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IL DIARIO

Pubblicato da: Categoria: IL RACCONTO

29
DIC
2017

La notte, insonne e silenziosa, com’è arrivata è scivolata via per lasciare il posto al nuovo giorno. Nuovo giorno a tutti gli effetti. Tra poco sarà Natale ma questa mattina mi verranno a prendere per portarmi a Villa Bianca, no, non mi sembra… forse Villa Del Benessere, ma non mi sembra nemmeno questo il suo nome. Forse Villa di riposo per anziani. Ma non credo siano così dichiaratamente espliciti, allora deve essere Villa San… sì, ma San chi? Chi è, se esiste, il santo protettore degli anziani, di questa categoria spesso sola e dimenticata, se non proprio evitata e che non serve nemmeno più per fare la baby sitter ai nipoti?
Tuttavia, al riguardo della terza età (sembra che dicendo così suoni meno diretto che vecchiaia), si è sempre parlato e si continua a parlare tanto, ma alla fine i disagi e le amarezze sono sempre le stesse, e sono solo e soltanto a carico di chi si trova in questa situazione.
Eppure sono stata giovane anch’io ed ero anche una bella ragazza. Aprii gli occhi su questo mondo sconosciuto novantadue anni fa. Mio padre era un ufficiale di lungo corso e mamma casalinga. Ero l’unica femmina di sette figli, per cui il mio destino era già stato deciso: rimanere a casa ad accudire i fratelli più piccoli, ma anche i più grandi che erano tali solo d’età e, quando si sono fatti anziani e non sono stati più autosufficienti, mi sono dovuta prendere cura anche dei genitori che ho portato a casa mia.
Erano altri tempi, naturalmente, e all’epoca a nessuno sarebbe venuto in mente di abbandonare un genitore, una nonna in una casa di riposo. E nemmeno le badanti esistevano ancora.
Ma si sa, in ogni fiaba c’è sempre una strega o il personaggio cattivo e, come ormai avevo intuito, ce n’era uno anche a casa mia: un padre padrone, autoritario e severo che si è sempre fatto rispettare e opposto a ogni mio desiderio di lasciarmi rincorrere i miei sogni. Ah, se solo fossi venuta al mondo qualche decennio più tardi, mi sarei trovata con il ’68, l’emancipazione femminile, le pari opportunità, le quote rosa, la festa delle donne… ma io sono nata molto prima, quando queste cose erano ancora di la da venire.
Questa mattina mi sono alzata controvoglia e mi sento già stanca. Sarà perché non ho chiuso occhio tutta la notte, sarà per colpa di questa benedetta artrosi e questa tosse che proprio non vogliono lasciarmi in pace. Sembra che si trovino bene in compagnia del mio cuore ballerino, delle mie gambe che hanno deciso di non volermi portare più da nessuna parte senza l’aiuto delle stampelle o della sedia a rotelle.
Da quando è morto mio marito, otto anni fa, vivo da sola e mi piacerebbe essere di tanto in tanto coccolata, circondata da un minimo d’affetto e attenzione, avere i figli e i nipoti vicino, ma purtroppo mi sono ormai rassegnata e anche convinta che per loro sono diventata solo un peso.
Dunque, tra non molto sarà Natale, ma tra un po’ verranno a prendermi per portarmi a Villa… vattelapesca come si chiama, e allora è meglio che dia un’ultima occhiata in giro per vedere se ho dimenticato qualcosa.
Da domani questa casa rimarrà chiusa e vuota, e difficilmente io ci farò più ritorno, e non so se mia figlia abbia capito quanto mi pesi, quanto mi dispiaccia lasciare queste pareti intrise delle voci dei miei cari, trasudanti di ricordi.
È ancora presto ed è bene che cerchi di distrarmi, di non pensarci. E allora rovisto e setaccio tutta la casa. apro armadi e cassetti. Sposto lenzuola e federe, prendo in mano sciarpe e abiti che lascerò qui perché dove mi portano non mi serviranno più, come del resto mi mancheranno tutti questi oggetti che vedo intorno a me: gingilli senza valore, ricordi, bomboniere, soprammobili, cornici, foto, vasi di porcellana, orologi, quadri e anche le mie adorate piante.
Sto per richiudere l’ultimo cassetto dell’armadio, quando tra palline di naftalina, sacchetti di lavanda profumata e sotto delle maglie di lana, scopro un oggetto che avevo dimenticato lì da chissà quanti anni. Sorrido, mentre una lacrima mi bagna il viso. Stavo per lasciare questa casa senza ricordarmi di lui, che invece doveva essere il primo a entrare nella mia valigia.
È il mio caro diario che ricevetti in regalo da mia madre quando ero ancora una ragazzina piena di vitalità e naturalmente speranzosa di riuscire a concretizzare tutti i miei sogni di adolescente. Giace qui, in questo cassetto, sotto una montagna d’indumenti, da tanto tempo. Geloso e silenzioso custode dei miei pensieri e di tutto ciò che gli ho confidato.
A lui ho rivelato tutto quello che a chiunque altro non avrei mai osato dire per pudore, per timidezza, per riservatezza e l’ho sempre tenuto ben nascosto in luoghi segreti, dove nessuno avrebbe mai potuto trovarlo. Nella soffitta della casa in cui sono nata e dove ho vissuto sino a quando mi sono sposata, avevo scoperto una nicchia tra le travi del tetto. Ci stava appena, ma era il posto ideale, dove nascondere quel diario, quella parte di me che aveva avuto il coraggio di raccontarsi e confidarsi su quelle pagine bianche.
Erano decisamente altri tempi quelli, e io li vivevo quasi in punta di piedi, facendo attenzione a non dare fastidio a nessuno e soprattutto a non far irritare mio padre.
Era da poco finita la guerra e la gente, sfinita ma sopravvissuta, aveva solo voglia di ricominciare la dove tutto si era interrotto. Chi era scampato ai bombardamenti, ai lutti, alle privazioni e alla fame, chi era tornato dal fronte o dalla prigionia ed era ancora in grado di poter fare qualcosa, aveva compreso molto bene, dopo aver trascorso anni terribili, quali fossero i veri valori della vita.
Il fatto di essere sopravvissuti e di avere avuto un’altra possibilità era da non sottovalutare, da non lasciarsi sfuggire, perché era un previlegio riservato a pochi. Dopo tutti i lutti che il conflitto si era portato via in un unico e devastante abbraccio mortale, chi era riuscito a scamparla, sentendosi un miracolato, aveva una gran voglia di lasciarsi alle spalle quel passato che gli aveva tolto tutto, e voleva ricominciare da zero, ma finalmente in pace.
Oggi invece i tempi sono profondamente cambiati, molte persone sembrano aver perso di vista i valori della vita. Tutti cercano in qualsiasi modo di emergere, apparire e sono disposti a tutto, pur di far parlare di se. E nessuno sì imbarazza più se la propria intimità viene messa in piazza, sventolata ai quattro venti e svelata nei suoi minuziosi particolari.
Sono una vecchia brontolona, lo so, ma certe riflessioni scaturiscono così, con naturalezza, guardandomi intorno e facendo il paragone tra la stagione dei ricordi e quella attuale, dove nessuno sembra più avere voglia di sognare.
Ma torniamo al mio caro diario che, benedetta artrosi, faccio fatica a stringere tra le mani. Innanzitutto dovrei chiedergli scusa per tutti questi lunghi anni di silenzio, nei quali l’ho lasciato solo ad aspettare con tanta pazienza che io tornassi a scrivere sulle sue pagine una parola, una frase da fargli custodire gelosamente.
Ho smesso di confidarmi con lui quando mi sono sposata con Gennaro, l’unico amore della mia vita, quello che mi ha fatto battere il cuore la prima volta che l’ho visto e che mi faceva arrossire quando mi sfiorava con lo sguardo. Quello che accettava e comprendeva i miei silenzi e sapeva asciugare le mie lacrime. Quello che è stato il padre dei due miei figli: Osvaldo e Marta. I suoi occhi erano di un marrone intenso e profondo, i capelli neri e ricci, il sorriso dolce e la voce suadente. Ed è stato soprattutto un buon padre.
Mi dichiarò il suo amore dopo aver parlato con mio padre, una sera al chiaro di luna, sull’aia, durante il ballo di fine mietitura. E la nostra storia è stata una favola meravigliosa che purtroppo si è interrotta otto anni fa, quando Gennaro si è addormentato accanto a me, tenendomi la mano e al mattino non si è più destato. Il suo cuore si è fermato, spento come una debole candela al soffio di un alito di vento.
Da allora io sono rimasta da sola qui, in questa casa, e mi sento come si può sentire una foglia in autunno, sospesa su un ramo in attesa dell’ultima folata di vento.
Non mi fa paura quest’attesa del momento che so non essere lontano, anzi, lo attendo quasi con sollievo, perché per me è molto più difficile rassegnarmi a vivere da sola, e adesso anche lontano da questa casa, e soprattutto dai miei ricordi.
Sono però serena, perché so che oltre la soglia dell’invisibile, dove non ci sarà più la noia dei giorni sempre uguali e trascorsi in solitudine, troverò Gennaro che mi sta aspettando. E questa certezza mi da la forza di accettare anche l’umiliazione di dover andare a trascorrere i miei ultimi giorni in un luogo a me sconosciuto, e dover lasciare la mia casa solo perché sono diventata vecchia. Dovermi trasferire in una casa di riposo, è proprio l’ultima cosa al mondo che mi sarei aspettata.
La vita non è stata generosa con me. Prima la severità di mio padre, poi le privazioni e tanto lavoro; mio figlio Osvaldo che a trent’anni si è trasferito negli Stati Uniti e da allora non è più tornato; mia figlia Marta che vive nella mia stessa citta ma che a causa del suo lavoro non ha mai un minuto di tempo per me, e poi la perdita di mio marito Gennaro…
Eravamo così felici per quelle vite che stavano crescendo dentro di me. Il nostro primo figlio fu un dono e una benedizione. Un soffio di gioia che durò però troppo poco. Voleva studiare le lingue, girare il mondo, e così in una notte di pioggia, da solo e nel silenzio dei nostri timori, se ne andato in America. Io, con tutte queste diavolerie moderne, che hanno nomi impronunciabili, non ci capisco niente, e allora so di lui soltanto attraverso sua sorella Marta che, quelle rare volte che riesce a dedicarmi qualche momento, mi dice di essersi messa in contatto con lui, che sta bene e mi manda i suoi saluti.
Otto anni fa se ne andato Gennaro e io sono rimasta qui da sola, in bilico su questa sottile linea di demarcazione, in attesa di doverla attraversare per poi proseguire verso l’ignoto infinito. Sono sola e la mia salute, o quello che ne resta, non mi permette più di rimanere in questa casa. Così almeno hanno sentenziato gli altri: mia figlia e suo marito.
Mi dispiace lasciare questa casa, che è stata costruita mattone su mattone con tanti sacrifici. Era il nostro piccolo regno, di Gennaro e mio: il nostro segreto era di lasciare il resto del mondo fuori dalla porta, qui dentro c’eravamo soltanto noi due. Era il nostro rifugio, il porto sicuro dove approdare dopo ogni tempesta, e quelle certo non sono mancate.
Queste stanze sanno intrise di noi, conoscono ogni nostra parola, ci hanno visto ridere e anche piangere. Hanno visto i nostri figli nascere, crescere e andare via, e hanno anche assistito al nostro sfiorire, al nostro diventare vecchi.
È l’ultimo giorno che trascorro qui dentro, tra queste mura, dove avverto ancora forte la presenza di mio marito. Negli armadi ci sono ancora i suoi abiti, le sue camicie stirate e ripiegate nei cassetti profumati di lavanda.
Nel salotto, di fronte alla televisione, c’è il divanetto a tre posti, dove mi sembra di scorgere ancora il nostro cagnolino Birillo, accoccolato accanto a mio marito. Birillo era il nostro bastardino, incrociato chissà con quale razza, che avevamo portato via dal canile e da quel momento aveva fatto di tutto per dimostrarci la sua gratitudine. Non avevamo certezze sulla sua età, ma di sicuro non era più cucciolo, quando lo portammo via di lì. Rimase con noi per undici anni, poi, in silenzio, senza un gemito, senza un ultimo saluto, ci lasciò anche lui. Di vecchiaia, ci disse il veterinario: “Se ne andato perché era vecchio”.
E adesso, caro diario, sono diventata vecchia anch’io e sono rimasta sola in questa casa, dove il tempo sembra essersi fermato.
Fuori è già sorto il sole, oltre la finestra, in lontananza, si intravedono ancora le luci accese dei lampioni, ma ormai è giorno fatto. Siamo quasi a Natale e mi sembra di vedere il mio Gennaro che indaffarato si da da fare per preparare l’albero e il presepe per i bambini. Ha continuato a farlo anche quando siamo rimasti soli. “Lo faccio per tradizione”, mi diceva.
Ogni ricorrenza mi faceva trovare un regalo e un bigliettino, che conservo ancora in questa scatola di legno, assieme alle lettere e alle fotografie.
Ho preparato poche cose, e solo quelle indispensabili da portare con me alla casa di riposo, ma questa vecchia scatola di legno, che Gennaro mi ha regalato il giorno del mio sessantesimo compleanno, non la posso e non la voglio lasciare qui. Racchiude tutti i miei ricordi, il mio mondo e quanto di più caro mi sia rimasto, e non posso separarmene.
In mezzo a tanta solitudine, il suo contenuto mi terrà compagnia. Dove mi stanno portando, starò in mezzo a gente che non conosco, accumunata a loro da un unico destino, quali invisibili passeggeri di un treno che deve fare solo un’ultima fermata.
Caro diario, questa mattina ti ho ritrovato, vecchio amico che hai saputo attendermi con tanta pazienza e per tanti anni. Avevo proprio bisogno di confidarmi con te, ora che non c’è più nessuno che abbia la pazienza di ascoltare i miei affanni. Adesso che ti ho ritrovato mi sento meno sola e sono contenta di aver consegnato alle tue pagine, ormai ingiallite, i segreti di tutta la mia vita e anche queste ultime parole. Se un giorno la mia mente dovesse perdersi nella nebbia dell’oblio, rimarrà comunque traccia del mio passaggio su questa terra. In fondo i miei sono ricordi che legano semplicemente il passato al presente e non c’è niente di male se un giorno qualcuno dovesse leggere il mio diario. È un filo sottile ma indissolubile che lega cielo e terra. Qui, questa mattina, ho scritto l’ultimo capitolo della mia vita e adesso sono serena, in attesa di quello che verrà.
Sto per riporre il diario nella scatola, quando dalle sue pagine cade un foglio piegato. Riconosco la scrittura di Gennaro. Come mai non l’ho mai visto prima. Non me lo ricordo. Mi tremano le mani.
Deve averlo messo qui lui, chissà quanto tempo fa. Con trepidazione lo apro e leggo:
“Cara Graziella. Cara e unica consolazione, compagna della mia vita, sto per lasciarti, lo so, lo sento, ma questo non è un addio, è solo un arrivederci e sono sicuro che ci rivedremo un giorno lassù… ne sono certo. Ti prego, però, dal profondo del tuo cuore, cerca di non far svanire il nostro amore, fai in modo che continui a esistere, anche senza di me. Non lasciare che si dissolva nel vento. Io continuerò a camminare al tuo fianco. Se di notte ti capiterà di guardare verso il cielo, io sarò la prima stella che vedrai brillare, e al mattino sarò il primo alito di vento che entrerà dalla tua finestra. Ti verrò a trovare nei tuoi sogni, perché voglio darti l’illusione di esserti ancora e sempre vicino. Oltre questa lunga notte, ne sono sicuro, ci ritroveremo in un’alba splendente e luminosa, e riprenderemo a percorrere assieme il cielo infinito, senza che il tempo possa più separarci. Con infinito amore e gratitudine, ti saluto e, naturalmente, ti auguro di trascorrere un buon Natale che, ne sono certo, lo passerai assieme ai nostri adorati figli. Il tuo Gennaro”.
Con chi trascorrerò questo Natale, non lo so. Probabilmente tra gente estranea e sola come me, ma ormai nulla ha più importanza. Mi asciugo le lacrime perché sento il rumore di una macchina che si sta fermando davanti al cancello.
Tra un po’ mia figlia suonerà alla porta, e allora ripongo il foglio, ma ricomincio a piangere. Non riesco a trattenere le lacrime. Per fortuna lo sento, è accanto a me. Sono sicura, Gennaro è qui con me, per accompagnarmi in questo viaggio, dove mi stanno portando, dove continuerò a vivere da sola nel suo ricordo.



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