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I RICORDI DI MARIKA

Pubblicato da: Categoria: IL RACCONTO

12
OTT
2017

Anche se è passata quasi sotto silenzio, il due ottobre scorso è stata la festa dei nonni. Ed è stata un'altra festa dei nonni senza di te, nonno Salvatore e, soprattutto, senza che tu abbia mai avuto occasione di ricevere gli auguri! Chissà perché, nonostante la personale ritrosia, quasi ti potesse giungere più forte e chiaro, ti voglio dire che qui è come sempre. Cado, mi faccio male, mi rialzo e mi lecco le ferite con quello spirito combattivo che tu mi hai instillato. Certo, a volte resto a terra più alungo, perché magari è stato più forte il colpo, ma seguendo il tuo esempio alla fine mi rialzo sempre. Per contro ho avuto anche tante soddisfazioni, ma so che tu lo sai, così come conosci i miei dolori. Mi manchi nonno!Mi manca il tuo sorriso, i tuoi insegnamenti, e so che purtroppo questo vuoto mi accompagnerà per tutta la vita. Ma faccio di tutto perché tu possa continuare a essere orgoglioso di me anche da lassù, come lo eri quaggiù. Ti voglio tanto bene nonno. Tantissimo bene, e ti mando un bacio lungo fin lassù in Paradiso, dove tu ti trovi.
Mio nonno Salvatore aveva un fisico asciutto, era alto e magro e portava due baffetti sottili, alla David Niven, che si allungavano quando sorrideva. Era un uomo dolcissimo, un cuore d’oro, anche se a volte poteva sembrare burbero e scontroso.
Il mio legame con lui è sempre stato fortissimo e uno degli episodi che più spesso mi tornano alla mente è accaduto quando ero ancora ragazzina. È stato un momento triste, ma io lo ritengo uno dei ricordi più belli e toccanti della mia vita.Una mattina, in cui avevo dormito fino a tardi, come succede spesso quando si è adolescenti e si è in vacanza, mi svegliai con la vaga impressione che qualcuno mi stesse osservando, che con la sua mano invisibile mi stesse accarezzando i capelli.
«Ciao nonno, ma come mai sei qui?» Gli chiesi, con una certa apprensione.
«Sono venuto perché devo partire, maprima volevo salutarti e dirti che ti voglio bene e che sempre te ne vorrò». Rispose,sorridendo e accarezzandomi ancora.
Ero ancora in uno stato di dormiveglia e di completa beatitudine, quando sentii entrare nella stanza mia madre e di colpo capii che qualcosa di grave era successo. Aveva le lacrime agli occhie,tesa, disse che doveva darmi una brutta notizia.
«Si tratta del nonno?» Sussurrai io, preoccupata.
Lei mi guardò sbigottita e poi aggiunse:
«Sì, del nonno. È morto questa mattina, mi ha telefonato ora la zia.
Anche se sapevo che da tempo stava molto male, le parole di mia madre mi colsero di sorpresa, ma ero anche contenta che prima di andarsene per sempre il nonno fosse venutoda me per salutarmi per l’ultima volta.
I ricordi che ho di lui sono iniziati quando ero molto piccola esono proseguiti sino a quest’ultimo episodio, che io considero l’ultimo regalo che mi ha voluto fare e che porto sempre nel mio cuore. Naturalmente ho tanti altri bei ricordi di lui. Cose semplici, quotidiane, ma non per questo meno importanti: i cornetti caldi caldi che mi portava per la prima colazione; la merenda che facevo a casa sua quando il pomeriggio salivo a trovarlo. Era una semplice fetta di pane sopra il quale lui metteva dell’olio d’oliva e del sale, ma quanto era buono quel pane, tanto buono che in seguito non sono più riuscita a sentire quel sapore così speciale. Quando ero piccola, mi veniva a prendere a scuola(la mamma lavorava e mio padre era un ufficiale dell’areonauticasempre all’estero in missione). Mi accompagnava al corso di danza e non è mai mancato a un mio saggio e, prima di tornare a casa, facevamo un lungo giro e questo per darmi il tempo di assaporare un gelato, un dolcetto acquistato all’insaputa della mamma, la quale si sarebbe arrabbiata se solo avesse saputo che grazie al nonno facevo certi strappi alle sue ferree regole. Quando passavamo davanti a un negozio di giocattoli o di articoli per bambini, mi prendeva per mano e mi diceva:
«Entriamo qui e tu comprati quello che vuoi. Io voglio bene a tutti i miei nipoti, ma tu sei la mia Marika».
Di sicuro mio nonno era un uomo d’altri tempi e la sua vita era stata difficile,irta di difficoltà e piena di dure prove da superare. Aveva fatto la guerra come sottufficiale nella marina militare, e quando nelle sere d’inverno ci mettevamo vicino al caminetto e gli chiedevo di raccontarmi una fiaba, lui sembrava animarsi, ma non avendo mai avuto nessuno che da piccolo gli avesse raccontato una fiaba, mi prendeva in braccio e cominciava a raccontarmi episodi di guerra, delle battaglie navali che lo avevano visto protagonista e, sino a che non mi addormentavo sulle sue ginocchia, lui continuava a raccontare con voce sempre più bassa, sempre più flebile, finché io non scivolavo nel sonno. È stato un nonno eccezionale e una presenza costante nella mia vita. Mi ha viziato,certo, ma ha saputo anche rimproverami: “Non si fa Marika, questo no, non si fa”, mi ripeteva quando insistevo con i miei capricci. E se qualche volta mi lamentavo perché qualche cosa non era andata come io avrei voluto, lui mi rispondeva che non sempre i frutti mantengono le promesse dei fiori, e sorrideva.
Quando ebbi la pertosse e stetti malissimo,lui mi è stato sempre vicino, non si è mai staccato dal mio letto. Bastava che girassi lo sguardo per la stanza e lui era lì, sempre vicino a me. E quando cominciai a riprendermi, ma avevo ancora dei colpi di tosse, forse era il mese di maggio o giugno, mi portòin collina, sul monte Pizzuto, per farmi respirare l’aria pura e, per distrarmi, raccoglieva delle spighe selvatiche e se le metteva sotto il naso come se fossero dei baffi enormi e mi diceva: “Guarda Marika. Guarda che baffi mi sono cresciuti con quest’aria frizzante”.
A dodici anni mi regalò una bicicletta, una Bianchi enorme. L’aveva trovata chissà dove e l’aveva portata a casa, riparata, pitturata e me la fece trovare il giorno del mio compleanno. Imparai ad andarci da sola, dopo molte cadute perché non aveva le rotelline ai lati.Spesso mi portava nel suo laboratorio, una cantina, dove ci teneva i suoi attrezzi e i suoi ricordi. Sempre, quando entravo lì dentro, venivo attratta da una bilancia d’ottone, da orefice, con i suoi minuscoli piattini e i pesi che teneva su una mensola. Non voleva che la toccassi, che ci giocassi e bonariamente mi rimproverava.
Quando cominciò a non stare bene, cercammo tutti di nascondergli la vera natura del male, ma lui aveva capito, tanto che a un amico che gli aveva chiesto come si sentisse, rispose che se uno sta male e dimagrisce continuamente, non è niente di buono.
Dopo i funerali, tornata a casa, avevo voglia di starmeneda sola, ma in casa c’era troppa gente e allora pensai di scendere giù in cantina, dove tante ore avevo trascorso serenamente con lui. Quando aprii la porta ed entrai, subito l’occhio mi cadde sulla mensola, dove di solito teneva la bilancia, ma non era più lì. Al suo posto c’era una scatola avvolta da uno spago e annodata con un fiocco. Incuriosita, la presi e la adagiai sul suo bancone e la aprii. Dentro, ben avvolta in pagine di giornale, c’era la bilancia con i suoi piattini e i pesi, più una busta. Tremante ne estrassi il foglio e lessi:”Per te Marika. Ho voluto bene a tutti, ma tu per me sei sempre stata una cosa speciale. Tienila per mio ricordo. Un abbraccio, dal tuo nonno Salvatore”. E ancora adesso, che sono passati tanti anni, quella bilancia la conservo come una reliquia, e guai a chi me la tocca.
Dopo poco che era scomparso, stranamente incominciai ad avere la sensazione, in determinati momenti, di non essere sola. A volte, inspiegabilmente, mi sembrava di sentirlo ancora vicino, e pensandoci mi venivano i brividi. Non so spiegare bene come, ma percepivo che dietro quelle sensazioni, quelle percezioni,c’era sempre nonno Salvatore.
«Dai Marika, cerca di essere realista, non è detto che ogni volta che senti un alito di vento o hai un brivido, tu debba per forza collegare tutto a tuo nonno». Mi diceva la mia amica Rosa, e devo ammettere che obbiettivamente aveva ragione, ma io ero certa che la mia non era solo immaginazione, anzi, ero sicura che fossero dei segnali inviati da mio nonno Salvatore.
Così iniziai a percepire la sua presenza anche in altre occasioni. E da allora quei segnali io inevitabilmente li collego subito a lui.
Conobbi Renato, mio marito, il 15 giugno, il giorno del compleanno di mio nonno, e ancora oggi, a tanti anni di distanza, penso che non avrei potuto incontrare un uomo migliore. Esattamente lo stesso giorno, un anno prima, vinsi un concorso e trovai lavoro.E il quindici giugno di due anni più tardi ho dato alla luce mia figlia Valentina.
Queste strane coincidenze io le attribuisco solo alla sua presenza, al suo vigilare su di me, e spesso ho anche l’impressione che lui mi aiuti a uscire da certe situazioni difficili. A volte basta che pensi a lui, che gli chieda di darmi la forza e il coraggio di affrontare il brutto periodo che sto attraversando, e subito mi sento invasa da nuova energia.
C’è anche un altro mistero inspiegabile, legato al nonno. È il mistero dei passerotti. Quando era in vita, era solito lasciare sempre delle briciole di pane sul davanzale della finestra, in modo che gli uccelletti andassero a beccarle. Lui amava tutti gli animali, aveva un cane che era la sua ombra, non si separavano mai, ma con i passerotti aveva un legame speciale. Parlava perfino con loro, e a volte mi sembrava proprio che riuscisse a farsi capire.
«Buon giorno. Venite, vi ho preparato la colazione». Diceva, ogni mattina quando spalancava la finestra che dava sui giardini pubblici. E quei piccoli uccelletti arrivavano a frotte e si mettevano a beccare sul davanzale,senza spaventarsi della sua presenza, anzi, da come cinguettavano e saltellavano, sembrava che conversassero con lui. Poi, una volta finite tutte le bricioline, tornavano a volare via e il nonno, dopo averli salutati con uno sventolio del braccio, richiudeva la finestra. E adessomi è impossibile, ogni volta che vedo un passerotto, non pensare a lui, anche perché ogni anno vengono a fare il nido proprio tra l’intercapedine della nostra veranda.
«Marika, io penso che si tratti solo di un caso, una coincidenza. I passerotti non fanno il nido solo sugli alberi, ma un po’ ovunque». Mi dice mio marito, quando glielo faccio notare.
«Lo so. Lo so bene. Ma non trovi strano anche tu che vengano a costruirlo proprio sopra la nostra veranda. Io invece continuo a credere che sia il mododi mio nonno per farmi sapere che mi è sempre vicino». Aggiungo convinta e contrariata.
Ma come posso dargli torto, se io stessa a volte rimango stupita e disorientata davanti a certi inspiegabili avvenimenti. Mia figlia Valentina,invece,quando mi sente dire certe cose, mi guarda con quei suoi grandi occhi chiari, uguali a quelli di nonno Salvatore, e scuote la testa.
Circa un anno fa, però, Valentina, è stata malissimo. Stava quasi per morire a causa di una peritonite, i dottori ci dissero che c’erano poche speranze ed io mi sentii mancare. Era stata sottoposta a esami clinici, ma non poteva essere ancora operata. Mi misi a piangere disperata,e da quel giorno non mi allontanai un attimo dal suo letto.
In ospedale venivano, ovviamente, anche mia madre e mia sorella e un giorno, era il 15 giugno, riuscirono a convincermi alasciare per qualche ora la bambina con loro e andare a casa a riposare, farmi la doccia e cambiarmi.
Uscii dall’ospedale imbambolata e mi diressi verso la macchina come se il mondo intorno a me avesse cessato di esistere.
Riuscii in qualche modo a entrare in macchina e, con le mani strette sul volante e la testa appoggiata su di esse, scoppiai in un pianto dirotto. Rimasi seduta così per un tempo imprecisato, singhiozzando e scossa da brividi inarrestabili.
Non poteva essere successo a me. Quello che era successo non poteva essere accaduto a Valentina, a mia figlia. Doveva trattarsi di un incubo. Di un incubo che non riuscivo a scacciare solo perché non riuscivo asvegliarmi. Mai come in quel momento mi sentii così impotente, incapace di reagire contro la crudeltà e l’ingiustizia della vita.
All’improvviso un ticchettio sul finestrino mi fece trasalire. Sollevai il capo con un misto d’incoscienza, di fastidio, d’imbarazzo per quell’intrusione e puntai gli occhi gonfi di pianto sul volto di un uomo che non conoscevo. Era un viso gentile, dagli occhi dolci, di un signore dall’età indefinita che stava chino davanti al finestrino della macchina e mi guardava. Mi fece cenno di abbassare il finestrino ed io, come in trance, lo assecondai. L’uomo si chinò e mi rivolse un sorriso che fu come una carezza, poi si accosto e mi sussurrò in tono calmo e suadente:
«Noi non ci conosciamo, non sarebbe possibile, ma qualcuno mi ha incaricato di venire da te. Non so cosa ti sia successo, ma questa persona mi ha pregato di dirti che non ti devi angosciare, perché andrà tutto bene. Tutto si risolverà per il meglio e tu tornerai un’altra volta serena e felice».
Poi, con estrema naturalezza, quell’uomo che io non avevo mai visto, si sporse oltre il finestrino e mi accarezzo i capelli e bisbigliò:
«Ciao, dolce passerottino». Ed io, nel sentire da un estraneo le stesse identiche parole che il mio adorato nonno mi ripeteva sempre, mi sciolsi in un pianto liberatorio.
Quando mi ripresi e tornai in me, il signore non c’era più. Mi guardai intorno, ma era letteralmente sparito. Scesi dalla macchina per cercarlo, per chiedergli chi lo avesse mandato da me, ma di lui non c’era più traccia.
Non l’ho più rivista quella persona e non so se faccio bene a credere che sia stato proprio lo spirito di mio nonno a mandarla efarmi recapitare il suo messaggio. Non ho risposte a queste domande, so soltanto che quando sono tornata in ospedale, mia madre mi accolse con un sorriso, e abbracciandomi mi disse che di lì a una settimanaValentina sarebbe stata operata.
Passarono altri giorni di ansia ma poi, piano piano,mia figlia cominciò a riaversi. Cominciò ad aprire gli occhi e a pronunciare qualche parola e finalmente fu possibile esportarle l’appendicite.Valentinatornò finalmente a casa dopo un mese, era ancora convalescente, naturalmente,ma con l’aiuto delle amiche che venivano a trovarla riprese anche a studiare.
A volte ripenso a quel 15 giugno, a quel parcheggio dell’ospedale, e cerco di essere il più obiettiva possibile. Anche se allora ero stordita dal dolore e dalla preoccupazione, non credo di essermi sognata tutto. Poi mi torna in mente quello che mi ha detto quello sconosciuto e la sua carezza che è stata talmente reale che mi sembra di sentire ancora la sua mano che mi sfiora i capelli, e anchele parole con cui lui mi ha salutata: "Ciao, dolce passerottino”, non le scorderò più. E sono convinta che debba essere stata davvero opera di mio nonno Salvatore a mandarmi quel messaggio, tramite quell’uomo sconosciuto.
Forse un giorno troverò il coraggio di raccontare quello che è accaduto quel 15 giugno amio marito, a Valentina e anche a mia madre, ma per il momento è un segreto che voglio tenermi per me. L’ho raccontato solo ai passerotti che ogni mattina vengono sul davanzale della mia finestra per beccare le molliche di pane che faccio trovare loro. Mentre beccavano e saltellavano sul marmo del davanzale, ho raccontato loro la mia storia equella di mio nonno. Ho detto loro quanto mi abbia voluto bene e quanto ne abbia voluto anche a loro. Ho parlato di un nonno che ha lavorato duramente tutta la vita e che mi è sempre stato vicino e non mi ha mai abbandonata. Ho raccontato di un nonno che mi prendeva per mano quando mi accompagnava a scuola, che mi consolava quando ero triste, che mi portava al parco e in collina a giocare, che mi curava le ferite, sia del corpo che dell’anima e che, soprattutto, mi è sempre stato vicino nei momenti difficili e che ancora adesso, quando mi sento triste,lo sento vicino come allora, come quando ero piccola, come sempre.
Grazie nonno Salvatore, ti voglio sempre un gran bene.
 



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