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UNA NOTTE DI PIOGGIA

Pubblicato da: Categoria: IL RACCONTO

22
FEB
2018

Mi piace la pioggia. Mi piace perché è minuta, leggera e silenziosa, mi piace per l’aspetto che da al paesaggio, per il mistero con cui circonda, al crepuscolo, i frettolosi passanti.
Avevo circa vent’anni, finito il liceo mi ero appena iscritto alla facoltà di medicina e tutto successe durante una serata trascorsa in solitudine. Non sapevo dove fossero andati a finire i miei amici e allora decisi di andare da solo in città.
Era appena calata la sera, tutto riluceva di pioggia e all’angolo di via Solferino, non ricordo con quale via secondaria e quasi buia questa s’incrociasse, vidi una ragazza che sembrava aspettare qualcuno. Indossava un giaccone beige sopra dei jeans neri, i capelli biondi le spuntavano da sotto un berretto di lana e le gocce di pioggia le bagnavano il viso.
Dopo qualche minuto, sferragliando e con la sua fila di facce anonime sedute dietro i vetri appannati, arrivò il tram e si andò a fermare quasi all’altezza della ragazza. Quando si aprirono le porte, un ragazzo fece un balzo e messo i piedi a terra si diresse verso di lei.
Tutto si svolse come in un sogno. Nell’attimo in cui il ragazzo toccò il marciapiede, la ragazza mosse verso di lui e subito si abbracciarono, poi, con un unico movimento si presero per mano e sotto la pioggia si avviarono verso l’interno di quella strada buia. Avevano un’andatura armoniosa, come una figura di un balletto classico. A un tratto, con i loro abiti bagnati, senza dirsi una parola, si fermarono davanti al primo portone che trovarono aperto e si baciarono. Io, che li stavo osservando da lontano, sentii il bacio di quella ragazza sulle mie labbra.
Forse è per via di quel ricordo che anni dopo ho voluto fare la stessa cosa. La stessa cosa per modo di dire, perché di tram non c’era nemmeno l’ombra e quando arrivai in città non c’era nessuno che mi stesse aspettando, però pioveva come quella sera. Ero indeciso sul da farsi: andare al cinema, continuare a passeggiare o andare a mangiare qualcosa. Fermo sul marciapiede, a sinistra avevo un cinema e a destra una grande birreria, tutta illuminata. Scelsi di entrare lì dentro, dove c’era una grande sala divisa in varie zone: quella dove si mangiava, quella dove si beveva, quella dove si giocava a carte e poi, in fondo, quella dove erano stati sistemati, sotto enormi riflettori, quattro biliardi.
Sopra una pedana stava suonando una specie d’orchestra: un violoncello, due violini e un sassofono, quattro musicisti con i loro smoking sdruciti, le scarpe scalcagnate e le facce smorte. All’interno del locale si diffondeva un tepore caldo e con la pioggia che sgocciolava sui vetri, dava un piacevole senso di tranquillità. I clienti, con le loro facce piene di rughe, appena entrati si fermavano sulla soglia per scrollarsi l’acqua dai soprabiti e dai cappotti, poi si dirigevano verso il bancone, ordinavano una birra o andavano a sedersi nel settore ristorante. Sembravano tutti clienti abituali perché chiamavano per nome i camerieri. Entravano per cenare, per consumare qualcosa al bar, per giocare a carte o per fare una partita a biliardo.
Mi ero seduto in fondo alla sala e scrutavo quelle facce anonime, sconosciute; seguivo i camerieri che, indossando lunghi grembiuli neri, camicie bianche e ridicoli papillon rossi, per evitare di far cadere i vassoi carichi di boccali di birra, erano costretti a fare lo slalom tra le sedie e i tavolini. Mi guardavo intorno, mi soffermavo a guardare le donne, le ragazze: molte erano in compagnia, qualcuna parlava con un’amica o con il suo ragazzo, altre erano da sole e avevano la testa immersa in remoti pensieri o si stavano slogando i pollici sulla tastiera dei loro telefonini. Trovai quel luogo surreale ma piacevole e m’immersi beatamente in quell’atmosfera da oktoberfest.
Ed ecco che quella sera accadde quello che avevo sempre sperato potesse accadere, senza per altro avere il coraggio di crederci. A un tavolo, seduta di fronte a me, sola, c’era una ragazza con i suoi jeans strappati e un giaccone appoggiato alla spalliera della sedia. In testa un cappellino rosso, come i suoi capelli.
Se sapessi disegnare potrei ancora tratteggiare il suo viso, i suoi occhi, la sua figura. Aveva delle leggere lentiggini sulle guance e sul collo e quando rideva il suo naso si arricciava. Aveva un sorriso dolce, accattivante, ben diverso da quello provocante della mia ex ragazza che mi aveva lasciato perché, diceva, ero troppo serioso e non pensavo che a studiare, mentre lei aveva bisogno di un uomo che la facesse ridere. Quante donne, le chiesi, si sono lasciate abbindolare da marpioni che sapevano farle ridere e poi si sono trovate a dover piangere per l’errore commesso? Ma è andata com’è andata, e forse è stato meglio così.
La ragazza mi guardava e io la guardavo e sorridevo. Abbiamo continuato a guardarci e a sorriderci per un pezzo, finché mi sembrò di cogliere nei suoi occhi una domanda: perché non andavo a sedermi al suo tavolo, accanto a lei. Ho esitato, poi mi sono deciso e ho chiamato il cameriere e, pagato la mia consumazione, ho attraversato goffamente lo spazio che ci separava e mi sono andato a sedere di fronte a lei.
«Permetti?» Chiesi.
Mi rispose ancora con gli occhi. Mi disse di si con gli occhi.
«Buona serata. Come va?» Domandai.
«Mi sembrava ti stessi annoiando». Rispose, appena sistemato sulla sedia.
Quello che ci siamo detti dopo non lo ricordo. Ma so che lì dentro ho trascorso una delle ore più felici, più intriganti della mia vita. Il quartetto continuava a suonare musica americana, fuori continuava a piovere e noi continuammo a parlare. Non sapevamo nulla l’uno dell’altra, ma io speravo… anche se non osavo farmi illusioni.
Nel cinema vicino lo spettacolo doveva essere evidentemente terminato, perché a un tratto molte persone entrarono in birreria e si vennero a sistemare intorno al nostro tavolo.
«Se ce ne andassimo?» Mormorò lei con semplicità, quando il frastuono di voci diventò insopportabile. Uscimmo. Fuori continuava a cadere una pioggerella fine, che però non ci dava fastidio.
Ci incamminammo e fatti pochi passi lei si mise sottobraccio.
«Dove abiti?» Chiese.
«Io studio all’università qui in città, ma vivo in un paesino, in provincia». Le risposi.
«Io abito qui vicino. Se vuoi, possiamo andare a casa mia, solo che non dovremmo fare rumore. La signora che mi ha dato l’appartamentino mi caccerebbe se ci vedesse salire assieme a quest’ora, o se solo lo sospettasse».
Siamo passati davanti al cinema, a delle saracinesche abbassate, a delle vetrine spente e dopo aver superato via Solferino ho preso la ragazza per mano e l’ho condotta in quella strada tranquilla e buia, e giunti davanti a quel portone ho cercato di baciarla. Ma a quel punto mi ha detto:
«Aspetta che arriviamo a casa mia…» Tutto qui, a raccontarlo ora mi accorgo che si tratta di una cosa da nulla, una banalità, ma io quella serata la ricordo ancora con eccitazione.
Abbiamo continuato a camminare sotto la pioggia, incuranti che i nostri vestiti si fossero inzuppati e diventati fradici. Ci siamo fermati sotto casa sua, lei ha preso le chiavi dalla borsetta, si è messa un dito sulla bocca e mi ha balbettato all’orecchio:
«Non facciamo rumore, stai attento ai gradini…» Poi mi ha preso per mano e mi ha guidato su per le scale. Abbiamo attraversato un corridoio buio, da sotto una porta filtrava una luce e lei mi ha fatto cenno di fare piano, di non parlare.
«Sst…» Mi sussurrò, passando davanti all’appartamento dell’affittacamere.
Il suo piccolo monolocale era lì accanto. Aprì la porta e fui investito da un odore indefinibile: forse c’era qualcosa che ristagnava nell’aria, forse qualcosa era rimasto sui fornelli o forse quello era solo l’odore della miseria, della povertà. Appena entrati, mi lasciò la mano e andò ad accendere la piccola lampada che teneva sul comodino e poi sparì dietro una porta bianca.
«Torno subito…» Mi disse.
Mentre aspettavo, mi guardavo attorno e mi stupii di vedere tutto quel disordine, quel caos che regnava in quella casa: posate, piatti di carta, due bottiglie di plastica vuote lasciate sul tavolo, uno specchio da quattro soldi coperto d’impronte e post-it gialli appeso a una vecchia cassettiera; indumenti femminili sparsi per terra e sul letto. Il letto sfatto.
È tutto qui ma non è tutto, perché quello che è successo in seguito, sebbene non avesse niente di straordinario, per me e per la prima volta, mi ha fatto provare una sensazione straordinaria, nuova, come se quel momento lo avessi vissuto in maniera surreale, diverso dalla mia piatta vita di sempre. Ero euforico, eccitato, fuori di me per la gioia di trovarmi lì, in quella situazione che si era venuta a creare.
Non sapevo chi fosse, non sapevo come si chiamasse, né sapevo da dove venisse. Intuivo confusamente il tipo di vita che faceva, e mi convinsi di non essere stato il primo a salire in punta di piedi su quelle vecchie scale scricchiolanti, a essere sgusciato furtivamente oltre la porta chiusa della padrona di casa.
Ma che importanza poteva avere? Lei era una ragazza carina e io un uomo eccitato. Eravamo noi due soli, due esseri che si erano incontrati per caso, che si erano guardati e avevano sorriso, che si erano piaciuti, che si erano voluti e cercati. Eravamo due persone che si amavano, due esseri che bisbigliavano frasi senza senso che ora non ricordo più. Ci accarezzammo, ci baciammo, in quella camera buia, su quel letto sfatto, con la padrona di casa che dormiva o vegliava oltre una sottilissima parete. Fuori continuava a piovere. Si sentiva la pioggia cadere, ogni tanto giungeva il rombo di un tuono lontano, il rumore di passi sul selciato bagnato; la voce di qualche coppia che passava frettolosamente sotto la finestra, nell’aria umida.
A un certo punto mi presi la testa fra le mani e mi misi a ridere. Non sapevo perché, come non me lo so spiegare nemmeno adesso. Ridevo di gioia, di allegria, di quell’allegria senza senso né pudore che prende i giovani o gli stolti. Ridevo e basta.
Era una ragazza qualsiasi, semplice e carina e mi faceva ridere.
Sulle prime, in birreria, l’avevo presa per una donna che aspettava qualcuno, magari i genitori, il fratello o il suo ragazzo. Poi pensai che fosse sposata e che aspettasse il marito. Alla fine capii che era sola e che aspettava soltanto di trascorrere la serata nel miglior modo possibile, magari in mia compagnia.
Lei mi cingeva con le sue braccia candide il torace e mi teneva stretto. Era tranquilla, serena. Mi accarezzava il viso e la fronte, mi sussurrava qualcosa che io non riuscivo a capire perché si attardava con le mani sulle mie orecchie.
Avrei voluto… ma non riesco a esprimermi, a spiegarmi nemmeno ora. Avrei voluto che quella notte non finisse mai, che tutto il resto rimanesse fuori, dietro i vetri della finestra appannata, dietro la parete che ci separava dalla padrona di casa, in quel momento probabilmente immersa nel sonno.
In quella notte e in quella stanza regnava il mistero. Regnava l’amore rubato da due esseri soli e sconosciuti. E noi eravamo quei due esseri sconosciuti. Due esseri che non si conoscevano, che non avevano niente in comune, nessun interesse reciproco: eravamo solo due persone che il caso, o forse la noia reciproca, aveva riunito per un attimo, in una notte piovosa.
E adesso penso che sia stata lei la prima donna che abbia amato veramente, perché per qualche ora mi ha dato tutta se stessa e io ho avuto la sensazione di percorrere l’infinito. Eravamo nello stesso letto, nudi, pelle contro pelle, con le porte e le finestre chiuse e sembrava che al mondo ci fossimo soltanto noi. Non esisteva nessun altro, al di fuori di noi.
Ci siamo addormentati abbracciati e all’alba, quando mi sono svegliato, lei dormiva tranquillamente accanto a me. Respirava calma, aveva il seno e le gambe scoperte e i capelli sparsi sul cuscino.
Mi sono alzato cercando di fare il meno rumore possibile e mi sono rivestito. La guardavo e a un tratto sono stato preso dall’angoscia, non sapevo cosa fare, come comportarmi. Dovevo svegliarla? Volevo andare via e pensai di lasciarle dei soldi.
Le davo le spalle e vergognandomi un po’ ho lasciato delle banconote sul tavolo. Quando mi sono voltato, lei mi stava guardando e disse piano:
«Tornerai?»
«Se vuoi, ci possiamo vedere ancora». Risposi.
«Certo che lo voglio. Ma tu lo vuoi?» Tornò a chiedermi.
Poi, senza attendere la mia risposta, continuò:
«Scendendo, bada a non fare rumore, sveglieresti la padrona di casa, e sai come andrebbe a finire».
Che storia stupida, vero? Mi è capitata quando avevo vent’anni o poco più, ma per quella ragazza, per la prima volta, ho provato l’amore vero. Per la prima volta e forse l’ultima, ho provato della tenerezza e del trasporto incondizionato verso una donna. Me ne rendo conto soltanto adesso, dopo tanti anni, perché quando penso a lei, a quella ragazza con il cappellino e i capelli rossi, mi sento ancora avvampare.
Ma per lei, cosa sarò stato io? Quella notte come l’avrà vissuta lei. Come una delle tante notti trascorse con uno sconosciuto? Per lei sarò stato una meteora, uno dei tanti? Si ricorderà ancora di me, di quel ragazzo conosciuto in birreria, che le sorrideva, che è salito con lei a casa sua e ha trascorso la notte con lei?
Sono tornato ancora in via Solferino, il cinema non c’è più, al suo posto è sorto un supermercato, ma la birreria sì, quella esiste ancora e ci sono entrato. Mi è parsa sempre uguale, soltanto un po’ più illuminata e la sala ancora più spaziosa, almeno così mi è sembrato: devono averla ampliata, verso l’interno. L’orchestrina non c’è più e al suo posto sono stati appesi alle pareti dei televisori che trasmettono interrottamente videoclip di musica leggera. Ma in definitiva il locale è sempre lo stesso.
Guardavo tutte le donne sole con una specie di cupidigia; non ce n’era nessuna che assomigliasse, nemmeno vagamente a quella ragazza di tanti anni prima. Ma non aveva importanza, avevo il desiderio di rivivere la stessa esperienza di allora e ho scelto una biondina dal sorriso vago e lo sguardo assonnato. Non mi ha portato a casa sua, ma in un alberghetto poco distante. Si è spogliata con naturalezza, con professionalità direi, tanto che ho provato quasi un senso di nausea e stavo per darle dei soldi e andare via. Poi mi sono lasciato coinvolgere.
Era la prima volta che tradivo mia moglie e lo feci con accanimento, con la smania e il disperato desiderio di riprovare le stesse emozioni di un tempo. Ma tutto si è svolto così frettolosamente, con tale freddezza da parte sua che è stato tutto diverso. Tutto inutile.
Quella prima volta è stata e resterà irripetibile. È stata una pozione, un filtro magico? Non lo so. Non ha importanza, perché non voglio guarire e non voglio nemmeno sentirmi dire che sono malato. Non voglio curarmi… anche se adesso sono un medico e potrei curarmi da solo.
Forse lì dentro, in quella birreria, ci sono tornato per cercare la stessa avventura vissuta in passato, anche se ormai tutto è svanito e tutto è cambiato. Ed io sono ormai adulto e sposato.



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