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GENTE DEL DESERTO

Pubblicato da: Categoria: IL RACCONTO

19
APR
2017

Faisal ha sei anni, non ha mai visto il mare ma l’ha immaginato tante volte punteggiato di stelle, azzurro come le luci della città santa, come il cielo. Ha trovato nella sabbia le conchiglie sepolte milioni di anni fa, quando il mare entrava nel deserto, le ha raccolte e riposte in una scatola di latta.
Il deserto era la sua casa, la sabbia il suo mare e nelle dune vedeva alte onde. Lui non ha mai lasciato il deserto, e come sua madre ha una certa diffidenza verso la gente del mare.
Non possiede nulla, solo le impronte dei suoi piedi lasciate sulla sabbia e l’ombra che il sole muove dietro di lui.
La sua casa non c’è più. Restano solo le macerie in quella città distrutta dalle bombe e dalle cannonate. Ora è un luogo abbandonato, battuto dal vento. Sono rimasti solo i vecchi che non possono andarsene, che non sanno dove andare. Gli altri sono fuggiti. Tutti scappati verso il mare.
Il padre di Faisal aveva un lavoro ma è stato ucciso, colpito da un proiettile vagante mentre cercava riparo dalla guerra. La moglie, Nasira, l’ha trovato riverso per terra, con un proiettile nella gola. Si è inginocchiata accanto, ha guardato in alto, verso il cielo e ha pianto.
È notte fonda, c’è solo la piccola luce di una candela che non smette di vibrare. Nasira si china e svuota un sacchetto, dentro ci sono dei soldi, euro e dollari che suo marito aveva guadagnato, messo da parte e nascoso in una buca dietro la casa. Conta in fretta i soldi, li rimette nel sacchetto e li fa sparire sotto i suoi abiti. Ha paura per suo figlio. Devono andarsene. Avrebbero dovuto farlo da un pezzo. C’è la guerra, e la loro città non ha più futuro. Si infila nella botola dove ha nascosto Faisal e lo sveglia. Si devono mettere in cammino.
Vagano tra i ruderi, riparandosi di notte nei crateri scavati dalle bombe. Lungo le strade vedono solo macerie, polvere e sabbia. In giro circolano fuoristrada con mitragliatrici e bazooka a bordo, facce barbute, allucinate, con turbanti laceri e sporchi. Hanno ucciso anche gli animali per intimorirli, ma Nasira non ha detto niente a Faisal, né che hanno ucciso suo padre, né che le loro cose se le sono portate via quelli che fanno la guerra.
Hanno atteso la notte. Una notte che non è mai abbastanza buia, La luna piena illumina le strade deserte, i cumoli di macerie, le palme scuoiate. Corrono tra le case sventrate, scivolano furtivi come ratti. Sentono provenire degli spari e vedono i proiettili traccianti attraversare il cielo. Corrono. A Faisal cade la scatola delle conchiglie e vorrebbe fermarsi a raccoglierla.
«Non importa Faisal, non c’è tempo. Corri». Gli dice sua madre, afferrandolo e ricominciando a strisciare tra le macerie. Faisal si guarda intorno spaventato. Che fine hanno fatto tutte le case, la gente, i suoi compagni di giochi?
Non ci sono risposte, stanno andando verso il mare. Cercano la salvezza. Camminano per un altro giorno e un'altra notte, seguono la pista di sabbia. Al mattino vengono raggiunti da un camion stracarico di profughi, stretti come sardine. Nasira urla, si para davanti e lo fa fermare, da i soldi al conducente, non importa se il camion è strapieno, se non c’è più posto, l’autista fa salire prima Faisal e poi anche la madre su quel pianale carico di gente disperata, e per tutto il viaggio Nasira è costretta a tenere Faisal in braccio.
Lungo la strada vedono delle jeep capovolte e bruciate, è l’immagine del nuovo deserto. Chilometri di silenzio, solo il rauco brontolio del motore.
Scene di guerra, di ogni guerra. Umanità deportata come bestiame.
Tutti hanno le teste basse e bianche di sabbia. Lungo la pista affiorano stracci colorati, camice, jeans, scarpe, ma non sono vuoti. Nasira, per riparare Faisal dalla sabbia gli ha avvolto un foulard sul viso e lui vede quel cimitero attraverso le maglie di quel pallido filtro. Tutti sanno di cosa si tratta: sono i profughi che non sono riusciti a raggiungere nemmeno la spiaggia.
Il viaggio continua. Il rombo del motore è diventato assordante e la sabbia entra nelle narici, brucia la gola. All’improvviso, dal nulla, compare un fuoristrada e ne scende un uomo grasso e barbuto che prende in consegna il gruppo di disperati. Sarà lui a guidarli fino al mare.
Tutti scendono dal camion e si accodano dietro la jeep. Qualcuno abbandona il suo carico di stracci, una valigia troppo pesante, una borsa stracolma di cose care ma ormai inutili.
Procedono in un silenzio spettrale, si sente solo il pianto di qualche bambino o il gemito di una donna sfinita.
L’orizzonte cambia e si copre qua e là di un verde arso: oleandri senza fiori, pale spinose di cactus rinsecchiti. Adesso tutti allungano il passo, molti corrono. Il mare è sotto di loro.
L’uomo grasso, barbuto e sudato raccoglie i soldi e urla. Devono sbrigarsi, fare presto, sono in ritardo. Qualcuno indica un guscio arrugginito che galleggia sull’acqua, a pochi metri dalla riva. Tutti guardano spaventati quella carretta del mare che sembra uno scoglio sforacchiato dal tempo, e urlano, protestano.
L’uomo grasso e barbuto grido: “Cosa vi aspettavate, una nave da crociera?” E aggiunge che il suo compito finisce lì, che devono sbrigarsi, salire a bordo o tornare nel deserto. Sputa per terra e risale sulla jeep. Qualcuno lo insegue, gli chiede per favore, ha la moglie incinta, non può salire su quel rottame, ha paura. L’uomo grasso e barbuto lo allontana con un colpo di sportello e sparisce tra le dune.
Adesso nessuno parla più. Faisal vede il mare per la prima volta in vita sua. Lo tocca con i piedi, si bagna le mani, lo beve e lo sputa, guarda le onde che vanno avanti e indietro. Pensa che sia più grande del deserto perché finisce laggiù, dove comincia il cielo. Credeva di poterci camminare dentro ma l’acqua è troppo profonda e la madre lo trattiene, poi prende la bottiglia dell’acqua e lo fa bere.
Tutti cominciano a spingersi, a salire, a cercare un posto su quella nave fantasma. Qualcuno ha impostato il GPS sulla rotta da tenere. Rotta verso il nulla.
Faisal scruta il mare, limpido e scuro. Suo padre gli aveva detto che nel mare c’erano i pesci, ma lui non li vede e guarda la madre. Nasira lo accarezza e si chiede quanto durerà quel viaggio? La costa non si vede più, c’è solo il mare che sale e che scende. Il sole è infuocato, brucia le loro teste, le loro membra, inaridisce le gole. Il mare è monotono e a guardarlo il suo riverbero fa arrossire e lacrimare gli occhi.
A Faisal non importa di aver lasciato il deserto. È un bambino, troppo piccolo per avere nostalgia. Ciò che conosce e gli interessa è tutto lì, nelle braccia di sua madre che lo tengono stretto.
È arrivata la notte e un ragazzo ha sparato un razzo luminoso. Forse ha visto qualcosa e vuole attirare l’attenzione, ma il razzo è marcio come la barca e non si accende.
Tutti tacciono, stanno male, qualcuno vomita. Il mare adesso arriva di traverso e la barca pende tutta da una parte. Nasira stringe ancora più forte a se il figlio, gli dice di non avere paura, lei è lì per proteggerlo. Faisal alza la testa, guarda la madre, ma non sorride. È pallido, ha sete e la puzza del gasolio bruciato gli entra nelle narici. Una bambina si lamenta, piange, si dispera, due uomini le urlano contro in un dialetto che Faisal non conosce, ma ha paura.
Si soffoca, il sole è alto, fermo sulle loro teste e crea delle bolle sulla pelle e sulle labbra. Faisal ha sempre più sete ma Nasira cerca di razionare l’acqua. Gli da dei sorsi sempre più piccoli che non bastano nemmeno a inumidire la lingua. Gli ha avvolto la testa nel suo velo intriso di acqua salata. Tutti fanno i loro bisogni in un secchio comune che poi svuotano in mare. Inumano? Qualcosa oltre, di più, di peggio.
Il mare è un mondo a sé, un mondo fatto di acqua e sale, con le sue leggi e la sua forza. Si alza e si abbassa e la barca sembra un guscio di noce sballottato da una mano invisibile. Faisal ha paura di quelle dune d’acqua, sempre più alte e sempre più frequenti, ma si fa forza, tace, per non preoccupare sua madre.
Di notte, la temperatura scende di parecchio. Chi si può coprire tira fuori un maglione, una giacca, un cappello, e intanto il mare è diventato un mantello oscuro, sempre più nero, sempre più inquietante. E anche il vento si è intensificato e ora frusta quei corpi intirizziti, affamati e assetati. Faisal ha freddo, ha fame, ha sete, e cerca riparo nel corpo di sua madre. Nasira da un pezzo non lo allatta più al seno, “sei grande ormai”, gli diceva, ma ora lo spinge lì, dove un po’ di tepore è rimasto, anche se latte non ne ha più, quello si è prosciugato da un pezzo. Adesso Faisal si è addormentato, sta sognando perché sussulta, si muove e si lamenta continuamente.
Anche Nasira sta tremando dal freddo e pensa a quello che le diceva suo marito quando era ancora in vita, quando parlavano della guerra: “Il petrolio è la rovina di tutto, le feci del diavolo. Non ti fidare di quello che sembra una fortuna, perché quello che per i ricchi è una fortuna, per i poveri è una disgrazia”.
È tutto buio, la luna se n’è andata. Un ragazzo, uno degli scafisti, s’infila una torcia in bocca per farsi luce e cerca di svuotare una tanica di gasolio nel serbatoio. Traballa e impreca.
Nasira aspetta l’alba. Aspetta di vedere le coste italiane. Lì dove le donne camminano con il capo scoperto, portano i pantaloni attillati, hanno le unghie laccate e possono indossare costumi succinti. Pensa che quando arriveranno saranno accolti da mani pietose, qualcuno li fotograferà, la televisione darà notizia del loro sbarco. A Faisal daranno dei giocattoli, una bibita fresca, delle caramelle, mangerà per la prima volta la pizza.
Il padre del marito, a Nasira aveva detto che in Italia si sta bene. Lui aveva lavorato su un peschereccio siciliano, poi era ritornato a casa per la nostalgia di quella terra arida e in guerra.
Faisal si è svegliato e guarda il mare. Tutto quell’azzurro lo spaventa. Forse non ricordava più di essere salito con sua madre su quella barca di deportati e la nostalgia del deserto lo attanaglia. Vorrebbe tornare indietro, tornare a casa, anche se ormai la loro casa non c’è più. La ruggine della nostalgia sta rodendo il suo cuore di bambino disgraziato. Pensa al paradiso, dove le donne sono più belle, il cibo è più buono e tutti colori sono sgargianti. Almeno così gli aveva detto una volta suo nonno.
Faisal torna a guardare il mare, e le lacrime cominciano a scendere silenziose e lente sul suo viso arso dal sole. Non si lamenta più, è quasi disidratato. Sulle gambe si sono formate delle bolle, gli dolgono le membra. Si stringe alla madre. Continua a piangere in silenzio ma non si lamenta più. Le sue labbra sono diventate aride, aperte e screpolate come il legno di quella barca.
Nasira teme per il figlio. Lo abbraccia cerca di rincuorarlo. Prima gli diceva dormi, ora cerca di tenerlo sveglio. Gli racconta una storia, quella di un bambino fortunato, di un bambino che va a vivere in un mondo di bambini, in un mondo di giochi e di divertimenti. È una storia inventata, una bugia per rincuorarlo.
L’acqua è finita da un pezzo, nessuno sulla barca ne ha più una goccia. Nasira si china sul figlio, lo guarda, gli parla, gli bagna la fronte con l’acqua salata.
Il motore all’improvviso borbotta, sussulta e si ferma. Ora la barca è in balia delle onde, in balia di quel mare che sta per diventare la miniera che presto si coprirà su tutti loro. Nasira sente un tonfo, si spaventa, guarda l’acqua e vede una sagoma galleggiare. È un morto che hanno buttato in mare per fare posto, per stare un po’ più larghi. E quei tonfi durante la navigazione si ripetono.
Nasira ha superato la paura dei bombardamenti, delle fucilate dei cecchini quando andava in cerca di cibo, ma il terrore di quel mare infinito la sta annientando. Aspetta soltanto che il destino di suo figlio e il suo si compia.
Scruta Faisal, lo cerca, vede la sua carne scavata dagli schizzi di sale. In quel mare senza più terra né orizzonte, si sente perduta. C’è solo il mare. Quel mare che credeva potesse essere la salvezza e che ora sta per diventare la loro tomba.
Aveva messo da parte i soldi per il viaggio, i soldi che le dava suo marito, carta sudata e stropicciata, e li ha consegnati all’uomo barbuto per salire su quel relitto. Su quella bara che adesso nessuno guida più perché è rimasta senza gasolio. Hanno tutti paura, nessuno conosce il mare, è tutta gente del deserto.
Nasira non smette di accarezzare il figlio, gli passa una mano tra i capelli irrigiditi dal sale, lo stringe. Faisal ha gli occhi socchiusi, due fessure che la cercano. Adesso è tranquillo, come quando sta per addormentarsi e le palpebre gli si chiudono. È sempre stato un bambino tranquillo, un piccolo uomo cresciuto in quel deserto dilaniato dalla guerra.
Sono giorni che sono in mare, su quel rottame, ma Nasira adesso è fiduciosa, si fa coraggio. Spera di poter mandare suo figlio a scuola in Italia. Ha dei parenti al nord, partiti prima di lei, cercherà di raggiungerli, di trovarli.
Lei e suo figlio, ne è sicura, saranno accolti, non sono semplici clandestini, loro sono profughi, sono scappati dalla guerra e dalle bombe degli alleati. Quali alleati? Alleati di chi? Questo non lo ha mai saputo, né capito. Chiederanno asilo. Cercherà un lavoro, imparerà l’italiano e un giorno, forse, tornerà nella sua terra a cercare la sua casa e la tomba di suo marito.
Mentre Faisal continua a stare male, Nasira lo abbraccia. Non vuole che gli altri se ne accorgano, ha paura che glielo strappino dal petto e lo buttino in mare.
All’improvviso a bordo tutti si agitano, qualcuno urla, si sbraccia, altri lo imitano. Hanno visto una nave. Una nave che sulla murata ha scritto qualcosa e a poppa sventola una bandiera, un tricolore verde bianco e rosso. Sono sicuramente Italiani.
Tutti si sporgono da un lato, la barca s’inclina, qualcuno cade in mare, annaspa per mantenersi a galla, altri calano a fondo. Creature del deserto con polmoni pieni di acqua e sale.
L’equipaggio della motovedetta ha scorto quel carico di disperati e fa rotta verso sud. Li raggiunge e lancia loro salvagenti e bottiglie di plastica piene d’acqua.
Cercheranno di salvare tutti quanti, anche se non sanno chi stanno salvando, magari stanno porgendo la mano a un avanzo di galera, uno che appena a terra comincerà a delinquere, che guiderà ubriaco e senza patente, che diventerà un assassino, ma loro sono lì per salvare quella gente che chiede aiuto. I muri, i fili spinati, li lasciano costruire ad altri. Loro sono Italiani.
Qui, in mezzo al mare, non ci sono politici che stanno redigendo trattati internazionali da far rispettare, quote di profughi da distribuire tra Stati, o governanti che vorrebbero ricacciare indietro quella gente. Qui ci sono solo il mare, naufraghi sfiniti e i loro salvatori.
Salvatori che indossano una divisa militare, una divisa con le stellette e la bandiera italiana cucita sulle maniche dei giubbotti.
Faisal finalmente sta bevendo e quando ha finito Nasira gli rovescia il resto del contenuto della bottiglia in testa, cerca di togliergli il sale dai capelli, dal viso, dagli occhi arrossati. Gli sorride, e lui la guarda finalmente rasserenato. È sfinito ma felice, e quando si sente prendere in braccio da uno sconosciuto soccorritore che gli parla in una lingua sconosciuta, intuisce che quell’armonia di suoni non può essere altro che la lingua italiana.
Nasira guarda quella gente in divisa, ammira la loro determinazione e la loro purezza d’animo. Il loro sorriso, i loro occhi che non li perderanno più di vista un momento. Sono Italiani.



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