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UN PADRE NON COMPRESO

Pubblicato da: Categoria: IL RACCONTO

28
SET
2017

Mio padre era un uomo taciturno e solitario. Quando non era impegnato nella traduzione o nella ricerca di refusi su testi in via di pubblicazione, trascorreva la maggior parte del suo tempo a scrivere poesie su un quaderno che poi custodiva gelosamente in un cassetto.
Mio padre amava la lettura, la scrittura, la musica classica e la nostra casa era impregnata di tutto questo.Aveva l’animo del poeta: amava Leopardi, le sue poesie, il suo pessimismo e passava ore chiuso nel suo studio, nel silenzio più totale.
La sua porta restava sempresocchiusa di qualche centimetro eio, attraverso quel piccolo spiraglio, potevo vedere le paretiricoperte di libri, suddivisi per dimensioni: biografie, romanzi, saggi e classici. Tutto era in perfetto ordine in quella stanza. Ma a me sembrava più un tempioproibito.Quando la porta era socchiusa, voleva dire che stava scrivendo poesie o si stava concedendo qualche minuto di relax, leggendo uno dei suoi tanti amati classici o ascoltando musica classica. Se invece la porta era completamente chiusa, voleva dire che stava lavorando e non voleva essere disturbato per nessun motivo.
Ricordo che una volta, avrò avuto nove anni, osai entrare nella stanza senza dirgli nulla, né bussare alla porta. Lui era seduto,ricurvo sulla scrivania con le cuffie sulle orecchie e stava vergando con la sua amata stilografica le righe di un quaderno.Mi avvicinai con timore ma anche con il gusto di sfidare il proibito.
Con passo leggero e felpato gli arrivai vicino. Non si era accorto di me e allora lo chiamai sottovoce,guardandolo in viso. Gli sfiorai un braccio e lui si riscosse. Si tolse le cuffie con un gesto lento e sembrò quasi stupito di vedermi lì, accanto a lui, nel suo tempio. Mi guardò sorpreso ed io lo osservai preoccupato, non sapevo cosa fare, né cosa dire.
Mi aspettavo un rimprovero, che m’intimasse di uscire immediatamente, ma non fu così. Mi chiese solo cosa volessi, perché fossi entrato e io, non sapendo cosa dirgli, gli risposi con un’alzata di spalle e continuai a rimanere in silenzio. Allora mi prese in braccio, mi fece sedere sulle sue ginocchia e mi scompigliò i capelli con una carezza. Seduto in braccio a lui, per la prima volta provai una sensazione strana perché non era mai accaduto prima. Mio padre, sino a quel momento, non aveva mai dimostrato un simile slancionei miei confronti.
Rimanemmo per qualche istante così, fermi, e il mio sguardo cadde sulla scrivania, sul quaderno aperto, sulla sua stilografica. Le poesie le scriveva sempre con la penna, in corsivo ela sua grafia era minuta e chiara.
Sbirciai la pagina aperta ma l’unica cosa che riuscii a cogliere di quello scritto fu il titolo: “ALLA MADRE”.
In quel momento provai un senso di colpa, come se avessi commesso una violazione, avessi fatto una cosa sbagliata, proibita. Così, pieno di sensi di colpa, distolsi lo sguardo dal quaderno e mi girai verso la mensola su cui troneggiavano dei mappamondi di diverse dimensioni e che mio padre collezionava da sempre e che portava a casa dai suoi viaggi.Tutti i mappamondi erano di cristallo e disposti in ordine crescente, dal più piccolo al più grande ed erano sistemati in modo che subito si potesse notare il continente australiano.
Ricordo che mentre con lo sguardo stavo vagando su quei globi e sulle pareti di quella stanza a me quasi sconosciuta, ebbi la tentazione di chiedergli perché ogni mappamondo fosse collocato in modo che subito si notasse l’Australia, ma mi mancò il coraggio e restai in attesa che fosse lui a dirmi qualcosa.
Seduto sulle sue ginocchia, ero affascinato da quel luogo, ma anche intimorito. Tutto era così perfetto. Ma quello che non era altro che lo studio di mio padre, a me sembrava un luogo senza tempo, senza dimensioni.
Mio padre continuava ad accarezzarmi i capelli e tenermi sulle ginocchia, ma non diceva nulla e allora allungai un dito verso le cuffie abbandonate sulla scrivania e lui, prendendole in mano,me le pose sulle orecchie.
Quelle note molto dolci mi piacquero, ma le potei ascoltare solo per qualche secondo perché mio padre mi sfilò la cuffia e disse:
«È Mozart. Musica classica, non penso possa piacerti alla tua età».
Dopo poco, mi lasciò scivolare a terra e mi fece uscire perché doveva continuare a scrivere. Non accennò a un sorriso né a un abbraccio. Non disse altro, ma io capii che quello che aveva fatto, per lui, era stato uno strappo alle sue rigide e ferree regole.
Io lo guardai ancora per un istante, poi abbassai il capo e, provando un senso di vuoto, usciie richiusidietro di me l’uscio della stanza.
Non riuscivo a capire perché mio padre si comportasse in quel modo, perché non riuscisse a essere più espansivo, perché non mi avesse mai dimostrato affetto, perché su quella mensola tenesse quei mappamondi tutti sistematiin modo che si vedesse l’Australia.
Pensai che forse a lui avrebbe fatto piacere visitare quel continente, ma tornai in camera mia senza chiederglielo. Quella sera però, a cena, mentre mia madre stava scodellando la minestra, esordii dicendo che a scuola ci avevano insegnato che i canguri erano dei marsupialie che vivevano in Australia. Poi mi feci coraggio e gli chiesi perché i suoi mappamondi fossero proprio tutti sistematiin modo che si potesse vederel’Australia. Lui finì di portarsi il boccone alla bocca, mi guardò stupito e poi mi rispose che ogni mappamondo si colloca da solo su quel continente. A me, allora, quello che mi stava dicendo mi sembrò una cosa incomprensibile, una cosa da grandi, ma ne rimasi così impressionatoche non osai più replicare, né chiedergli nulla.Mio padre riprese a mangiare e mia madre, indicando il mio piatto che non avevo ancora toccato, mi rivolse uno sguardo colmo di dolcezza.
Il pomeriggio seguente, mentre mia madre era in salotto che seguiva la sua soap opera preferita e mio padre era uscito per recarsi alla casa editrice per consegnare delle traduzioni, mi vennevoglia di fargli uno scherzo. Lo scherzo consisteva nello spostare ogni mappamondo in maniera che si notasse subito l’America e non l’Australia. Un piccolo, piccolissimo gestoche io trovai rivoluzionarioma che provocòil disappunto di mio padre.
Con il viso accaldato e con le mani che mi tremavano,entrai nel suo studio, mi arrampicai su una sedia e poi girai ogni mappamondo, dal più piccolo al più grande, in modo che si notasse subito il continente americano.Attesi un po’, ricordandomi le sue parole:”Il mappamondo si collocada solo sull’Australia”, ma non successe nulla e allora, dopo aver compiuto quel gesto sacrilego, rimisi a posto la sedia,uscii dalla stanzae trovai mia madre che mi stava guardando stupita.
Un paio d’ore più tardi, quando mio padre rientrò a casa e si chiuse come al solito nello studio, come mi aspettavo un attimo dopo comparve sulla soglia della mia cameretta. Aveva il viso serissimo e lo sguardo posato su di me. Seguì un momento di silenzio, che a me parve durare un secolo, poi disse:
«Non lo fare più».E non aggiungendo altro tornò a rinchiudersi nel suo studio.
In quel momento capii che avevo fatto una cosa che a lui era dispiaciuta e me ne pentii, maintanto continuavo a non capire mio padre, la sua ossessione per quelle sfere, e mi misi a piangere.
Mia madre mi sentì singhiozzaree venne in camera mia e si sedette sul letto e, intuito cosa fosse successo, mi spiegò che quei mappamondi per mio padre erano estremamente importanti perché gli ricordavano i suoi genitori. I miei nonni, il papà e la mamma di mio padre che io non avevo mai conosciuto. Mi disse che tanti anni prima i suoi genitori eranopartiti perandare a lavorare in Australia. Mio padre aveva più o meno la mia età quando partirono e gli promiseroche sarebbero tornati presto a riprenderlo, ma da quel giornonessuno ne seppe più nientedi loro.
Se ne erano perse le tracce già nel porto d’arrivo, a Darwin, appena sbarcati dalla nave. E a miopadre era rimasto il cruccio di sapere perché non lo avessero portato con loro e perché non fossero più tornati a riprenderlo. Perché sua madre non gli avesse mai scritto. Egli era rimasto anche il desiderio di scoprire che fine avessero fatto, essendo svaniti nel nulla in quell’immensa pianura sconosciuta e per lo più desertica e disabitata.E siccome l’unico ricordo che aveva di loroera un mappamondo che suo padre gli aveva regalato per fargli vedere dove sarebbero andati a lavorare, da allora lo aveva custodito come una reliquia. L’Australia, su quel mappamondo, era rimasta in bella mostra anche dopo la loro partenza e così, continuò a collezionare mappamondi e adisporli in modo tale che quel continente fosse sempre il primo a essere notato.
Trascorsero gli anni e intanto cominciai a frequentare le superiori, liceo classico per volontà di mio padre, anche se non era quello il percorso di studi che avrei voluto intraprendere.
Portavo a casa sempre ottimi voti, però mio padre si limitava a dire che ero stato bravo, che dovevo continuare così, nulla di più. Mai un abbraccio, mai una carezza e nemmeno una pacca sulle spalle.
Dopo la maturità, la mia attenzione procedette spedita verso gli studi in medicina, ma quando lo dissi a mio padre che avevo deciso di diventare un medico chirurgo, non la prese bene.
«Perché non prendi lettere e filosofia, come ho fatto io? Solo queste materie ti faranno comprendere a pieno i segreti della vita». Mi rispose, cercando di dissuadermi dal proposito di diventare un medico.
Sapevo che sarebbe stato inutile cercare di fargli capire che a me non interessavanulla scoprire i segreti della vita, nétantomeno sublimarli nelle poesiema che, invece,a me importavasolo studiare medicina. Così, contro il suo parere, iniziai finalmente il percorso di studi che avevo scelto. Dopo la laurea e il praticantato e vinto il primo concorso a cui avevo partecipato, per lavorodovetti trasferirmi in un’altra città. Mio padre, a differenza di mia madre, non sembrò particolarmente interessato alla cosa. Se la lasciò scivolare via senza dimostrare alcuna emozione, e anche il giorno della mia partenza, a differenza di mia madre, rimase freddo e impassibile.
Passarono i mesi e una sera mi telefonò mia madre per dirmi che papà non era stato molto bene e che si stava sottoponendo a degli esami clinici. La malattia, diagnosticata e incurabile, ebbe un decorso lento e gli tolse tutte le forze, anche quelle che gli sarebbero bastate per scrivere i suoi amati versi. I suoi capelli in poco tempo cominciarono a ingrigire, a diradarsi. E a un certo punto i ricoveri in una clinica privata diventarono sempre più frequenti e prolungati.
Ormai era diventato l’ombra di se stesso e quando lo andavo a trovare, facevo fatica a riconoscerlo: dimostrava dieci anni di più di quelli che aveva. Mia madre passava ormai tutto il suo tempo accanto a lui, rincuorandoloe accudendolotutto il giorno ma quando, stanca morta,tornava a casa, si abbandonava a un pianto dirotto. Lei lo aveva sempre amato, nonostante l’incapacità di mio padre di dimostrarle altrettanto affetto.
Io andavo a trovarlo appena potevo, anche se sapevo che avevamo poco da dirci. Mi fermavo ai piedi del suo letto e ascoltavo le poche parole che mi diceva. Spesso il suo era un semplice saluto o la richiesta di una rivista, di un libro. Un giorno però mi sorprese, perché mi chiese di portargli il quaderno delle sue poesie,quello che custodiva nel suo studio.
Quella sera, quindi, entrai in quella stanza, in quel tempio in cui non mettevo piede ormai da anni. Aprii il cassetto della scrivania, presi quel quaderno con la copertina nera e le pagine bordate di rosso e subitoprovai un’emozione fortissima, perché dentro di me tornò a farsistrada un senso di colpa, come se avessi profanatoper la seconda volta quel luogo.
Lentamente cominciai a sfogliarele pagine del quaderno, sino a che non trovai quella poesia di cui ricordavo solo il titolo, e cominciai a leggere:
Alla Madre
Per volgere lo sguardo oltre l’orizzonte, passata innanzi ho la chiesa madre. Salite le nere vie del borgo. Su su, sino ad arrivar a calpestar le mura del castello antico. Ora lassù mi sovvien, tra mille luci, mare e stelle scintillanti, lo sguardo della persona cara. Colei che per andar lontano ha dovuto abbandonar la mia piccola mano,lasciare tutto enavigar lontano. Adesso, ormai cresciuto e uomo fatto, il mio cammino in altro luogo ho poi trovato. Tu sei sola, tra tanta gente estranea, e asciugando le lacrime che ti han rigato il viso, smorzi anche il tuo tenero sorriso. Quante gioie, quante speranze avevi in serbo per questo figlio amato e ormai lontano. E mi sovvien il tuo sguardo greve e colmo di lacrime, quando piangendo mi lasciasti per partirei con mio padre. Emi sovvien il ricordo di quel giorno,perché partisti e non facesti più ritorno. Tra un po’verrà il turno di mio figlio. Domani chissà, forse toccherà a suo figlio. La ruota gira e il tempo passa, Ma nulla cambia in quest’amata e amara terra. E a me non resta che aspettare, nella speranza di vederti un giornoritornare.
Quando tornai a trovarlo, gli posai tra le mani il quaderno e restai a fissarlo in silenzio. Non gli dissi che avevo letto le sue poesie. Non gli dissi che mi dispiaceva averlo deluso e fatto soffrire. Non ero abituato a farlo, ma in quel momento provai una pena infinita.
Mio padre morì nel giro di qualche settimana. Dopo i funerali con mia madre andammo nello studio, lei accarezzò a uno a uno tutti quei mappamondidi cristallo e non riuscì a trattenere le lacrime.
«Cercare di non piangere non serve a niente mamma. La tristezza ci resta dentro e allora lasciati andare». Le dissi, posandole una mano sulla spalla.E lei, asciugandosi una lacrima, sussurrò:
«Tuo padre ti ha sempre voluto bene, ti ha amato tanto, ma aveva il timore che se un giorno fosse dovuto mancare, tu avresti potuto soffrirne come era successo a lui, e allora ha sempre cercato di non far trapelare i suoi sentimenti».Poi aggiunse:
«Sono sicura che tuo padre finalmente sarà riuscito a ritrovare i suoi genitori. È sempre stato il cruccio della sua vita quello di sapere perché lo avessero abbandonato, perché non fossero più tornati a riprenderlo. Dal giorno della loro partenzaha vissutosempre in casa di una sorella di suo padre, ma non è mai riuscito ad andare d’accordo,né con lei né con i suoi cugini. Quando ci siamo sposati gli chiesi perché non volesse andare in viaggio di nozze in Australia. Magari solo per calpestare il suolo del porto di Darwin, come avevano fatto i suoi genitori appena sbarcati dalla nave. Ma tuo padre scosse la testa e rispose che quella era una ferita sempre aperta e che non voleva che ricominciasse a sanguinare».
Quando stavo per lasciarla,tornare a casae riprendere il mio lavoro, mia madre mi fece cenno di aspettare un attimo e, tornata nello studio di mio padre, ne uscì con il quaderno dalla copertina nera.
«Custodiscilo con cura perché sono poesie che tuo padre ha scritto pensando sempre a te».
Quando ci salutammo, a differenza di mia madre, non riuscii a trattenere le lacrime.
 



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