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MIO FIGLIO

Pubblicato da: Categoria: IL RACCONTO

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LUG
2017

Nell’adolescenza mio figlio era un ribelle, non lo capivo e non riuscivo a farlo ragionare.
Esistevano solo il suo credo, i suoi interessi e i suoi amici. Lo osservavo sdraiato sul letto, sempre con gli auricolari alle orecchie e disinteressato di tutto. Spesso mi chiedevo chi fosse quel ragazzo che avevo davanti a tavola. Chi fosse quel ragazzo che girava per casa? Come mai non riuscivo a trovare un punto d’incontro con lui?
Con mia moglie eravamo preparati a quell’impatto, a quell’età, a dover superare quel periodo transitorio. Avevamo seguito la crescita dei figli dei nostri amici, ascoltato le loro perplessità e i problemi che avevano dovuto affrontare, ma non pensavamo che con Stefano si dovesse arrivare a tanto. L’infanzia era trascorsa serena, era un bambino tranquillo, affettuoso, ma una sera addormentatosi come un angioletto, al risveglio ci ritrovammo davanti un ribelle.
Troppo presi dal nostro lavoro, io e mia moglie, forse non avevamo dato peso ai piccoli segnali d’allarme che si stavano accumulando e quella trasformazione che stava avvenendo in lui, l’avevamo sottovalutata.
Era diventato taciturno, scontroso, e alle nostre domande, ai nostri rari rimproveri, rispondeva con un’alzata di spalle. E intanto aveva cominciato a rincasare sempre più tardi, fino a toccare il fondo una notte quando sentii squillare il cellulare. Sul display comparve un numero sconosciuto e quando risposi mi sentii dire che era un maresciallo dei Carabinieri e che dovevo andare in caserma perché avevano fermato mio figlio. Stefano si era cacciato nei guai per una delle sue bravate. Una pattuglia lo aveva sorpreso mentre con altri ragazzi stava danneggiando le panchine dei giardini pubblici. All’arrivo dei Carabinieri gli altri erano riusciti a fuggire ma lui, troppo ubriaco per riuscirci, era stato fermato e portato in caserma.
Era ancora minorenne, appena adolescente e quella volta se la cavò con una pesante romanzina del maresciallo, mentre io dovetti pagare i danni commessi.
Tornammo a casa in silenzio. Mia moglie tra le lacrime e mio figlio abbandonato sul sedile posteriore che puzzava di alcool come una distilleria. Dormì pesantemente tutta la notte e al mattino, per lui, non era successo nulla.
Alle nostre domande rispondeva di non ricordare nulla. Insistemmo, lo scossi, lo minacciai di non so quante cose, ma ci disse solo che era andato con gli amici a farsi una pizza, poi avevano acquistato una bottiglia di cognac e se l’erano scolata strada facendo, tra uno spinello e l’altro.
Fu un brutto colpo e un brutto momento. Ci preoccupammo, non sapevamo come affrontare quella situazione. Non sapevamo più come comportarci, cosa fare. Indagammo e scoprimmo che frequentava ragazzi che non conoscevamo e che non avevano proprio un aspetto rassicurante, e quando andammo ai colloqui avemmo un’altra brutta sorpresa, perché scoprimmo che a scuola andava sempre peggio. Lo mandammo a lezioni private, lo accompagnavo a scuola, cercavo di parlargli, di farlo parlare, ma era come avere davanti un muro.
Fu promosso e cominciarono le vacanze, ma non si notarono segnali di cambiamento.
Rincasava sempre più tardi e al mattino dormiva sino a mezzogiorno. Eravamo preoccupati e ne parlai con mio padre, e lui mi disse che a quell’età io mi comportavo nello stesso modo.
«E cosa facesti tu?» chiesi.
«Una bella mattina ti svegliai alle sette e ti portai al maneggio di un mio amico. Passasti l’estate a spalare sterco nei box dei cavalli. Dovresti ricordartene».
Era vero. Avrò avuto forse sedici o diciassette anni e mio padre, dopo che avevo preso le chiavi della sua macchina ed ero andato a schiantarmi contro il cancello di una villa, mi portò da questo suo amico che aveva un maneggio e la scuola d’equitazione.
«Lavorerai qui sino a quando non avrai ripagato il danno della macchina». Mi disse.
Passai l’estate spalando letame, ma ebbi anche modo di conoscere e amare quell’animale e di imparare a montarlo, e la cosa mi piaceva. Quelle passeggiate a cavallo mi davano un senso di libertà, di gioia e poi, al maneggio, ebbi la possibilità di conoscere delle belle ragazze.
Andai a parlare con questo vecchio amico di mio padre. Si ricordava di me e mi disse che per quanti sforzi avesse fatto per insegnarmelo, non avevo mai imparato ad andare bene a cavallo.
Gli parlai di mio figlio, di quello che aveva combinato e dei miei timori. Gli chiesi se poteva aiutarmi, come aveva fatto con me, con mio padre, e lui mi rispose di sì. Ci mettemmo d’accordo e avrei voluto anche passargli il denaro da dare a Stefano, ma lui rispose di no e mi disse che lo avrebbe fatto lavorare volentieri e per tutta l’estate.
Sarei riuscito nell’impresa? Sarebbe bastato per far cambiare atteggiamento a mio figlio? A cambiare il suo modo di fare? Non ne avevo idea, ma tornato a casa gliene parlai. Gli dissi che un mio amico stava cercando un aiutante per l’estate. Aveva una scuola d’equitazione e lui avrebbe potuto mettersi da parte qualche soldo e, se voleva, anche imparare a cavalcare. Vita sana, all’aperto, gente nuova e tante ragazze che frequentavano il maneggio.
Da prima perplesso poi sembrò convincersi, ma una volta giunti al maneggio, voltò le spalle.
«Io lì dentro non ci entro, papà».
Il mio amico gli aveva spiegato cosa avrebbe dovuto fare nei box dei cavalli, e che lì le regole erano poche e chiare: lavoro, rispetto e fatica.
Lo presi da parte e con calma cercai di farlo ragionare. Gli dissi che almeno avrebbe potuto provare, che non poteva dire sempre di no a tutto. Lui, forse per orgoglio, decise di mettersi alla prova e da quel giorno andò al maneggio. Quando finiva il suo lavoro, l’amico di mio padre gli faceva sellare un cavallo e gli insegnava a montare, e a volte si faceva accompagnare nelle passeggiate a cavallo. Gli diceva di mettersi in coda, in fondo alla fila, per tenere d’occhio quelli che erano ancora poco esperti. A lui piaceva questo incarico, lo faceva sentire importante.
Andò avanti così sino alla fine dell’estate e, giorno dopo giorno, con soddisfazione, notammo una metamorfosi nel suo comportamento. La mattina puntualmente si alzava e andava al maneggio e la sera, forse perché stanco della giornata trascorsa all’aperto, non usciva più da casa.
Lo sapevo, non sarebbe stato facile, ci sarebbero stati altri momenti difficili, ma il peggio sembrava passato. Aveva guadagnato dei soldi e li aveva messi da parte. Al maneggio aveva conosciuto una ragazzina della sua età e un pomeriggio era tornato a casa con lei, e quella era stata la fortuna, la svolta che aspettavamo, perché da quel giorno cambiò tutto. Si curava di più, era più attento, rilassato e riflessivo, e smise anche di frequentare le vecchie amicizie.

Quel periodo finalmente è alle spalle. È cresciuto, si è fidanzato con la ragazza conosciuta al maneggio e ora si è iscritto all’università.
Mio figlio non è mai stato uno di quei geni che a cinque anni sapevano già la tabellina pitagorica; o facevano a mente una moltiplicazione o suonavano il violino come Paganini, e nemmeno ha mai mostrato un segno inequivocabile del destino glorioso che lo avrebbe atteso dopo l’esperienza al maneggio.
Stefano è un ragazzo normale che, a diciannove anni, non ha ancora le idee chiare su quello che farà. Succede nelle migliori famiglie, e allora un giorno si rivolse a me.
«Tu papà cosa dici? Mi iscrivo a legge o a scienze politiche?»
Ne abbiamo discusso e abbiamo concluso che siccome a lui piace la storia e a scienze politiche ce n’è di più, quindi, vada per scienze politiche, gli suggerii.
Cosa farà con la laurea in scienze politiche? Non lo so. Forse il politico, l’addetto d’ambasciata, il pubblicitario, il magistrato, l’impiegato, il cuoco, il netturbino, questo non lo sa lui, non lo so io, non lo sa nessuno.
Basta scorrere i giornali, guardare la televisione, per capire in che condizioni è, e a che velocità viaggia il mercato del lavoro in Italia. Se mandi curriculum o domande di assunzione è come chiedere a qualcuno che ore sono e sentirsi rispondere mercoledì. Roba da mettersi le mani nei capelli.
Questo è il Paese dove, prima di lanciare un prodotto, le aziende fanno una ricerca di mercato per sapere cosa ne pensa la gente; ma lo Stato non è capace, per farli trovare pronti, di dare ai giovani un’indicazione, un indirizzo, dire quale tipo di lavoro nuovo si stia delineando all’orizzonte, e nemmeno che genere di specializzazioni verranno richieste in futuro.
Un’indagine di questo genere costerebbe poco o nulla. Basterebbe che lo Stato facesse circolare tra le aziende industriali, commerciali, agricole, sanitarie, enti territoriali e scuole, un questionario di poche righe per chiedere che genere di professionalità saranno richieste in futuro, e tra quanto potrebbe essere previsto il loro utilizzo: fra un anno, due anni, tre anni, un secolo?
E questi dati, per permettere ai giovani una maggiore informazione e flessibilità, ci dovrebbero essere trasmessi per televisione, come fanno con le previsioni del tempo e dovrebbero addirittura istituire un numero verde, come fanno le grandi aziende.
Così facendo, magari si scoprirebbe che è semplicemente da matti iscriversi a scienze politiche quando invece c’è carenza di periti alimentari, specialisti in disinquinamento ambientale o di ingegneri di biomedica o ambientale.
Ma questo non avviene perché lo Stato non si reputa un’azienda e nemmeno sente la necessità di abbassarsi a tale rango. Ha ben altri impegni: scissioni di partito, congressi, correnti trasversali, elezioni sempre alle porte; presenzialismo di politici in tv che parlano, gridano e offendono, senza però toccare mai nessun argomento che possa essere utile al cittadino.
Come molti connazionali, anch’io faccio considerazioni sul lavoro che non c’è, e sull’università che continua a sfornare un prodotto che il mercato non riesce più ad assorbire. Certo, tutti possono aspirare a diventare un premio Nobel, ma il difficile resta trovare prima un lavoro. La nostra società è ormai strapiena di medici, farmacisti, ingegneri, avvocati, architetti che sono in cerca di occupazione. Manca invece il lavoro manuale: periti, artigiani, agricoltori e bravi tecnici, eccetera. Certo, non è facile ritornare al vecchio concetto del lavoro manuale, che una volta si diceva nobilitasse l’uomo, anche perché, probabilmente, non lo nobilita affatto, in quanto relega chi lo svolge al ruolo di semplice dipendente, spesso retribuito assai male.
Mio figlio alla fine ha deciso, prenderà scienze politiche e tra cinque anni, o forse sei, troverà magari un posto in banca, in qualche ente statale o farà il vigile urbano, il tassista, il guardiano notturno o magari il cameriere. Intanto, con l’iscrizione all’università, si è premurato di allontanare il problema di almeno un altro quinquennio.
Forse dopo la laurea il lavoro non lo troverà nemmeno, magari si troverà a dover sgomitare con migliaia di altri giovani per assicurarsi un posto da portantino in ospedale o per lavorare in un call center, o magari diventerà uno dei tanti cervelli in fuga. Sarà costretto ad andare all’estero, come hanno fatto i suoi bisnonni che, con una valigia di cartone, sono saliti su un vagone di terza classe e sono finiti in miniera. Lui magari, a differenza loro, partirà in aereo e troverà un alloggio decente, ma questo solo perché sta vivendo tempi diversi. La sostanza non cambia.
Con mio figlio a volte mi capita di discutere e spesso commetto l’errore di arrabbiarmi, perché una cosa che sembra ovvia a me non sembra altrettanto ovvia a lui. È facile dimenticare, voglio dire, che un ragazzo usa le stesse parole di un adulto, ma le mette insieme in pensieri che hanno venti o trent’anni di meno dei nostri.
L’ultima discussione l’abbiamo avuta tempo fa, a causa di una notizia pervenuta dagli Stati Uniti d’America. Il sindaco di una città di cui non ricordo il nome, a seguito di una serie di atti vandalici e di violenze commesse da gruppi di giovinastri durante la notte, ha temporaneamente vietato ai minori di anni 18 di circolare da soli per le strade, dopo le ore 21.
Io, che invecchiando mi abbandono sempre più all’inqualificabile debolezza di apprezzare l’ordine e la sicurezza, mi sono trovato subito d’accordo con quel sindaco. La trovai una giusta misura repressiva contro quei vandali che devastano e rompono la quiete e non solo quella. In realtà la trovai una misura giusta e permissiva anche nei confronti di quei molti che chiedono di vivere in santa pace. Mio figlio, invece, sosteneva che si trattava di un abuso, un provvedimento inaudito: non vedo – sosteneva – perché allora non si vietino le strade fra le 8 e le 13 ai maggiori di anni 18, tenuto conto del fatto che le banche e i furgoni porta valori vengono assaliti di mattina, e sempre da rapinatori maggiorenni.
Discutemmo ancora un po’, poi mi accorsi che il distacco generazionale era tale che rischiavo di restare incastrato in un meccanismo a me oscuro, e allora lasciai correre.
Ritrovato il buonumore, dopo un po’, comunque, mi misi a ipotizzare cosa sarebbe successo se un provvedimento del genere fosse stato adottato in una delle nostre città messe a soqquadro da giovani teppisti. Scioperi studenteschi, cassonetti dati alle fiamme al grido di “libertà”, ragazzi mobilitati per sit-in e cortei notturni, fiaccolate, scontri con le Forze dell’Ordine, interpellanze parlamentari, inchieste, rinvii a giudizio. Lasciai stare e pensai ad altro.
Un figlio all’università e comunque un’emozione fortissima che richiama altre emozioni. E mi è successa una cosa strana: mi riaffiorano sensazioni che vedo nitide, vicinissime e allo stesso tempo irreali, affioranti da remoti ricordi di non so quanti anni fa.
Pensandoci, mi sembra di aver vissuto ai tempi di Garibaldi, tanto sono lontani quei giorni, quella goliardia.
Già, la goliardia, che è sempre stata appannaggio dei figli di papà, di chi comanda, ma che intanto a questi figli di papà non passa nemmeno per la testa di correggere gli errori del passato e dei loro padri. Di prepararsi a succedere alla vecchia nomenclatura con nuove idee e nuovo slancio.
All’epoca credevo di essere un goliardo anch’io, perché organizzavo gli scherzi alle matricole, ma ero un goliardo di serie bi, perché mentre io facevo il cretino, mia madre, che invece faceva la sarta, stava su tutta la notte per finire gli abiti da consegnare alle signore e così permettere a me di continuare a studiare.
Però ora sono contento che mio figlio si sia iscritto all’università, e come milioni di altri italiani, non penso che un problema di ordine generale possa riguardare anche il singolo individuo; me o mio figlio in particolare.
Tutti ci riteniamo persone di buonsenso e nessuno viene sfiorato dal dubbio che in una società di persone che sbagliano, la cosa possa riguardare anche noi singoli.
Il vero problema italiano è che stiamo andando tutti, ciascuno col suo buonsenso, verso una società senza senso.



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