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UNA VITA TUTTA IN SALITA

Pubblicato da: Categoria: IL RACCONTO

25
GEN
2018

Amare ed essere amati è un bene raro. Molte persone lo danno per scontato, pensano sia ordinaria amministrazione, ma non è così: è come vincere alla lotteria, un dono immenso. Con l’amore succede tutto e si supera tutto, ma di questo ce ne accorgiamo solo quando siamo rimaste sole, e allora ci aggrappiamo agli affetti più sinceri, più intimi, quelli incrollabili, quelli familiari.
Mi chiamo Anna, perfino il mio nome è banale, chi non conosce una che si chiama Anna? Ho compiuto da poco cinquantadue anni, una fase complicata della vita. Sono ancora giovane, ma non così tanto, non sono ancora vecchia ma un pochino sì, né carne né pesce, un momento di transizione prima del decadimento completo. A volte mi viene voglia di essere già vecchia, una signora anziana, senza più pretese, aspettative e tantomeno problemi.
Da giovane sono stata bella e ancora oggi, nonostante i miei anni e il corpo che sta cambiando, mantengo il mio peso forma. Un tempo sono stata molto bella ed è un peccato che non possa dire altrettanto del presente, ma quel che è peggio è il degrado fisico. Il campanello d’allarme è squillato quando la pelle del collo ha cominciato a cedere e le rughe sono diventate delle collane che vanno da un orecchio all’altro. Poi le labbra che si sono assottigliate, diventando una linea sottile. Ho compiuto gli anni qualche mese fa, ma in pochi se ne sono ricordati e mi hanno fatto gli auguri.
Io continuo a ritenermi ancora una persona gradevole, ma in realtà non lo sono più, perché ho iniziato a misurare la vecchiaia in base alla percentuale di pelle che supera l’esame dello specchio. Da giovane non avevo nessun problema a scoprirmi, a far intravvedere le mie forme, ma quando il seno ha cominciato a cedere ho iniziato a coprirlo, poi ho coperto anche le gambe, lasciando libere solo le braccia. Alla fine ho coperto anche quelle e ho capito che quando arrivi a coprirti tutta è finita la bella stagione (bella stagione intesa come metafora della vita, s’intende).
Anche se una mia amica dice che mi muovo ancora con disinvoltura, essere vecchia significa dormire poco, svegliarsi nel cuore della notte e alzarsi sempre troppo presto. E la bellezza che un tempo era il mio orgoglio, ora non esiste più e questo rende ancora tutto più doloroso. E poi quei due pezzi di vetro davanti agli occhi, il problema dei denti… e mi fermo qui.
Sono stata una ragazza madre, come mia madre che non è mai riuscita a sposarsi. Stava con uno che non era mio padre e che la trattava male. Sin da piccola ho cercato di proteggerla e lo faccio ancora, anche se ormai non più dagli uomini ma dalle sue malattie. Mia madre è sempre stata una donna forte, brusca, ma a modo suo anche affettuosa. Ha sempre lavorato e le sue mani le ho viste sempre in movimento. Una volta, tanti anni fa, mi sono svegliata di soprassalto e la lampada sul suo comodino era accesa. A quel tempo dormivamo assieme. L’indomani avevo una recita a scuola, avrei interpretato la parte di una principessina e una mia compagna mi aveva promesso che mi avrebbe prestato il vestito, ma all’ultimo momento mi aveva detto che la madre lo aveva dato alla figlia di una sua amica, e non riusciva ad averlo indietro. Avrò avuto undici o dodici anni ed ero tornata a casa con le lacrime agli occhi e decisa a non presentarmi l’indomani a scuola. Non potevo presentarmi alla recita senza l’abito. Mi ero addormentata piangendo e forse proprio per quello mi sono svegliata nel cuore della notte. Ho aperto gli occhi e ho visto mia madre seduta sul letto che stava cucendo. Lei non si accorse che mi ero svegliata e che la stavo osservando in silenzio. Era concentratissima, e sulle ginocchia aveva un tessuto finissimo e vaporoso, di colore azzurrino, una specie di tulle che però riconobbi subito: era una tenda della nostra stanza. In una mano teneva l’ago e così ho capito che stava trasformando la tenda nel vestito per la principessina della mia recita. Portava gli occhiali, era china sul letto, e non solo perché stava cucendo, ma per il peso della vita che la stava curvando sempre più. Ho chiuso gli occhi commossa e mi sono riaddormentata. Da quel momento ho capito che accanto a me non avevo solo una madre che si sacrificava per me, ma una donna che vegliava e lavorava con devozione per far felice sua figlia.
Passarono gli anni e una sera sono tornata a casa dal lavoro sperando di trovare la cena già pronta in tavola, invece trovai mia madre riversa per terra, proprio in cucina, accanto a una sedia.
Aveva gli occhi chiusi e dalla bocca le usciva un rivolo di saliva che colava da un lato delle labbra. Al pronto soccorso mi dissero che aveva avuto un’ischemia. Un dottore ha parlato di un ictus celebrale, poco cambiava. Da allora è rimasta invalida, con il lato sinistro del corpo quasi paralizzato e a malapena riesce a dire qualche parola. Adesso mia madre è così: trascorre le sue giornate seduta sulla poltrona in attesa che accada qualcosa, che vada qualcuno a trovarla e sperando che la vita le riservi ancora qualche emozione, un istante di serenità.
Io invece faccio l’estetista e lavoro in un salone di bellezza. Lavoro sodo, non mi tiro indietro davanti a niente. Ho imparato a fare di tutto, dalla manicure alla ceretta, dal trucco alla messa in piega, dal taglio dei capelli ai colpi di sole. Ma intanto invecchio e nonostante le medicine che prendo, continuo a fare delle cose insensate: se vado a prendere il cellulare e vedo gli occhiali, prendo quelli e una tazzina che avevo dimenticato in salotto e porto tutto in cucina, non ricordandomi più cosa stessi cercando sino a quando non vedo di nuovo il cellulare.
Qualcuno dice che le persone distratte sono molto intelligenti. Non è il mio caso. Se mi capita di fare un discorso, m’interrompo continuamente e poi finisco col parlare d’altro.
Mia madre sperava che continuassi a studiare, magari riuscissi anche a laurearmi, ma io ero di tutt’altro parere: volevo solo finire alla svelta quella noiosissima scuola dell’obbligo e iniziare a lavorare.
Terminata la scuola, un mese dopo avevo già cominciato a lavorare, mille lavoretti senza pretese ma che mi permettevano di rendermi autonoma. Dopo qualche anno sono andata a lavorare in un parrucchiere per signora. Mi piaceva, imparavo, e intanto stavo male: avevo delle vampate di calore e la nausea. Allora sono andata in farmacia e ho comprato un test di gravidanza. Mi sono chiusa nell’unico bagno che c’era in casa e ho atteso il risultato. Ecco che lo vedo davanti agli occhi: positivo. Cavolo, positivo! E dopo nove mesi è nata Katia. Ma adesso non so come avrei fatto a superare certi momenti brutti senza di lei. E nemmeno quelli belli. Tra noi donne riusciamo a non sentirci mai sole, ci facciamo compagnia, a differenza degli uomini.
Ma purtroppo, come delle sprovvedute, noi donne ci facciamo coinvolgere dalle loro parole ed è difficile, svegliandoci al mattino, aspettarci qualcosa in più da loro, perché sanno riservarci solo cocenti delusioni. E allora torniamo a sentirci usate, degli oggetti.
Un giorno Marcello, il mio principale d’allora, mi chiese di fermarmi in negozio oltre l’orario di lavoro. Disse che dovevamo fare una specie d’inventario, ma finimmo uno nelle braccia dell’altra e quando gli dissi che ero rimasta incinta e che volevo tenere il bambino, per tutta risposta disse che era un problema mio, che non aveva più bisogno di me, che lui era sposato e che certi discorsi non gli interessavano.
Ho cresciuto mia figlia da sola, con l’unico l’aiuto di mia madre e quando ha compiuto sedici anni e studiava come una pazza, ha cominciato a comportarsi in modo strano. Un giorno, mentre stava facendo i compiti, all’improvviso è scoppiata a piangere. Le sono andata vicino e lei si è aggrappata a me. Le ho chiesto cosa avesse, perché stesse piangendo, ma lei ha continuato a piangere senza darmi delle spiegazioni. Quella notte è venuta nel mio letto e abbiamo dormito assieme. La mattina dopo, come il solito, l’ho svegliata per mandarla a scuola ma mentre preparavo la colazione ha ricominciato a piangere. L’ho guardata e stupidamente ho pensato a qualche pena d’amore.
Quella sera, quando sono tornata dal lavoro, mia madre mi ha fatto un cenno con la mano e mi ha indicato Katia che stava dormendo sul divano. Lei non dormiva mai a quell’ora e tanto meno sul divano. L’ho svegliata e le ho chiesto se voleva cenare con noi, se voleva che le preparassi qualcosa in particolare. Mi ha risposto di no, che non aveva fame e che aveva solo bisogno di dormire. E non si è svegliata nemmeno quando l’ho portata in camera sua e l’ho messa a letto.
La mattina la sveglia ha suonato come sempre alle sei. Sono saltata giù dal letto, mi sono infilata nella doccia e poi ho comincio a prepararmi. Alle sette meno un quarto sono andata a svegliare mia figlia e quando è venuta in cucina, lei, con un filo di voce mi ha detto che quel giorno non voleva andare a scuola.
«Stai male?» Le ho chiesto.
«No, sto bene, solo che oggi non ho voglia di andarci». Ha risposto.
Aveva una faccia da far paura, ma per non drammatizzare né preoccuparla, le ho risposto che poteva rimanere a casa, così si sarebbe riposata e avrebbe anche assistito la nonna. Intanto mia madre ed io ci siamo guardate e abbiamo capito subito che stava succedendo qualcosa.
Sono uscita da casa preoccupata, cercando di dare la colpa allo studio, allo stress, a cui si stava sottoponendo per gli esami, a qualche cotta non corrisposta, e per tutta la giornata ho pensato che avrei dovuto portarla da un dottore, farla visitare da uno specialista. Sul lavoro, le ragazze mi hanno subissata di consigli. Chi diceva che sarei dovuta andare in farmacia a chiedere qualche pastiglia per calmarla, chi asseriva che erano solo dei malesseri passeggieri, dovuti all’età, chi mi suggeriva di lasciarla tranquilla, di non assillarla.
«È fin troppo tranquilla». Replicavo, ma loro insistevano che ero io quella troppo ansiosa.
Quel giorno non so quante volte l’ho chiamata al cellulare, e lei mi rispondeva che stava bene, che non dovevo preoccuparmi. Ma io preoccupata lo ero e mi chiedevo perché non fossi rimasta a casa, accanto a lei, invece di stare lì ad agitarmi tra messe in piega e cerette.
La sera, prima di andare a dormire, le ho preparato una camomilla e le ho fatto prendere anche un calmante, una dose blanda. Il giorno dopo si è alzata ed è andata a scuola, ma aveva ancora lo stesso sguardo spento del giorno prima.
Katia aveva tante amiche e di solito usciva con loro, ascoltava musica, andava a ballare, insomma si divertiva. Invece per tutto quel fine settimana non è voluta uscire, ed è rimasta chiusa in casa, con il telefonino spento.
Arrivata la domenica, volevo uscire con lei, farla distrarre, comprarle qualcosa nella speranza di vederla sorridere, ma lei per tutto il giorno è rimasta chiusa nella sua stanza.
Dopo qualche giorno, mentre stavo lavorando, è squillato il mio cellulare ed era mia madre. Ho risposto terrorizzata, chiedendole se stesse bene, e lei, con la sua voce stentata, ha biascicato che mi chiamava per Katia.
Ho lasciato tutto e sono corsa a casa. Quando sono entrata, mia madre mi ha detto che Katia se ne era andata, proprio così, che se ne era andata. Stando alle faticose spiegazioni di mia madre, Katia si era svegliata di malumore, un po’ arrabbiata, ma non aveva più quella faccia triste che ormai non cambiava più. Aveva detto qualcosa alla nonna, ma lei non aveva capito. Aveva rifatto il suo letto e se n’era andata.
Erano trascorse diverse ore e non avevo ancora sue notizie. L’ho chiamata sul cellulare, ma squillò in camera sua. Ho chiamato le sue amiche, la scuola, le vicine, niente. Allora sono uscita e sono andata a cercarla. Ricordo che mentre giravo come una pazza per le strade, pregavo e pensavo che quello che il giorno prima mi sembrava importante, ora non lo era più.
L’ho trovata ai giardini pubblici, seduta sull’erba, davanti a un monumento che stava raccogliendo dei fiori. Per non farla spaventare l’ho chiamata piano, ma lei non ha risposto. Allora mi sono avvicinata, le ho messo una mano sulla spalla e lei si è scansata. Si è alzata e si è allontanata. Quando finalmente sono riuscita ad afferrarla per un braccio, con uno strattone si è liberata ed è corsa via. È stata ritrovata dalla polizia qualche ora dopo che dormiva su una panchina.
Me l’hanno riportata a casa e quella notte stessa l’ho ricoverata.
Per un mese intero sono stata sempre accanto a lei. Osservavo il suo comportamento e con molta fatica cercavo di rassegnarmi alla diagnosi dei medici: grave depressione.
Quando è stata dimessa dall’ospedale, l’accompagnavo ogni due giorni a fare la terapia e rimanevo ad aspettarla. Trascorrevo intere notti chiedendomi cosa fosse questa strana malattia, in che cosa consistesse. Ne parlavo con tutti, ho fatto ricerche su internet e mi sono fatta un’infinità di domande: su come l’avessi cresciuta, dove avessi sbagliato e mi sono anche chiesta se fossi stata una brava mamma.
«No, non è colpa sua, signora. Qui lei non c’entra nulla, e nemmeno il modo com’è stata cresciuta, centra. È nata con questo problema». Mi hanno detto i medici, mentre chiedevano informazioni su di me, su suo padre, sulle malattie genetiche della mia famiglia.
Il fratello di una mia cliente, uno psicologo, ha cominciato a seguirla e non si faceva pagare. Quando andava da lui, due volte alla settimana, erano gli unici giorni che Katia usciva di casa. Qualche volta la portavo con me al salone di bellezza e se c’era poco da fare le ragazze le facevano compagnia, le davano delle riviste da sfogliare, la pettinavano, la truccavano. Cercavano di farla parlare, di farla sorridere.
Un giorno, improvvisamente, ha cominciato a dare in escandescenza e l’ho dovuta ricoverare un’altra volta in ospedale, e i medici hanno cambiato la diagnosi: da grave depressione a disturbo bipolare, e hanno detto che esistono quattro tipi di disturbi bipolari, ma che non erano ancora in grado di dirmi quale avesse colpito Katia.
Quando è stata dimessa, mi hanno consigliato di portarla da uno specialista bravo, e allora sono andata da uno a pagamento che la vedeva due volte al mese e le somministrava le cure.
Ma le medicine erano costose, costosissime, e non sapevo dove prendere i soldi. E allora sono andata in banca per chiedere un prestito, ma con la mia busta paga mi avrebbero dato una miseria e allora sono stata costretta a ipotecare la casa. Quante scartoffie, ma alla fine ho ottenuto il prestito e non voglio nemmeno immaginare a cosa sarei dovuta andare incontro se non avessi avuto la casa da ipotecare.
È trascorso un anno e mia figlia ha lasciato la scuola. Non l’ha finita, era all’ultimo anno ma ha dovuto abbandonarla. Adesso è seguita da un altro specialista, prende regolarmente i farmaci e i risultati si vedono, tanto che alle visite di controllo mi hanno detto che non durerà per sempre. Un giorno guarirà completamente e allora potrà riprendere la sua vita normale.
Per adesso ha ripreso lentamente a uscire con le amiche, qualche volta va a ballare, frequenta qualche ragazzo, ma in casa continua a comportarsi come una bambina.
«Stai dormendo mamma?»
«No, tesoro».
«Non dormire, per favore. Aspetta che mi addormenti prima io».
«Va bene Katia, buona notte».
«Non andare al lavoro domani, mamma».
«Devo andarci per forza Katia, e tu dovrai prenderti cura della nonna. Me lo prometti?»
«Si mamma. Va bene. Buona notte».
«Buona notte tesoro».
«Domenica andiamo al centro commerciale, mamma?»
«Va bene».
«Me lo prometti?»
«Certo, ma ora cerca di dormire. Buona notte Katia».
«Buona notte mamma».
Così finiscono le mie giornate. In questo consiste e si consuma la mia vita.



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