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LE SORPRESE DELLA VITA

Pubblicato da: Categoria: IL RACCONTO

4
APR
2017

Mio padre e mia madre mi hanno adottato a sei anni. Mio marito lo sa, i miei figli no, sono ancora troppo piccoli. I ricordi di quella vita, cui mi hanno sottratto non li ho raccontati a nessuno, ho sempre finto di aver dimenticato tutto, sia la miseria sia gli anni di violenza e abbandono.
Quando mi hanno portato via dall’istituto, la mia nuova mamma mi ha donato una bambola che tuttora conservo gelosamente. All’epoca non sapevo ancora camminare, parlavo a monosillabi e mordevo invece che baciare. I miei genitori adottivi mi hanno insegnato tutto. Mi hanno circondato d’affetto, mi hanno mandato a scuola, mi hanno permesso di studiare e ora sono laureata e mi sono sposata.
Mio marito è un medico, e quando ci siamo conosciuti ha subito capito che da piccola avevo subito dei traumi infantili e ha saputo aiutarmi e capirmi. Tra me e lui va ancora bene, ma niente è più come avevo sognato quando ci siamo sposati.
La sera prima della partenza eravamo a casa, seduti sul divano, si era chinato verso di me e mi aveva preso la mano. Non l’ho respinto, non lo faccio mai, anche se sempre di più m’infastidisce la sua naturalezza, i suoi gesti d’affetto. Io mi sento bloccata nei suoi confronti e non so spiegarmi il perché, né da quanto tempo sono diventata così fredda nei suoi confronti.
«Vuoi che venga con te?» Mi chiese con dolcezza.
«No, preferisco che tu resti con i bambini». Gli risposi e aggiunsi:
«Non devo sentirmi in colpa, vero?»
«Per cosa?» Mi chiese.
«Per non essere riuscita ad amarla più di tanto, per non riuscire a esserle grata».
Lui ha ritirato la mano, mi ha guardato fisso negli occhi e mi ha detto che non si può amare qualcuno solo perché è diventata la nostra madre adottiva.
Questo è Tancredi: serio, razionale, non ha mai paura di dire la verità. Ha guardato fisso davanti a sé e ha continuato:
«Cercano di insegnarcelo, di inculcarcelo, ma non è così, non si può voler bene a una persona a comando. Ora la ami solo quando pensi alla tua infanzia, a te bambina, ma in te non è scoccata la scintilla che speravi, ma di questo non devi fartene una colpa».
Prima della partenza, sul treno, mi sono affacciata al finestrino e ho salutato mio marito e i nostri due bambini. Sono frastornata, provo sentimenti alterni, rabbia e compassione verso mia madre. Invece di andare a Roma, vorrei raggiungere mio padre, so che è in pensiero per ciò che è accaduto a sua moglie. Non ha mai smesso di amarla. Quando gli ho telefonato per comunicargli che dovevo assentarmi per andare da lei, che era stata coinvolta in un incidente stradale ed era ricoverata in ospedale, mio padre ha ascoltato, è rimasto in silenzio, non mi ha detto niente. È sempre stato di poche parole, ma il silenzio e il respiro mi dicevano che era confuso quanto me, ma a ciò lui aggiungeva la sofferenza, mai assopita, per essere stato abbandonato della moglie.
Non vedevo mia madre da mesi, da quando si era trasferita a Castelgandolfo. Andavo a trovarla di rado. Aveva cambiato modo di vivere e di vestire, era ingrassata, aveva il viso tondo e gioviale e viveva con l’uomo per cui aveva lasciato mio padre sette anni prima. Quando andavo a trovarla, gli occhi le si inumidivano. Chiedeva di me, di mio marito, dei bambini. Nessuna domanda mai su mio padre.
Quando mi laureai, tornai a vivere con mio padre, il mio posto era accanto a lui, nell’appartamento sopra il negozio che lui aveva lasciato così come la moglie lo aveva sistemato. Poi mi sono sposata e sono andata ad abitare con Tancredi, sono nati i nostri due bambini e loro riempivano le mie giornate.
Non parlo con risentimento, ma mi pesano ancora gli anni in cui al mattino presto mi chiamava mio padre, telefonate brevi, quasi mute o fatte di poche parole, e mi pesa anche la sua comparsa solitaria ai pranzi domenicali a casa mia e il suo sforzo per essere affettuoso con i bambini e con me. In realtà gli mancava solo lei, ed io non potevo sostituirla, né sapevo rincuorarlo.
Ora sono qui sola, a Castelgandolfo, nella casa che mia madre occupa con il suo compagno pittore. Nel sacco che ho preparato quando mi hanno telefonato, ho infilato solo qualche maglietta, poca roba, pensavo di rientrare subito, invece lei si è aggravata e l’hanno trasferita in rianimazione.
Con il suo compagno sono stati tamponati sull’Appia antica. Tornavano a casa da Roma, dopo una giornata trascorsa tra piazze e monumenti. Ogni giorno lui tirava fuori le sue tele, colori e pennelli e si metteva a dipingere scorci del Tevere, della Roma antica. Mia madre lo accompagnava e mentre lui dipingeva lei cercava un po’ d’ombra e si metteva a leggere un libro. Si era messa con un pittore di croste e per trascorrere quelle giornate accanto al suo genio, sette anni prima aveva lasciato mio padre.
«Se torni a casa è meglio, ho bisogno di parlarti, di sentirti vicino, mamma è andata via. Ha detto che non mi amava più».
Mi disse al telefono, mio padre. Era serio, incredulo, balbettava.
Poi era arrivata anche la telefonata di mia madre.
«Sono andata via, il matrimonio con papà non funzionava più».
Che si fosse innamorata di quel pittore che era venuto dalle nostre parti per dipingere il mare d’inverno, i tramonti, i trulli e le vecchie masserie, lo avevo sempre sospettato e alla fine, con quella telefonata, me lo aveva confermato anche lei.
Aveva descritto il genio e la loro futura vita assieme, fatta di viaggi, quadri e amore, poi aveva aggiunto:
«Papà ti dirà che l’ho lasciato per un altro uomo, ma non è così. O meglio è anche così, ma con lui non andava più… lo sai che è depresso. Avrebbe dovuto curarsi, quante volte gli ho detto di andare da un medico. Passa le sue giornate in negozio, il giornale, un libro, la sua musica. Come avesse già ottant’anni. Io non potevo più continuare così. Ho conosciuto Emanuele… Ha qualche anno meno di me, abita in una casa in collina, ai Castelli Romani…»
E i suoi pensieri volarono lontano, dietro a un sogno, quello di lei e di lui, poi chiese:
«E tu, come va all’università? Sei contenta?»
Qualche anno dopo avrebbe chiesto:
«Come va con tuo marito, i bambini, il lavoro, sei contenta?»
In fondo anche mia madre ha vissuto due vite come me. Io potrei raccontare quella con mio padre, mentre non so molto di quella di mia madre con il pittore.
Una volta si era messa a piangere:
«Tu credi che io abbia tutti i torti. Non è così Carlotta, non sempre chi se ne va ha colpa. A tuo padre volevo bene, ma lui l’ha sempre ignorato».
In ospedale sono rigidissimi, si entra solo in orari prestabiliti e solo per pochi minuti e allora sono tornata qui, a Castelgandolfo, nella casa in cui mia madre vive con il suo compagno.
Mi stendo sul letto, chiudo gli occhi, lascio cadere a terra un disegno che ritrae mia madre a seni scoperti. Ho fame ma non ho voglia di cucinare, più tardi cercherò una trattoria.
Negli ultimi sette anni mio padre ha trascorso il Natale con noi e anche parte delle vacanze estive è sempre stato con noi. Qualche volta andavo a trovare mia madre, a casa del pittore, restavo a pranzo da loro, mai a dormire. Il pittore, con le mani ancora sporche di colore, arrostiva le bistecche e le salcicce sulla brace. Grosso, con i capelli lunghi sulle spalle, era stempiato e non si radeva mai. Anche lui parlava poco, come mio padre.
In ospedale è arrivato anche il figlio del pittore. Ci siamo presentati, non c’eravamo mai visti prima. Si chiama Danilo e mi ha detto che vive da anni in Irlanda con la moglie e sua figlia. Si scusa del ritardo, ma dice che la polizia italiana è riuscita a contattarlo solo il giorno prima. Mi racconta che vive a Dublino, dove con la moglie irlandese ha aperto un negozio di cibi e prodotti italiani.
Abbassa la testa. Il suo aspetto fisico blocca ogni immaginazione, sembra il clone del padre. Vorrei parlargli, chiedergli del padre, ma non so da dove cominciare. Lui con naturalezza mi mette una mano sulla spalla, io mi scosto.
«Mi devi scusare… ma è che…»
«Lo so, una cosa terribile…», lo anticipo io.
Alzo lo sguardo e lo fisso. Gli occhi sono diversi da quelli di suo padre, ma ha la stessa struttura fisica, lo stesso viso. Porta i capelli lunghi e disordinati, intorno alla bocca ha due rughe sottili. Mi chiede dove alloggio e quando glielo dico mi chiede se c’è posto anche per lui a casa di suo padre. Che cosa potevo rispondergli, in definitiva era casa di suo padre. Poi mi chiede da quanto tempo stavano assieme.
«Non lo so, sette anni, forse. Io ero ancora all’università, ma forse già da prima mia madre aveva lasciato mentalmente mio padre». Gli rispondo.
Inutile rimanere in ospedale, l’orario di visite è terminato e allora torniamo a Castelgandolfo. Lui ha preso una macchina a noleggio e mi chiede se voglio un passaggio. Salgo in macchina e guidando mi chiede:
«Che hai fatto da quando sei qui?»
«Niente. Non sono in vacanza, sono qui per mia madre».
«Andiamo a cena sul lago d’Albano, è molto bello al tramonto». Esordisce, con una naturalezza che trovo irritante. Gli lancio uno sguardo dubbioso e mi chiedo che uomo sia questo: un bambino mai cresciuto, un matto strafottente, o figlio di un pittore squilibrato.
«Dai, raccontami di te, di cosa ti occupi?» Mi chiede con estrema naturalezza.
«Parli, fai il disinvolto, voli da un argomento all’altro come se fossimo qui in vacanza, non perché i nostri genitori sono ricoverati in ospedale» Gli rispondo, secca e contrariata.
Lui mette la freccia e infila la galleria che porta al lago, percorre ancora poche centinaia di metri e si ferma davanti a un ristorante. Dice di conoscere il locale, ci è già stato quando una volta è venuto a trovare suo padre.
Il ristorante è gremito e mi devo tappare un orecchio per sentire la voce di Tancredi. Lui è a casa con i bambini e chiede di mia madre, vuole sapere di me.
«Qui c’è un frastuono di ragazzi che ridono e urlano, non sento nulla». Gli grido, e intanto mi allontano per dirgli che sono a cena col figlio del compagno di mia madre: un matto che non aveva più rapporti con il padre e che è arrivato in giornata da Dublino. Da Dublino, dove vive, gli ripeto.
Torno dentro e mi siedo al tavolo, Danilo mi chiede con chi stavo parlando al telefono e quando gli dico con mio marito, mi domanda se il mio matrimonio funziona ancora. Non gli rispondo, prendo le posate, riprendo a mangiare e non vedo l’ora che la cena abbia termine.
«Dopo andiamo a ballare?» Mi chiede, guardandomi come se avesse detto la cosa più normale di questo mondo.
«Sei pazzo. Non se ne parla nemmeno, neanche morta». Gli rispondo, senza nemmeno alzare lo sguardo dal piatto. Lui mi guarda e scoppia a ridere come un cretino.
Dopo cena siamo andati a passeggiare lungo il lago. Mi prende per mano, ride e mi tira a se. Cerco di liberarmi dalla sua stretta, mi sento goffa come da ragazzina, quando mi trovavo tra quelli più grandi di me.
Finalmente siamo tornati a casa. Io vado nella mia stanza e mi addormento. Quando apro gli occhi lui è accanto al mio letto, non so come sia entrato, non avevo chiuso a chiave la porta.
«Che fai?» Gli chiedo.
La bocca gli trema, ha gli occhi rossi, mi guarda.
«Senti, il destino ci ha fatti incontrare…perché non ne approfittiamo?»
Mi sollevo, gli do uno spintone, lui si allontana e davanti alla porta mi chiede perché sono sempre così nervosa. Non gli rispondo, mi alzo e quando lui è uscito, chiudo la porta a chiave.
Ma ci sono cose che non si possono dire. A chi potevo confessare che ero invasa da un desiderio colpevole.
Sono in ospedale, preoccupata, ma le condizioni di mia madre stanno migliorando. Squilla il cellulare e con la linea che va e viene cerco di rispondere alle domande di mio marito che chiede di mia madre, se sono assieme al figlio del suo compagno e che tipo è costui. È arrivato il mio turno per vedere mia madre, devo andare, ma prima di chiudere Tancredi mi gela:
«Ti piace il figlio di Emanuele?»
Mi fermo sulla porta e gli chiedo come gli possano venire in mente certe domande. Gli dico che Danilo è matto, uno squilibrato, che forse ha avuto un’infanzia difficile. Tancredi tace, lo sento respirare, ma lo so, non è tranquillo.
Rientriamo a Castelgandolfo. In camera mi guardo allo specchio, ho i capelli appiccicati, la testa che mi bolle. Mi metto sotto la doccia e poi mi corico. Mi addormento e per la prima volta sogno di quando ero all’istituto. Apro gli occhi e nella semioscurità della stanza vedo Danilo seduto ai piedi del letto, che mi sta guardando. Istintivamente mi metto a sedere, tiro su le lenzuola e mi copro.
«Quanto dormi». Mi dice.
Sono irritata. Gli chiedo perché si stia comportando così, ma lui tace, si limita a sorridere e continua a guardarmi. Si avvicina, mi mette le mani sulle spalle, mi blocca nel letto, il suo viso davanti al mio, ha l’alito che sa di alcool. Cerca di baciarmi. Lo copro di schiaffi e pugni, ma lui ride. Il suo abbraccio mi tiene ferma e intanto mi chiede se può darmi un bacio fraterno. Siamo vicini e continua a stringermi. La stanza è nell’oscurità, illuminata solo dalla luce di qualche lampione lontano, si vedono solo le forme dei mobili e noi due sul letto. Accosta le sue labbra alle mie e mi da un bacio molto poco fraterno, tanto che le nostre lingue si sono cercate e trovate. Poi siamo rimasti così: immobili, abbracciati.
Sono trascorsi quindici giorni, mia madre e il suo compagno sono ancora convalescenti, ma sono tornati a casa. Danilo è ripartito ieri per Dublino ed io sono in viaggio per tornare a casa.
Vaglio nella mia mente cosa raccontare a Tancredi e cosa tacergli. Comincerò dalla fine, da quando mia madre è uscita dall’ospedale. Gli racconterò delle giornate e delle nottate trascorse al suo capezzale in ospedale. Gli dirò di quanto era arrogante e insopportabile il figlio del pittore. Gli racconterò quello che lui vorrà sapere, ma non dirò nulla delle ultime notti trascorse assieme a Danilo.
Non dirò niente a Tancredi, ma forse lui l’ha capito, l’ha intuito prima di me al telefono, ma quello che è successo tra me e Danilo non lo racconterò a nessuno.
Se abbiamo parlato, ballato, fatto l’amore, o se solo ci siamo tenuti stretti e senza parlare, cercando di vincere la nostra fragilità, questo è un mio segreto.
 



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