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NOBILTÁ DECADUTA

Pubblicato da: Categoria: IL RACCONTO

15
GIU
2017

L’uomo elegante e con un fiore bianco all’occhiello era un nobile decaduto che ogni settimana andava in convento a trovare le tre sorelle che in mancanza di una dote sufficientemente ricca a far trovare loro un marito in carne e ossa, erano state costrette a farsi monache e accontentarsi dello sposo celeste.
Il marchese Edoardo, che alla morte del padre aveva ereditato titoli e rendite di famiglia, nel giro di un batter di ciglia aveva dilapidato tutto. Adesso, e solo per estorcerle altro denaro, accompagnava la madre in convento a visitare le tre novizie. A differenza della madre, però, lui salutava le sorelle con un sorriso forzato e storcendo appena le labbra, mentre loro, ritenendolo il solo responsabile della loro sorte, quando lo vedevano, si sentivano ribollire il sangue nelle vene e abbassavano gli occhi. La notte, però, ripensandoci, imprecavano e ingoiavano lacrime amare.
Edoardo non se ne curava dei malumori e dei mogugni delle sorelle, lui aveva la sua vita, e preferiva naturalmente quella notturna, che trascorreva ai tavoli da gioco e con le belle donne. Donne che lui prediligeva longilinee, magre e tutte pelle e ossa. Guardando quei magri lineamenti femminili, provava un’attrazione fatale.
Se incontrava una signorina senza forme, con il collo lungo, lo sguardo slavato ma magra come un chiodo, subito gli prendeva il bisogno impellente di conoscerla, di parlarci. Più la ragazza era smunta, magra e pallida, più il richiamo diventava irresistibile.
Quella che diventò sua moglie e che gli diede due figlie, era deliziosamente piatta come un asse da stiro: il corpo di una giovanetta con le ossa che bucavano la pelle del viso e la stoffa appoggiata sulle spalle appuntite.
Quando s’incontrarono per la prima volta, la fanciulla stava passeggiando con le sue consorelle nel chiostro, e per Edoardo fu un richiamo irrefrenabile. Tanto irrefrenabile che tornò in convento ogni giorno e da solo, per vederla. E così facendo fece ammalare di rabbia le tre sorelle.
Continuando ad andare in convento, un giorno la sua tenacia venne finalmente premiata. Riuscì a incontrare da sola la novizia nel chiostro. La fermò e la trascinò dietro una pianta rampicante, in uno spazio vuoto tra le frasche e una statua di un santo inginocchiato in preghiera.
Nascosti dal rampicante e con le testa che toccava i piedi del santo in meditazione, Edoardo riuscì ad accarezzare la sua pelle tremante, i suoi fianchi scarni, le vertebre appuntite della colonna vertebrale, e da quel momento non capì più niente, e le disse:
«Mi chiamo Edoardo e sono marchese».
Lei trovò solo la forza di rispondergli:
«Francesca. Mi chiamo Francesca, ma devo farmi monaca. Così ha deciso mio padre».
Quel giorno non si dissero altro, ma in quello spazio vuoto e discreto, celati dalle frasche e dalla statua del santo prostrato in preghiera, tornarono ad incontrarsi con sempre maggiore frequenza. Edoardo le portava dei doni, le faceva mille promesse e continuò a dichiararle il suo amore fin quando Francesca non chiuse gli occhi e si abbandonò definitivamente tra le sue braccia.
Una delle tre sorelle, alla notizia che Edoardo aveva messo incinta la consorella nel chiostro del convento e che ora la novizia Francesca era libera di andarsene e di diventare marchesa, fu colta da convulsioni e fu necessario il ricovero in ospedale. Le altre due riuscirono a superare la batosta ma, consultandosi tra loro, decisero di fare voto di clausura, e questo per evitare che il fratello continuasse ad andare a trovarle, magari in compagnia della giovane moglie e prole.
La coppia si sposò, ma non andò mai in convento a trovare le tre sorelle del marchese, trascorse quegli anni vagando nelle strade e nei vicoli della città, con la stessa condanna di sempre sulle spalle: quella di aver bruciato la loro vita di previlegiati, ancora prima di averla cominciata.
Senza più un patrimonio, senza più una casa, senza più un soldo e avendo anche perso l’appoggio della vecchia madre che alla notizia della gravidanza della novizia si scandalizzò a tal punto che non volle più vedere il figlio, né smise più di farsi il segno della croce, Edoardo si vide costretto a chiedere aiuto e ospitalità allo zio Ferdinando, fratello di suo padre defunto.
Lo zio, discendente nientemeno da Ferdinando primo delle due Sicilie, casata dei Borboni sin dal 1700, abitava però in un palazzo decrepito. Le finestre non venivano più aperte per paura che si staccassero dalle spallette fissate al muro, e quando pioveva la servitù doveva correre da una stanza all’altra per raccogliere l’acqua che filtrava dal soffitto, dalle crepe dei muri e dalle fessure.
Lo zio Ferdinando, uomo anziano ma con le idee ben chiare in testa, accolse il nipote con diffidenza e con poche parole:
«Nipote mio, anche se non te lo meriti, sei il benvenuto in casa mia. Darò a te e alla tua famiglia un tetto, e questo per rispetto a mio fratello e alla sua memoria, ma devi promettermi che smetterai di passare le giornate oziando e le notti al tavolo da gioco. E ti dico anche che dovrai trovarti un lavoro.
«Ma io non ho mai lavorato, zio!» Balbettò stupito, Edoardo.
«Neanch’io ho mai lavorato, ma nemmeno ho mai sperperato i soldi al gioco e con le donnine che frequentano certe case. La mia famiglia, grazie alla mia accurata gestione, non ha mai dovuto sopportare indigenze, nemmeno durante la guerra. Noi siamo una famiglia unita, accorta e parsimoniosa, e così dovrai diventare anche tu».
E dicendo famiglia, lo zio Ferdinando si riferiva solo alla moglie Giuseppina perché, sebbene fossero sposati da più di vent’anni, non avevano figli. La servitù però malignava e in cucina correva voce che lo zio, per paura di dover affrontare spese impreviste dopo la nascita dei figli, non avesse nemmeno mai tentato di consumare il matrimonio.
Il nipote fece buon viso e promise allo zio che non avrebbe più giocato a carte e che si sarebbe trovato anche un lavoro, ma dopo appena un mese di convivenza, per il trattamento che stavano subendo, Edoardo e Francesca cominciarono a lagnarsi. Prima tra loro, poi con la servitù e infine anche con le persone che frequentavano il palazzo e con gli amici dello zio che incontravano casualmente per strada.
«Ci fanno dormire al freddo, nelle stanze riservate ai domestici. Ci fanno mangiare i loro avanzi e non ci danno un soldo, né di che vestirci. L’altra notte non ho chiuso occhio per il freddo, e per la rabbia ho augurato loro una morte atroce».
Sussurrò con gli occhi infuocati di rabbia e rancore Francesca, rivolgendosi un giorno a una duchessa, amica della zia Giuseppina. Le raccontò che lei e il marito di notte vagavano per casa come due fantasmi assetati di vendetta. Uscivano dalla loro stanza, attraversavano a piedi nudi i corridoi e raggiungevano le cucine per portare via tutto quello che riuscivano a sgraffignare.
Durante il giorno la loro vita si riduceva a poco. Si alzavano tardi. Non uscivano quasi mai e restavano in camera loro a rimuginare su mosse e contromosse vendicative.
A volte Francesca, conoscendo la passione del marito, prendeva le carte napoletane e lo invitava a fare una partita a scopa, ma Edoardo la guardava perplesso, scuoteva la testa e poi tornava con la mente nella nuvola nera dei suoi pensieri.
Edoardo aveva anche trovato lavoro. Un cameriere del circolo dove lui aveva sperperato il patrimonio, grato per tutte le mance che aveva ricevuto nei tempi d’oro dal marchese, aveva parlato del nobile decaduto a un suo conoscente, titolare di un pastificio e questi, sentendo che chi cercava lavoro era un nobile, non gli dispiacque l’idea di assumere un marchese per far propaganda alla sua merce. Ma Edoardo, facendo più danni che lavoro, in quel pastificio ci lavorò solo un mese e poi, quando si vide recapitare da un garzone della ditta la busta con il misero stipendio che lui, nei tempi andati, avrebbe puntato senza battere ciglio in una sola mano a poker, si alzò e, toltesi le mezze maniche di lino nero che indossava sopra la giacca per non sdrucire i gomiti, se ne andò.
Tornati senza reddito e abbandonati a se stessi, Edoardo e Francesca si dimostrarono sempre più ostili nei confronti dello zio, tanto che quest’ultimo, notando il loro comportamento e fatte proprie le confidenze ricevute dagli amici, cominciò a preoccuparsi, a spiare il loro comportamento e, col passare del tempo, temendo la loro vendetta, cominciò a dormire con la porta della sua stanza da letto sprangata e con una pistola carica sotto il cuscino.
Una notte, Anna, la loro figlia diventata ormai adolescente, sognò gente che gridava. Sognò che una donna chiedeva al marito dove fosse stato tutta la notte. “Non ti hanno visto al circolo, dove sei stato? Perché menti? Con chi sei stato? Con quale donna te la fai adesso?”
Anna aprì gli occhi e riconobbe le voci della madre e del padre che si stavano fronteggiando davanti al grande letto a baldacchino. Da uno spiraglio della porta socchiusa, li vide come li avrebbe spiati poi tante altre volte: la madre che faceva avanti e indietro per la stanza: la vestaglia svolazzante, le mani sul pancione con dentro sua sorella non ancora nata, gli occhi fuori dalle orbite e un furore e un odio più forte della decenza e della ragione. Il padre invece era seduto su una poltrona al centro della stanza e indossava ancora il suo vestito elegante. Il nodo della cravatta era allentato, gli occhi gonfi, ma era impassibile e silenzioso, come sempre. Poi lo vide alzarsi e fermare quel via vai insensato della moglie, lo vide stringerla, abbracciarla con una passione che la madre probabilmente scambiò ancora per amore.
Odio e amore si sarebbero confusi in famiglia ancora per molto tempo. Edoardo pensava che l’unica cosa giusta sarebbe stata quella di lasciare quella casa, andare a vivere altrove, magari addirittura in un’altra città. Lontani da quella gente diventata insopportabile.
Milano… si Milano sarebbe stata la città giusta. Dovevano allontanarsi da tutti e andare lì dove nessuno li conosceva. A Milano si sarebbero potuti rifare una vita. Dovevano ricominciare da capo e una sera, dopo l’ennesimo litigio, lo disse anche alla moglie e lei gli rispose:
«Milano? Ma è una città così lontana, al nord, e poi è piena di nebbia e fa così freddo che il fiato diventa fumo. E hanno una mentalità così chiusa, in confronto di Napoli… e poi i milanesi sono altezzosi, e solo perché si alzano presto per andare a lavorare. Poi ci chiamano anche terroni».
Francesca cercò di liquidare così, in due parole, Milano e tutto il nord d’Italia, ma il marito insistette, le disse che ci aveva riflettuto molto, che aveva le idee chiare e che ormai aveva deciso.
«Dobbiamo andarcene da questa casa. Andarcene prima che sia lo zio a cacciarci. Ci trasferiremo a Milano. A Milano, dove con il mio titolo e il mio saper fare saprò conquistarmi un posto in società. Ricomincerò a frequentare la gente che conta, ricomincerò a giocare a carte, a vincere grosse somme di denaro a ricchi imprenditori e commercianti che non aspettano altro che farsi spennare da un nobile. Bisogna farsi furbi. Essere intelligenti…»
«Napoli era già una grandissima città, capitale del regno delle due Sicilie, quando Milano era ancora una contrada di un regno straniero. Perché proprio Milano, così provinciale e non Roma?»
Gli rispose la moglie, e poi proseguì dicendogli che del suo essere intelligente ne aveva fin sopra la testa, e gli rammentò quando nel 1944, durante la guerra, per sottrarsi ai bombardamenti degli alleati su Napoli, decise di trasferirsi con tutta la famiglia a Cassino, dove si trovarono sotto le bombe alleate e anche le cannonate tedesche.
Edoardo lasciò cadere nel vuoto il discorso di Napoli e Cassino e le rispose che bisognava girare pagina. Bisognava vederla adesso com’era Milano, ricca e prosperosa. Erano passati gli anni del giogo austriaco e anche quelli del ventennio fascista. Ora Milano si poteva considerare la capitale economica del Paese. Tutti si stavano trasferendo al nord, e loro avrebbero fatto altrettanto.
Si trasferirono dunque a Milano e per Francesca iniziò il periodo dei rimpianti, della convinzione anacronistica di trovarsi sempre male in quella città. Non sopportava il clima, la lunghezza dell’inverno, le giornate piovose e la brevità della stagione calda.
«Che poi calda… a differenza di quella di Napoli, non lo è mai stata». Ripeteva.
Anna e la sorella Luisa, invece, diventarono in tutto e per tutto delle ragazzine milanesi. Avevano preso l’accento lombardo, parlando mettevano sempre l’articolo davanti a ogni nome. Dicevano “la Maria”, “la Sonia”, “la Luisa”, “il Giovanni”, il Francesco e si vantavano del loro padre nobile. Ma i milanesi non s’impressionarono più di tanto del blasone, e preferirono chiamarli con il più semplice e democratico: el sior Edoardo e la sciora Francesca.
Edoardo a Milano non cercò di risollevarsi con le carte da gioco, molto più saggiamente preferì trovarsi un lavoro come bibliotecario nel più vecchio circolo culturale milanese, fondato nel 1872, e che da sempre era il punto di riferimento per scrittori e artisti.
Erano già passati otto anni da quando erano arrivati a Milano e, una sera, per i rituali acquisti di Natale, stavano camminando in una via del centro quando Francesca, sempre infreddolita e continuando a soffiarsi l’alito sui pugni chiusi per cercare di scaldarsi le mani, si fermò davanti alle vetrine di un grande magazzino. Edoardo la guardò e si chiese cosa ci stesse ancora a fare con quella donna che a causa delle due gravidanze era ingrassata e non era più la stessa di quando l’aveva incontrata per la prima volta nel chiostro del convento delle sagramentiste. Al posto delle ossa, che allora sporgevano dai fianchi e dagli zigomi, ora si vedevano solo delle rotondità che a lui non interessavano più. E gli riusciva anche difficile non lasciarsi sfuggire qualche sospiro di disapprovazione, quando le sfiorava il ventre. Quella donna, se ne era ormai convinto, era diventata solo un peso per lui.
Così, alla fine del mese, percepito lo stipendio e incassata la tredicesima mensilità, invece di tornarsene a casa con i regali da mettere sotto l’albero, andò alla stazione centrale e acquistò un biglietto ferroviario per Napoli. Erano anni che ci stava pensando, che voleva rientrare nel grande giro dei giocatori professionisti, e voleva ricominciare proprio da Napoli. Ma questa volta voleva arrivarci come uno sconosciuto e sprovveduto milanese pronto a farsi spellare. Ci avrebbe pensato poi lui, con la sua abilità di giocatore incallito, a rifarsi.
Non ci riuscì, e in poco tempo dilapidò stipendio, tredicesima e tutti i suoi risparmi. Si presento anche a casa dello zio, ma questi non volle nemmeno riceverlo, e allora non gli restò altro da fare che tornarsene a Milano, dove però trovò solo le due figlie ad aspettarlo. La moglie aveva fatto le valige ed era tornata al sud. Tornata al tepore del sole mediterraneo, in compagnia di un ricco imprenditore siciliano, a cui piacevano le donne formose.



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