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UNA VITA PERSA

Pubblicato da: Categoria: IL RACCONTO

4
MAG
2017

Nella mia vita fuori di qui c’erano giorni senza razionalità, moderazione, amore. Mi accadeva da sempre, anche quando ero ragazza, ma non si torna indietro. Ho trentasei anni e l’infanzia la ricordo con distacco e se ripenso a quegli anni sprecati, cambierei tutto. Nelle fotografie di quando ero una ragazzina, ho i capelli sempre lunghi, stretti a trecce o a coda di cavallo. Naso piccolo, bocca serrata. Guardo mia madre, la controllo se accarezza troppo con lo sguardo mio fratello, come sorride a mio padre o guarda nel vuoto, ma quel tempo ormai mi sfugge, l’ho dimenticato.
Certe volte mi arrivano confusi cenni della mia infanzia: casa, scuola, giardino, cane. Ho vissuto sempre in campagna prima di sposarmi e nel trasferimento in città, in quel trasloco, tra le altre cose ho perduto anche la valigia dei ricordi.
Qui ho tempo per riflettere, il carcere sembra fatto apposta per capire perché la vita sia andata in un certo modo.
È pomeriggio. Mi hanno chiamato per il settimanale colloquio con il dottore, lo psicologo. Non lo guardo. Solo quando entro nella stanza, salutandolo, incrocio il suo sguardo. Durante i nostri incontri cerco di assecondarlo, di dirgli le parole che lui vorrebbe sentirsi dire.
«Non è una terapia», mi dice, il giudice vuole solo che ci incontriamo, che parli con lui.
Invece io penso che lui voglia farmi parlare per poi andargli a riferire tutto.
«Perché non ha continuato a scrivere?» Mi chiede.
Gli rispondo che in cella mi sento osservata. Le altre detenute pensano che io faccia la spia che scriva quello che ascolto, quello che dicono, quello che succede lì dentro.
«E cosa fa nelle ore che sta in cella?»
«Niente. Fumo, mi sparo musica nelle cuffie. Leggo. Non mi piace cucinare».
«A casa non cucinava per suo marito, per i suoi figli?»
«Sì, sempre. Mio marito invitava degli amici, dicevano che ero brava, ma non mi piaceva.
In casa, sul tavolo c’era una tovaglia di plastica colorata, la pulivo e ci mettevo sopra le tazze della colazione poi, appena svegli, arrivavano i bambini e mi correvano in braccio. Versavo loro il latte e poi andavano a scuola».
Mentre parliamo, mi vengono in mente i miei due bambini, mi passo una mano sugli occhi, ma riesco a non piangere, come invece mi succedeva prima, i tempi che ero qui.
«Presto potrebbe vedere i bambini e suo marito. Il giudice di sorveglianza pensa che lei abbia avuto un ruolo marginale, defilato, non faceva parte del gruppo di fuoco».
«Perché sono qui allora?» Gli chiedo.
«Questo glielo chiedo io: perché si è messa con quei due balordi?»
«Ho già raccontato tutto al giudice e anche in tribunale». Rispondo evasiva.
«Al giudice non sembra verosimile la sua versione: aveva un lavoro, una famiglia».
«Il lavoro era noioso, facevo la postina. Portavo bollette, avvisi di pagamento, qualche cartolina e i soldi erano sempre pochi».
«Suo marito non lavorava?»
«Sì. Faceva e continua a fare il magazziniere, il tuttofare in un centro sportivo. Campi da tennis, da calcetto, palestra, sauna. Annaffia, si arrampica sui pali per cambiare le lampadine fulminate. S’interessa lui di tutto».
«Eravate in difficoltà economiche?»
«Le ho già detto che i soldi non bastavano mai, per il resto non ho niente da dire».
«Non vuole parlarne?» Ribatte il dottore.
«Nel silenzio della cella penso a quello che vorrei dirle, ma quando vengo qui mi sembra già tutto detto e pensato». Gli rispondo.
Mi dice che se parlassi mi farebbe bene. Mi chiede di parlare di me, della mia famiglia, dei bambini, della mia infanzia. Chiede come mai mi sono sposata così giovane. Gli rispondo che volevo andare via da casa, mio padre era morto e mia madre si era trovata un nuovo compagno. Mio marito mi piaceva, avevamo un lavoro, mettemmo su casa e ci sposammo.
Poi non gli dico più niente. Non mi va di dirgli altro. Se l’hai già detto una volta che in cella spesso piangi, che sei pentita, che lì dentro stai male, che soffri, che bisogno c’è di ripeterlo in un altro modo o di aggiungere aggettivi.
Mi fissa, lui ci riesce io no.
Si apre la porta, arriva la guardia, il colloquio è finito. Ci salutiamo. Si alza anche lui, forse è deluso e mi consiglia di riprendere a scrivere, di mettere giù i miei pensieri. Gli rispondo che ci proverò, mi sforzerò di ricordare, penserò a qualcosa da scrivere. Forse scriverò di quando ero adolescente, di mio padre che io adoravo e lui stravedeva per me, ma una mattina di luglio mi salutò con il suo solito sorriso e andò in ufficio e non tornò più a casa, un infarto se lo era portato via. Potrei scrivere di quando la domenica andavo al cimitero con mia madre a buttare via i fiori morti e a mettere quelli freschi, ma tutto questo a cosa servirebbe?
È un bell’uomo, il dottore, e forse vengo al colloquio solo perché è un uomo e qui dentro non se ne vede mai uno.
Il tempo è il problema principale in carcere. Non passa mai. Notti interminabili, le giornate si susseguono e tu sei sempre lì, tra quelle quattro mura affollate di donne come te. Non ci dovrei ragionare, non c’è tempo davanti a me, solo azioni: sveglia, caffè, sigarette, pranzo, cena, dormire. I piedi uno davanti all’altro in cortile, durante l’ora d’aria. Faccio ginnastica, mi spoglio, mi rivesto e la notte è ancora più difficile da far passare.
Da quando sono qui, rimpiango sempre qualcosa: i bambini, mio marito, il lavoro, la libertà perduta. Cerco di non piangere, se le altre mi sentissero, mi prenderebbero in giro.
Devo stare qui sette anni. Tra pochi mesi ci sarà l’appello e il mio avvocato sembra fiducioso, ma io non ci credo, non ho speranze.
La guardia mi riaccompagna in cella. Mi siedo sul letto, le spalle appoggiate al muro pieno di scritte. Sono circondata da scritte, da parole di speranza, d’amore: amore dove sei, amore mi manchi, nomi di uomini, c’è anche un Giorgio come mio marito, baci dati con il rossetto, cuori sanguinanti, una donna nuda che piange lacrime grandi come gocce di pioggia, frasi oscene.
L’idea di mettermi a scrivere per far contento il dottore mi mette a disagio. Non voglio dirgli più niente. A che servirebbe raccontargli il mio passato, quando davanti a me non vedo più un futuro, una vita normale, serena. Non gli scriverò più nulla.
Faccio ginnastica, ma il mio corpo si sta trasformando, si sta appesantendo, i muscoli delle gambe e delle braccia si stanno afflosciando e le rughe stanno aggredendo il mio viso.
La mia vita è divisa in due, prima del carcere e dopo. Non scriverò più niente, non può aiutarmi né il dottore né nessun altro.
Mi hanno condannata a sette anni per una rapina andata male.
Un colpo sicuro, una gioielleria tranquilla, un gioco da ragazzi, meglio delle altre due. Dentro solo il vecchio proprietario e niente sorveglianza. Pietro aveva detto così a Laura, la sua compagna e lei zitta, si fidava di lui. Io ascoltavo, ma per me era diventato tutto uguale, tanto avevo già superato la soglia del non ritorno.
Quando ho cominciato con le rapine? Ho conosciuto Pietro e Laura in quel bar, dove andavo a fine lavoro per aspettare i bambini che uscissero da scuola. Era un piccolo bar nel centro storico, gestito da una coppia anziana, marito e moglie. Lui gridava perché era sordo, lei gridava perché il marito era sordo, gridava e non sentiva. Ogni giorno mi portavano al tavolo un aperitivo con noccioline e olive. Quando arrivavo, Pietro e Laura erano già lì, seduti all’esterno che si dividevano una birra e lo spinello, parlavano tra loro. Ci salutavamo.
Feci amicizia con Laura e lei cominciò a farmi tante domande. Mi chiedeva del mio lavoro. In quale zona della città operassi, e quando le dissi che consegnavo la posta nel centro: viuzze strette e male lastricate, ma piene di negozi eleganti e diverse gioiellerie, Laura s’illuminò. Volle sapere a che ora ci andavo, chi incontravo, chi trovavo all’interno delle gioiellerie, da chi fossero gestite, se c’erano più persone o commessi. Sono sempre stata un’ingenua.
Non vedo i miei da quando mi hanno arrestata. Non voglio incontrarli, non mi va che mi vedano qui dentro. Meglio che i miei figli mi credano morta o che li ho abbandonati. Durante il processo Giorgio veniva in tribunale, lo vedevo tra la gente, ma lui non mi guardava. Mia madre non è mai venuta alle udienze, né in carcere a trovarmi, né mi ha mai scritto. Io non chiedo di lei e lei non ha mai chiesto di me. Dopo la morte di mio padre ha trovato un altro uomo e ora se n’è andata a vivere con quest’uomo. Quando uscirò da qui, dovrò cercarmene anch’io un altro.
Chiudo gli occhi e penso a me stessa. Penso a Pietro e Laura, a quel maledetto giorno che ho deciso di unirmi a loro.
Tutto è iniziato ridendo e parlando in quel bar. Pietro era stato adottato, rubava portafogli dalle borse al mercato e nessuno se ne accorgeva. In tasca aveva una macchinetta per togliere le placche antitaccheggio nei negozi e faceva man bassa di abbigliamento. Laura era sola, non aveva più i genitori e forse per questo li avevo seguiti, eravamo figli di morti.
Mio marito non si era mai accorto di nulla. Tornavo a casa alla solita ora, io mi occupavo dei bambini, facevamo i compiti assieme, preparavo la cena. Giorgio tornava dal lavoro e si stupiva del mio buonumore e anche i bambini, con qualche regalino, erano più felici.
Una volta stavo preparando i vestiti per l’indomani: jeans, maglietta, scarpe da ginnastica per scappare se ci avessero inseguiti. Giorgio guardava e chiese se l’indomani andavo a lavorare o a fare una scampagnata. Ero diventata rossa, non gli avevo mai nascosto nulla prima, ma cosa potevo dirgli?
Con Pietro e Laura uscivamo spesso assieme, non mi dispiaceva fare la spaiata. Ero esclusa dal loro amore e a me stava bene così, mi bastava la loro amicizia.
Un giorno Pietro mi chiese dei soldi in prestito. Pensavo che gli servissero per pagare l’affitto. Con i miei soldi invece si procurò una pistola, quella con cui sparò al gioielliere, e lì finì tutto.
Mi sveglio all’improvviso, singhiozzavo nel sonno. Una mi urla di smetterla. Le lacrime vengono giù senza controllo, mi asciugo gli occhi con il lenzuolo e sento una mano che mi tocca la testa. Teresa è accovacciata accanto a me. Sussurra qualcosa. Mi dice che sbaglio, che sono troppo chiusa, che non parlo, accumulo troppo e non voglio vedere nessuno. Le rispondo che ho solo mal di testa e mi stacco da lei. Voglio restare sola e in silenzio.
Non vado più da quel dottore con gli occhi dolci. Forse prima ci andavo solo perché era un uomo. Qui dentro ci sono solo donne, tutte arrabbiate, uomini non se ne vedono, e lui era l’unico con cui potevo parlare, ed era anche un bell’uomo.
Le giornate sono lunghe. Mi alzo ma non mi piace guardarmi allo specchio, ogni giorno lo faccio solo il tempo di pettinarmi, farmi la coda, mettermi la crema sul viso. Non mi trucco.
In cortile ho scelto il mio angolino, non ci si mette nessuno. Fumo una sigaretta con Teresa, con lei mi trovo bene. Si siede accanto a me, la guardo, è piccola e magra, come avrà fatto ad ammazzare la sua rivale in amore, quella che le stava portando via il ragazzo. Si erano conosciute alla scuola per parrucchieri, ma si conoscevano di vista anche da prima. Non si era accorta che aveva puntato il suo ragazzo, credeva stesse bene con quell’altro. Poi il litigio e la tragedia, due colpi di forbice nell’addome e la rivale giunse cadavere in ospedale.
Mi racconta che fuori di qui vuole aprire un negozio, un parrucchiere, sposarsi, avere dei figli, mi dice come dovrà essere la sua casa. Si è dimenticata che uscirà di qui quando sarà già vecchia, ma non le dico niente.
La notte non riesco a dormire, penso a Laura, a quel giorno maledetto. Conoscevo quell’orefice che era sempre da solo, ci andavo a portare la posta. Parlavamo, mi sorrideva, mi faceva qualche complimento e intanto io mi guardavo intorno.
Quella mattina eravamo arrivati assieme, poi, un paio d’isolati prima, Pietro e Laura erano scesi dalla macchina e avevano proseguito a piedi sino alla gioielleria, io li avevo raggiunti dopo pochi minuti ed ero rimasta fuori, alla guida della macchina. Pietro aveva gridato la solita frase e aveva sparato al gioielliere che stava tirando fuori la sua pistola. Sentii lo sparo e rimasi lì, imbambolata, sino all’arrivo della polizia.
Ora il mio corpo si sta trasformando, sto ingrassando e non ho più muscoli. Non sono bella né carina, chissà che effetto farei fuori di qui. Ma non mi interessano i giudizio degli altri, per ora devo solo stare qui, avere pazienza e far trascorrere questi sette anni.
Ieri mi è stata annunciata la visita della madre di Laura. La figlia non ha mai avuto il coraggio di incontrarla, piuttosto sarebbe morta. Mi sono messa una maglietta pulita e un paio di jeans decenti, mi sono pettinata, ma non truccata. Aprono la cella e vado nella stanza dei colloqui e l’aspetto. Quando arriva, mi alzo. La madre di Laura è invecchiata, non sembra più la stessa, la faccia è piena di solchi, pallida e scavata. Ha i capelli bianchi, solo gli occhi mi trapassano ancora da parte a parte. Si avvicina al tavolo lentamente, si siede senza dire una parola, forse aspetta che sia io a salutarla, poi sussurra:
«Ciao Marta».
Mi dice che Laura è scomparsa, che non ha voluto incontrarla. Si rammarica di aver fatto trascorrere troppo tempo prima di chiederle di vederla. Le dico di sì con un cenno della testa e mi infilo nel suo sguardo, ma la guardo con indifferenza. Poi aggiunge che Pietro è malato.
«Le ha detto lui di venire a dirmi questo?» Le chiedo, sospettosa.
«No, sta male, ma non sa niente di preciso. I dottori gli hanno dato poco tempo».
Tiene la mano sulla borsa e spia la mia reazione. Parla ancora un po’, mi chiede come sia stato possibile che sua figlia si sia trovata in quella situazione, ma io non so cosa risponderle. Ha le lacrime agli occhi ed estrae un fazzolettino dalla borsa. Entra la guardia, lei si alza, ferma in piedi mi fissa, forse mi vorrebbe chiedere ancora qualcosa, magari che le dicessi che è stata colpa mia, cerca di abbracciarmi. Ci salutiamo e ritorno in cella. Passano i giorni.
Mi aveva assicurato che in appello la pena sarebbe stata ridotta. Il mio ruolo era stato marginale, non ero entrata in gioielleria. Non sapevo quello che facevo, ero strafatta. Quel giorno non ero in me. Invece i sette anni sono stati confermati. Guardo l’avvocato e lui tiene il suo sguardo nel mio, senza emozioni, non gliene importa niente dei sette anni che dovrò trascorrere in carcere, lui fa solo il suo lavoro.
Mi asciugo gli occhi, gli volto le spalle e lentamente ritorno un’altra volta in cella.



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