusiva di volermi bene. Per mia fortuna è stato un padre affettuoso, comprensivo e fin quando è vissuto ha cercato di smussare tutti gli spigoli in cui andavo a sbattere, rendendomi così meno dolorosi urti e cadute. Lo adoravo, e ancora adesso, anche se sono più di cinque anni che se ne è andato, continuo a sentirne la mancanza.
Anche in amore non ho avuto fortuna, dopo un matrimonio che è durato appena due anni, mio marito ha preferito rivolgere le sue attenzioni ad altre compagnie e si è dileguato. Ed è stato allora che Gisella e Mario mi hanno addossato la responsabilità di nostra madre. Non avendo più una famiglia, per loro ero naturale che me ne dovessi occupare io.
Se non mi opposi, né pretesi un’equa distribuzione dei compiti, fu solo perché da un pezzo avevo smesso di tenere in mano le redini della mia vita e lasciato che le cose accadessero. E anche mia madre, stranamente, accettò senza fiatare la decisione dei miei fratelli, ma a me però non la dette a bere: essere stata scaricata dai suoi figli prediletti l’aveva offesa e ferita, ed era su di me, purtroppo, che sfogava il suo malumore, e la nostra convivenza diventò un perenne mare in burrasca.
Non sono mai stata un tipo mondano e da quando il mio matrimonio è naufragato, la mia vita è diventata ancora più ritirata. Ero tornata una donna sola e di poca compagnia. Uno scampolo inutile. Una delle tante donne avanzate cui non piaceva andare a ingrossare la schiera delle quarantenni spaiate, quelle che si vedevano per l’aperitivo, quelle che entravano in un cinema in fila indiana, ridendo. Ne ho di amiche così, Alda e Bruna, ad esempio, vecchie compagne di liceo che avendo perso il treno, aspettano che qualche matrimonio deragli per raccogliere tra le loro braccia il sopravvissuto, confuso e stordito che fosse. Le altre mie poche amiche rimaste avevano messo su famiglia e con i loro mille impegni, raramente potevamo vederci.
Poi un giorno, mentre ero in casa e stavo per iniziare a cucinare, il cellulare si mise a squillare. Era un numero sconosciuto e mi aspettavo di sentire la voce impostata di qualche operatore di call center, non certo quella di Amedeo.
«Ciao, Giuliana, ti ricordi di me? Sono Amedeo. Ci siamo conosciuti due settimane fa alla festa di compleanno di Emma…».
Certo che mi ricordavo. Era quell’antiquario, alto e brizzolato. Elegante nel suo completo scuro. Un amico comune di Emma, con il quale mi ero trovata subito in sintonia. Parlammo molto di quadri e opere d’arte, e praticamente quella sera facemmo coppia fissa, e quando mi chiese il numero del mio cellulare non ebbi nessun problema a darglielo.
«Ciao Amedeo. Certo che mi ricordo di te. Ti sei fatto vivo,quanto tempo è trascorso?»
«Avrei voluto chiamarti prima, ma sono dovuto partire. Come ti ho detto ho un negozio d’antiquariato in centro, tradizione di famiglia, ma solo di quello non si campa più e allora collaboro come perito con delle case d’asta, e sono dovuto andare a San Pietroburgo per autenticare una serie di icone ortodosse. Ecco il motivo del mio ritardo. Ma dimmi, piuttosto, ti disturbo?»
«Ma no, no. Assolutamente! Stavo solo…» e mentre guardavo il mestolo di legno che tenevo ancora nella mano sinistra, decisi che era meglio abbellire un po’ la scena, «… stavo sfogliando una rivista sul divano, in attesa del pranzo, niente di che».
«E non hai in programma di uscire? Perché io pensavo, se ti andava, di fare un giro in centro e fermarci a prendere un aperitivo assieme. Che ne dici?»
La sorpresa per il suo invito, perché di un invito si trattava, anche se cauto e velato, durò meno di un secondo, e subito su questa, prese il sopravvento qualcosa di molto simile alla tensione nervosa. Non uscivo da sola con un uomo da almeno due anni e mi sentivo confusa, arrugginita. Oltretutto avevo rimandato anche l’appuntamento con il parrucchiere e i miei capelli gridavano vendetta, sia per come erano arruffati e sia per la ricrescita ormai evidente.
“Gli basterà vedermi da lontano per pentirsi all’istante dell’invito che mi ha fatto”. Pensai.
«Io non… non sarei dovuta uscire quest’oggi…» risposi, confusa.
«Allora, se vuoi, potremmo vederci nel pomeriggio. Passo a prenderti io».
A quel punto non mi restava che limitare i danni. Trovarmi sola in macchina con lui avrebbe reso quell’invito un vero e proprio appuntamento, e non mi sembrava necessario né saggio aumentare la mia tensione, per altro già alta.
«Ma no, ci mancherebbe! Ci vediamo in centro, magari vengo direttamente al tuo negozio, così mi fai vedere la tua esposizione di oggetti d’epoca, magari qualche servizio da tè in porcellana, o dei samovar d’argento». Gli dissi, prima di salutarlo.
«Esci?» Chiese mia madre, senza distogliere lo sguardo dal televisore.
Annuii, e mentre mi stavo infilando il cappotto, risposi:
«Sì. Faccio un salto in centro e poi ho un appuntamento con un antiquario».
Lei si girò verso di me, mi guardò distrattamente e poi tornò al suo programma preferito.
Avevo perso troppo tempo, sia nel provare mezzo guardaroba prima di decidere cosa mettermi, sia per sforzarmi di dare una piega almeno decente ai capelli e per truccarmi, io che di solito non metto nemmeno il rossetto, e allora salutai frettolosamente mia madre e uscii.
Amedeo era davanti alle vetrine del suo negozio e quando mi vide mi venne incontro con un gran sorriso e mi stampò due baci sulle guance. Arrossii e intanto sentii il cuore martellarmi in petto. I suoi modi inaspettati mi stavano confondendo, ma soprattutto mi stavano confusero i occhi, che mi guardavano come se stessero ammirando qualcosa di veramente bello, attraente.
«Scusami Amedeo. Ho fatto tardi…»
«Nessun problema. Entriamo così ti faccio vedere degli oggettini che potrebbero interessarti, poi, se vuoi, andiamo a fare due passi».
Se quel giorno qualcuno mi avesse chiesto di raccontargli quello che avevo visto nel negozio di Amedeo, credo che non ne sarei stata capace. I mille oggetti che mi passarono sotto gli occhi non riuscirono ad attrarre la mia attenzione, il mio pensiero stava vagando da tutt’altra parte.
«Ne valeva la pena?», chiese alla fine Amedeo, avviandosi verso il suo piccolo ufficio.
«Sì, davvero. Non ho mai visto oggetti così belli e preziosi». Gli risposi, ma come ho detto, senza ricordare un gran che di ciò che avevo visto. Per fortuna cambiò subito argomento:
«Non so tu, ma io comincio ad avere un po’ di appetito. Ti andrebbe una pizza?»
Per quanto desiderassi proseguire la serata in sua compagnia, venni sopraffatta dal desiderio di fuga, lo stesso che già durante la sua telefonata mi stava facendo declinare l’invito. Non avevo bisogno di inventare scuse, e gli dissi semplicemente la verità:
«Mi piacerebbe, ma mia madre mi aspetta per cena. È anziana, è sola e vive con me».
Sulla bocca di una quarantenne come me, mentre Amedeo mi guardava divertito, una simile affermazione suonò a dir poco ridicola e mi fece arrossire.
«E tu avvertila che farai un po’ più tardi questa sera. Non cascherà mica il mondo se per una volta dovrà cenare da sola, giusto?»
Mi mordicchiai le labbra, e intanto avevo una gran voglia di dirgli di sì, okay, va bene. Sentivo il bisogno della sua dolcezza, di ridere, di rilassarmi, stare con lui, dimenticarmi per qualche ora della mia vita grigia e abitudinaria. Alla fine gli sorrisi e annuii.
«Oh. Finalmente». Esclamò, salutando la sua collaboratrice e prendendomi sotto braccio.
Le strade erano affollate dal passeggio del sabato sera, le vetrine illuminate e in centro regnava un clima così gioioso e rilassante che era impossibile non esserne contagiati. Come per incanto mi sentii leggera, allegra e pronta a immergermi in quella serata che si annunciava speciale.
«E così ti stai vedendo con qualcuno…», fu il commento di mia sorella, buttato lì con una casualità del tutto falsa, e dopo il rapido sguardo d’intesa scambiato con nostra madre.
La sua visita, quel pomeriggio, ne ero certa, era stata programmata con mia madre per farmi parlare di Amedeo e mi chiesi perché non avessi mai affrontato io, da sola con lei l’argomento, senza aspettare questa specie d’imboscata di mia madre, con la complicità di Gisella.
Se in precedenza mi avesse chiesto qualcosa delle mie uscite serali, delle frequenti cene al ristorante e delle gite domenicali, non averi avuto problemi a parlarle dell’uomo che mi stava facendo rinascere. Tante volte ero stata sul punto di confidarmi con lei, ma all’ultimo momento, a causa del suo atteggiamento scostante, se non ostile, mi ero sempre trattenuta.
Chissà se mia madre riuscirà mai a capire, quanto avrei voluto averla come amica, sentirla vicino e condividere con lei le mie gioie e, in passato, anche i miei dolori.
«Mamma dice che ultimamente esci molto più frequentemente del solito». Continuò mia sorella, e sembrava che volesse accusarmi di qualcosa.
Io non sapevo cosa dire. Mi sentivo sotto interrogatorio, cosa avrei dovuto rispondere?
«Comunque spero che questa volta tu abbia scelto con maggiore accortezza le tue amicizie. La tua ultima storia è stata davvero allucinante. Parlo del tuo matrimonio, naturalmente».
Intervenne mia madre, parlando con me, ma rivolgendosi a Gisella.
Mia sorella annuì ed io deglutii a fatica. Non sapevo come definire quella conversazione, se non una tortura. E trovavo ingiusto che mia madre e mia sorella infierissero su di me in quella maniera, come se umiliarmi per loro fosse una cosa naturale, dovuta.
«Non ho niente da raccontare. Ho una storia con un quarantacinquenne di nome Amedeo. Tutto qui». Riuscii a rispondere.
«Che peccato, ora devo proprio andare. Vorrà dire che mi racconterai tutto la prossima volta, va bene?», mi disse all’improvviso Gisella, guardando l’orologio e alzandosi con gesto teatrale. Ma era ovvio che non le interessasse nulla, e neppure a mia madre interessava, la loro era pura curiosità, infatti, andata via la figlia prediletta, mia madre si andò a rinchiudere in camera sua.
Io rimasi ancora per qualche minuto seduta, con le mani posate sulla tovaglia, a soppesare la portata del mio gesto che poteva sembrare banale, ma che per me si era rivelato rivoluzionario. Qualcosa stava cambiando, pensai, e mi ritrovai a sorridere.
La proposta di Amedeo arrivò qualche giorno prima di San Valentino.
«Perché non ce ne andiamo a passare tre giorni a Positano? Ho un appartamentino proprio sulla costa. Non ti aspettare chissà che, è piccolo e spartano, ma è bello e si trova di fronte al mare e prima di addormentarsi si viene cullati dalla risacca delle onde».
Le labbra mi si piegarono in un sorriso estasiato. Il mare di fine inverno, le giornate un po’ più lunghe, io sola con lui, per qualche giorno… cosa potevo chiedere di più?
In effetti, sì, averi potuto sperare che qualche intoppo non riuscisse a rovinare i miei programmi. Ed è proprio quello che invece avvenne tre giorni prima della partenza, quando mia madre si svegliò con le sue solite ansie, la pressione più alta del solito e un po’ di tosse, dovuta a un raffreddore che le impediva anche di respirare bene.
Chiamai subito mia sorella e l’avvertii della situazione.
«Hai chiamato il medico?», mi chiese dura e in tono distratto.
«Il medico dice che ci vorranno alcuni giorni di antibiotici e assistenza». Aggiunsi.
«Che peccato, proprio quest’anno che volevi partire anche tu per San Valentino», commentò lei, e anche un’ingenua come me riuscì a capire che era tutto fuorché dispiaciuta.
Non potevo aspettarmi che fossero loro a dimostrarmi comprensione e affetto e non potevo aspettarmi nemmeno che da un momento all’altro cominciassero ad aver cura di nostra madre.
Era tutta la vita che subivo e soffrivo per l’indifferenza dei miei fratelli e per il poco amore di mia madre, e allora ritenni fosse arrivato il momento di mettere le cose in chiaro.
«Guarda che io non ci rinuncio, non ho cambiato idea. Io questa volta, per San Valentino parto, ed è per questo che ti sto telefonando».
Lei si zittì per qualche secondo e poi sbottò:
«Se non hai capito… sto in giro a fare gli ultimi acquisti prima di andare in montagna».
«Allora vorrà dire che sarà Mario a doversene occupare. Avvisalo tu». Conclusi.
Il mio naturalmente era un mezzo bluff, perché non sarei mai stata capace di partire davvero se nessuno di loro fosse rimasto con nostra madre, ma per fortuna riuscii a mascherare bene il mio atteggiamento.
«Se la metti così… chiamo subito Mario e gli dico dell’imprevisto».
Sibilò sdegnata Gisella, ed è con una certa soddisfazione che me la immaginai rossa di rabbia, mentre chiamava nostro fratello. E ne ero certa, si sarebbero azzuffati come galli per decidere chi doveva rinunciare alla loro vacanza e che difficilmente me lo avrebbero perdonato.
Pazienza, continuerò a fare a meno del loro finto affetto pensai e, chiusa la comunicazione, andai a controllare la febbre di mia madre: trentasette e uno e anche la pressione era tornata normale. Tornata in camera mia chiamai Amedeo e gli dissi che tutto era stato risolto e che il sabato successivo saremmo potuti partire tranquillamente.
Probabilmente, al ritorno, la battaglia con i miei fratelli sarebbe ripresa, ma intanto la tregua di San Valentino aveva funzionato, e questa volta avevo vinto io.
 



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