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IL PRIMO GIORNO DI RUOLO

Pubblicato da: Categoria: IL RACCONTO

26
OTT
2017

Fa uno strano effetto rimettere piede in questo istituto dopo quindici anni. Tanti ne sono trascorsi da quando ero una semplice studentessa alle prese con Manzoni, Leopardi e Dante. Assurde formule chimiche e logaritmi davvero complicati. Ma eccomi qui. Dopo anni di precariato ho raggiunto finalmente l’agognato ruolo emi è stata assegnata la sede nella mia città, dove ho studiato e mi sono laureata. Ciliegina sulla torta: il liceo presso il quale andrò a insegnare le mie materie umanistiche è lo stesso dove mi sono diplomata io.
Mi sembra davvero strano percorrere questi corridoi, rimasti sempre uguali nel tempo. Certo, qualcosa è cambiato, alcune aule non ci sono più e nemmeno l’ampio cortile dove giocavamo a pallavolo durante l’ora di educazione fisica esiste più, al suo posto è sorta una struttura coperta per lo svolgimento delle varie discipline sportive e un parcheggio riservato ai docenti e agli amministrativi della scuola.
È passato tanto tempo e anche la scuola, faticosamente, cerca di uniformarsi e adeguarsi ai tempi moderni,al progresso.
Questa notte non ho dormito per niente e mi sono alzata prestissimo, ho fatto colazione con mia madre, che era più emozionata di me, e mi sono preparata per il grande giorno. Prima di uscire mi sono data un’ultima occhiata allo specchio per cercareancora una volta qualche inesistente lacunanell’abito, nella pettinatura o nel trucco,poi mi sono sistemataun’altra volta gli occhiali sul naso e, anche se era ancora prestissimo, mi sono avviata.
Ecco, sono sull’autobus e sto guardando la mia immagine riflessa nel vetro e sembro proprio una vera professoressa di liceo, una severa insegnante che sa il fatto suo e sa farsi rispettare.
Maintanto,la mia esperienza da supplente mi dice che ho sempre faticato parecchio a mantenermi calma di fronte alle ripetute e stravaganti intemperanze degli studenti.
Eh sì, perché diciamocela tutta, la scuola non è più quella di una volta e i ragazzi lo sono ancora meno. Si è perso tanto in questi anni, ma quello che proprio dispiace di più è il rapporto un po’ troppo goliardico e strafottente che si è venuto a creare tra gli studenti e i professori.
La pazienza degli insegnanti è messa quotidianamente a dura prova e la loro professionalità non viene riconosciuta da nessuno, tantomeno dai genitori degli studenti, né da chi dovrebbe tutelarci.
Come si sia arrivati a questo punto nessuno lo sa, e se qualcuno lo sa fa spalluccia e orecchie da mercante. Insomma di chi sia la colpa è un mistero, ma sicuramente non è di chi insegna. Non voglio erigermi a paladina del corpo docente ma oggi insegnare è diventato davvero complicato. E non mi riferisco solo l’insegnamento delle nozioni scolastiche, quelle stabilite dai programmi didattici, mamolto più semplicemente del rapporto gerarchico. Ormai è diventato tutto così difficile, e quasi impossibile è diventato anche riuscire a trasmettere ai ragazzi i giusti valori, far discernere loro il bene dal male, instillare negli studenti l’importanza dello studio, della conoscenza, del sapere, come prepararsi ad affrontare la vita, a come doversi comportaredi fronte ai problemi. Tutto questo è diventato un compito assai gravoso e, purtroppo, spesso mal tollerato dagli studenti e, peggio, dai loro genitori.
Cerco di scrollarmi di dosso questi brutti pensieri, dovuti anche alla mia precedente esperienza svolta in scuole di periferia,dove prevalevano in numero maggiore ragazzi difficili. Ragazzi ormai allo sbando, non seguiti,se non proprio abbandonati a se stessi.
Ricordo Carlo, un bravo ragazzo che avrebbe tanto voluto studiare ma che le condizioni critiche della famiglia non glielo avevano permesso. Lavorava saltuariamente, faceva di tutto pur di guadagnare qualcosa enon essere di peso alla famiglia. Andava dove lo chiamavano o dove trovava qualcosa da fare. Il mattino si alzava prestissimo e andava ai mercati generali, lavorava tutto il giorno e la sera trovava ancora la forza e il tempo per frequentare la scuola serale. Voleva studiare e diplomarsi. Cercava di cambiare il corso della sua vita già segnata dal destino. Non voleva finire dietro le sbarre com’era successo a suo padre e aisuoi fratelli, ma non ci riuscì. A causa del degrado circostante, lasituazione familiare, le amicizie sbagliate e soprattutto non avendo trovato nessuno che si prendesse cura di lui, inevitabilmente vennerisucchiato daquel mondodelittuoso che lo circondava, da quel mondo fatto di spaccio, droga, scippi e abbandono.
Quando insegnavo in quelle scuole di periferia, provavo disagioe anche paura,ed eroemotivamente provata. Non è stato facile per nessuno, e soprattutto per me, portare avanti il programma di studio con studenti convintiche la scuola non servisse a niente e il diploma ancora meno.Per loro i valori erano ben altri, e lo dicevano con spavalderia impressionante.
Alla fine, quando quasi non ci speravo più,finalmente mi è giunta la notizia del mio passaggio in ruolo. E la mia gioia è stata ancora maggiore quando ho saputoche ero stata destinata a insegnare nella mia cittàe soprattutto nel mio vecchio amato e odiato liceo.
Sono già stata qui nei giorni scorsi,per le presentazioni ufficiali. Ho conosciuto la dirigente che mi ha accolto con un caloroso in bocca al lupo e mi è sembrata anche piacevolmente sorpresa quando le ho detto che io sono stata una studentessa del liceo. Ho parlato anche con alcuni colleghi e l’impressione è stata quella di aver trovato delle persone disponibili, amichevoli.
E adesso eccomi qui in trepida attesa. La campanella non è ancora suonata e capannelli di studenti sono fermi davanti ai cancellisulla scalinata. Ragazzine fin troppo truccate mi passano accanto senza accorgersi di me.
Guardo questi ragazzi e non li capisco e non mi riconosco. Apparentemente sembrano tutti uguali, eppure,sono distanti anni luce uno dall’altro. Si salutano a malapena,sono vestiti allo stesso modo e hanno lo sguardo perennemente incollato ai loro cellulari. Sembra che coltivino le loro amicizieessenzialmente attraverso i loro smartphone e internet.
È arrivato il suono della campanella a scandire l’inizio delle lezioni,eppure nessuno di loro sembra avere fretta di entrare in classe. La scuola è iniziata già da un mese e i ragazzi dovrebbero avere ormai superato il trauma post vacanze, ma forse non è questo il problema. Forse ritengono che in aula si possa entrare quando si vuole, come al cinema, a pellicola già iniziata.
Non ho lezione la prima ora, ma stavo sulle spine e sono venutaprima. Volevo prendere dimestichezza col luogo e magari conoscere qualche altro collega. Così, mentre i ragazzi entranosvogliatamente nelle loro aule, io mi reco nella sala dei professori.
Saluto con un caloroso buongiorno i presenti ma solo due di loro rispondono al saluto, gli altri si limitano a mugugnare qualcosa che non riesco ad afferrare. Poi una corpulenta collega mi squadra, si alza,si avvicina e mi tende la mano, e sfoderando un sorriso di circostanza chiede:
«Sei la nuova del Corso B?»
«Sì, sono Giulia, la nuova della B». Rispondo,mentre ricambio il saluto e le stringo la mano.
«Ti hanno dato una bella gatta da pelare…» Mi dice abbassando la voce e poi prosegue:
«La B sarebbe anche buona, ma in quarta e quinta ci sono degli elementi che te li raccomando. Alcuni provengono da una casa famiglia e quindi ti lascio immaginare. Inoltre ci sono tre disabili e noi abbiamo una cronica carenza di insegnanti di sostegno. Senza contare poi i soliti balordi e bulletti che si divertono a prendere di mira i loro compagni più miti e a seminare panico. Quello che ti raccomando e di non farti prendere la mano. Ti consiglio di essere subito energica con loro e non lasciare che intravedano in te una benché minima traccia di debolezza. Altrimenti sarai fatta a pezzi».
«Addio bei sogni. Allora non è servito a niente cambiare scuola e città. Dovrò lottare anche qui, a quanto pare. Che amarezza». Le rispondo.
Improvvisamente una voce imperiosa, resa roca dal tabacco, tuona alle mie spalle. Mi giro e mi accorgo che è quella del mio professore di Italiano, quello che mi faceva tremare quando mi chiamava alla lavagna; quello che mi faceva le domande più assurde per il solo gusto di mettermi a disagio.Lo spauracchio e l’incubo di tante mie notti insonni; quello che mi spingeva a studiare con ansia la sua materia, ma anche quello a cui, indirettamente, devo la mia passione per la letteratura.
«Cara signorina Giulia, l’unico sessanta in tutta la scuola,se ben ricordo quell’anno, come va?» Mi chiede con lo stesso tono che usava quando m’interrogava.
«Be… bene professore». Rispondo, incespicando sulle parole e non capendo come possa essere ancora in grado di incutermi soggezione, nonostante adesso non sia più una studentessa ma unasua collega.Ma intanto mi sento a disagio e non riesco a spiccicare una parola.
«Non mi devi chiamare professore, ormai fai parte anche tu di questo circo equestre». Mi risponde. Mi stringe la mano e aggiunge:
«Non credere una parola di ciò che ti ha detto quella lì. Lei è abituata a trasformare tutto in tragedia greca. E non pensarenemmeno di essere finita in una gabbia di matti, perché questo non è certo il tuo primo incarico, vero? E non credo nemmeno che tu abbia insegnato soloin ambienti idilliaci, tranquilli e raffinati. Gli studenti sono uguali dappertutto, ma non ti devi mai fermare alle apparenze. Cara Giulia, devi sapere che per insegnare non bastano i titoli, serve soprattutto passione, cuore e cervello,e soprattutto devi amare i tuoi alunni. L’assoluta conoscenza della materia che insegni è essenziale, ma deve essere sempre accompagnata dalla capacità di comunicare con loro, e questo per invogliarli a imparare, ad apprendere. Se farai tesoro di quello che ti dico, sono sicuro che ce la farai, e vedrai che i tuoi studenti ti apprezzeranno. Altrimenti,aimè, sarai solo una delle tante insegnanti di Lettere».
Mi stringe la mano un’altra volta, afferra la sua vecchia borsa e si avvia verso l’uscita.
«Professore, ma quella è sempre la stessa borsa che aveva quindici anni fa?» Chiedo.
«Sempre quella Giulia. È la sola cosa che nella scuola non è mai cambiata». Mi risponde prima di sparire dietro la porta.
Adesso nella sala è entrato un collega più o meno della mia età. Saluta i presenti ma non si ferma a parlare con nessuno e va a sedersi al lungo tavolo. Tira fuori un fascio di carte e si mette a leggere. Penso che abbia fretta di correggere i compiti dei suoi alunni, ma da questa distanza non posso dirlo con certezza.
«Questo è il nostro caro Roberto. Il più giovane professore di scienze motorie della scuola, oltre ad essere anche il più fascinoso». Mi sussurra la stessa collega di prima, mentre mi passa davanti.
Per me non è ancora arrivato il momento di andare in aula, e allora cerco di fare conoscenza e un minimo di conversazione con altri colleghi. Ed è un vero piacere rendermi conto che sono tutti dei tipi alla mano, disponibili e prodighi di consigli.
Mentre parliamo, un collega chiama ripetutamente Roberto, vuole presentarmelo e lui alza lo sguardo a fatica dalle sue carte.
«Scusatemi, non avevo sentito che mi stavate chiamando. Stavo esaminando alcuni atti del mio avvocato». Si giustifica.
«Ancora grane con la tua ex?» Gli chiede un altro collega che evidentemente deve conoscere bene la sua storia.
«Al solito, me ne fa di tutti i colori pur di non farmi vedere il bambino». Risponde lui.
Un po’ mi sento a disagio per questo scambio di confidenze così personali, fatte proprio in mia presenzae non conoscendolo affatto. Poi,veniamo finalmente presentati e mentre ci stringiamo la mano non posso fare a meno di constatare che il suo viso è teso e tirato. Lui tace e io non so cosa fare, allora gli dico che sono un’ex studentessa di questo liceo e lui sorridendo mi augura un felice passaggio da studentessa a insegnante.
«Guarda che mi sono già fatta una bella esperienza sul campo e ti posso assicurare che certe scuole, dove ho insegnato, sono proprio al limite della sopravvivenza, per i professori intendo». Gli rispondo, perché non voglio passare proprio per una novellina.
Ma probabilmente le sue precedenti esperienze sono state peggiori delle mie e allora cerca di giustificarsi, mi dice che queste nuove generazioni si distinguono non tanto per intelligenza o capacità d’apprendimento, ma solo per ceto sociale…
«Non credo che ci siano studenti di serie A o di serie B, questo no. Il fatto è che purtroppo non ci sono più i genitori di una volta, e di conseguenza anche i ragazzi di una volta. Ora è diventato anche difficile distinguere i figli dai genitori. Parlano e si vestono allo stesso modo e sembra che né gli uni né gli altri abbiano voglia di crescere». Prosegue, quasi sconsolato.
La campanella suona di nuovo ed è arrivato il mio turno. Sto per affrontare la mia prima lezione in questaSezione B. Spero di essere ben accolta, comunque io farò del mio meglio.La sala professori si sta svuotando, solo Roberto resta ancora seduto e ha ripreso in mano le sue carte.
«Buona fortuna e buon inizio, Giulia» Mi sento augurare prima di uscire dalla sala professori ed io, seppure mi tremino le gambe e abbiaun po’ di batticuore, mi sento rassicurata dalle sue parole, dal suo augurio.
Uno, due e tre, un bel respiro profondo ed entro. In fondo non sono che ragazzi, esattamente com’ero io alla loro età. Ora spetta a me riuscire a farmi apprezzare, fare in modo che capiscanol’importanza dello studio, se vogliono raggiungere gli obiettivi prefissati.
Ci saranno giorni buoni e giorni cattivi, questo lo so già, ma se saprò catturare la loro attenzione e ottenere la loro fiducia tutto diventerà meno gravoso, più facile.
La porta dell’aula èancora aperta ed entro.
«Buon giorno ragazzi».
I loro occhi sono tutti puntati su di me. Forse non si aspettavano una professoressa così giovane, della mia età. Ma la sorpresa dura poco, solo il tempo di sedermi alla cattedra, aprire il registro,che subito devo alzarmi perrichiamarli all’ordine, chiedere un po’ di silenzio.
Il primo giorno di lezione è trascorso comunque tranquillo. Fatte le presentazioni e raggiunto un minimo di affiatamento, siamo passati al ripasso delle lezioni precedenti e tutto è filato liscio, fino al suono della campanella.
Ora sono rimasta quida sola. Chiudo il registro, raccolgo le mie cose e sto per uscire, quando mi sento chiamare:
«Giulia, com’è andato il primo impatto?» Mi sento chiedere da Roberto, che è fermo sulla porta.
«Bene, meglio non poteva andare». Rispondo.
«Sta piovendo. Se sei a piedi, ti posso accompagnare io». Mi dice, e intanto si scostaper farmi passare.
«Sono venuta con l’autobus». Gli rispondo,e intanto mi chiedo se sia il caso di accettare il passaggio in macchina che mi offre.
 



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