MENU

Spigolature martinesi/IL CAPOSTAZIONE

Pubblicato da: Categoria: IL RACCONTO

16
MAR
2018

Una piazzetta, la saracinesca al posto della porta in anticorodal, una scritta sulla parete accanto e poi il silenzio senza fine, in  questa fotografia rubata al tempo: rumore di passi sul basolato, voci di donne, finestre che si aprono, un bimbo piange, Vito alza la saracinesca, profumo di pane appena sfornato, cinquant’anni fa quando…

Quando arrivò il telegramma con la notizia che Michele aveva vinto il concorso di capostazione nelle Ferrovie dello Stato quasi gli prendeva un colpo. Si lasciò cadere sulla poltroncina del soggiorno, sbuffando per liberarsi dal peso dell’emozione. Non chiuse occhio tutta la notte e alle prime luci dell’alba lasciò il letto e se ne andò verso la bottega passo passo, respirando a pieni polmoni l’aria dolce della primavera in arrivo. A quell’ora le case affacciate sullo slargo di Via Nuova, con i portoncini gialli e le finestre ancora chiuse, gli sembrarono più bianche del solito, in una luce di una trasparenza che non ricordava di avere mai vista.
Il fracasso della saracinesca, che pure aveva cercato di sollevare con tutta la cautela possibile, riempì d’improvviso il silenzio della strada e dei vichi addormentati. Una donnetta sporse il capo tra i gerani della finestra per capire quel fracasso e per chiedersi perché Vituccio aprisse la bottega a quell’ora. Lui salutò con un cenno del capo e aspettò che gli facesse qualche domanda, ma quella non disse niente e si ritirò in fretta dietro le tendine.
Intanto, pensava che nella mattinata tutto il vicinato gli avrebbe certamente chiesto il perché di quell’apertura così di buon’ora. Si dette, perciò, da fare a trafficare per la bottega nelle operazioni di tutte le mattine. Con un grosso panno lucidò il marmo del bancone; rimise in ordine di grandezza i misurini dell’olio; spolverò accuratamente il piatto della bilancia a sfera Berkel, rossa; dette una sistemata agli insaccati appesi ad un’asticella; cambiò l’acqua nella vasca dove teneva a mollo il baccalà; rimboccò il collo ai sacchi dei legumi. Finalmente portò la sedia impagliata, priva della spalliera, fuori accanto alla porta, si sedette accavallando le gambe e si mise in attesa, all’aria che cominciava a intiepidirsi. Arrivò il garzone del fornaio col carretto a pedali per la consegna del pane ancora caldo. S’alzò, andò a riporlo in ordine nello stipo e tornò a sedersi fuori.
Ma quella mattina le clienti, che di solito erano mattiniere come lui, tardavano stranamente a farsi vedere; e, quando col sole già alto cominciarono ad arrivare con la borsa della spesa al braccio, non accadde niente di quello che si aspettava. Non una che gli chiedesse del figlio e del concorso; eppure sapevano tutte già da un po’ di tempo che ormai la notizia sarebbe arrivata da un giorno all’altro; nemmeno Comasia, che era la più curiosa e pettegola di tutto il vicinato. Pareva che proprio quella mattina avessero tutte una gran fretta; compravano il solito del giorno e andavano via senza dargli la possibilità di dare le risposte che nel frattempo s’era preparate. Qualcosa, comunque, bisogna fare, pensò. Così, quando passò Nardino, il figlio più piccolo del calzolaio, lo chiamò e, alzando la voce in modo che potesse sentirlo bene tutto il vicinato, lo tenne fermo per un braccio e “Va’ a casa da mio figlio Michele” disse e, dando una rapida occhiata tutt’in giro, ripetette quasi sillabando: “Michele il capostazione. Hai capito?” e raccomandò: “Dì: ti vuole tuo padre. Corri!”
Nardino infilò di volata Strada La Scivolata, eseguì rapidamente l’incarico ed in un battibaleno fu di ritorno con la lingua penzoloni e la risposta. Vituccio, allora, gli dette i due cioccolatini Ferrero promessi ed attese. Qualcosa doveva accadere! Ma continuò a non accadere niente per tutta la mattina. Soltanto verso mezzogiorno Michele andò da Osvaldo nella sala da barba in Piazza della Cipolla per la solita partitella a carte e per raccontargli del fatto del telegramma; Osvaldo lo disse alla moglie, la moglie lo disse a tutto il vicinato e venne subito a saperlo pure Comasia che tornò alla bottega e “Insomma, si può sapere dove l’hanno mandato?” domandò contrariata e Vituccio che stava abbassando la saracinesca borbottò stizzito: “ Lontano, assai lontano”.
                Ma il pomeriggio, quando tornò a riaprire la bottega, fu tutto un va’ e vieni di gente di ritorno dalla campagna. Fu costretto, allora, a ripetere un sacco di volte le stesse cose: che il telegramma gliel’aveva portato la sera tardi il postino, che per aprirlo gli tremavano le mani, che stava scritto il fatto del concorso tutto a stampatello. Non un solo momento di stanchezza; rispondeva a tutti, ricordando ogni volta particolari che aveva dimenticato di riferire agli altri. Stette tutto il tempo dietro il bancone, con i gomiti poggiati sul piano di marmo, ogni tanto incrociava le braccia, abbassava gli occhi e aggrottava la fronte. Tra una risposta e l’altra, stringeva le labbra e le faceva schioccare per riprendere fiato. A una cert’ora arrivò pure la moglie, Marietta, e per tutta Via Nuova non si capì niente fino alla sera, quando, stanco e finalmente soddisfatto, abbassò la saracinesca, salutò tutti e insieme con Marietta prese vico La Favorita, con le mani raccolte una nell’altra dietro la schiena.
              E così Michele partì; partì e andò alla Stazione di Como. Da quel giorno Vituccio si mise in attesa delle lettere del figlio e provava ad immaginarlo con la divisa nera del capostazione, in mano la paletta rossa e verde, il fischietto tra le labbra ed in testa il berretto rosso con la visiera nera. Non poteva fare a meno di ricordare quanto gli fossero costati di soldi e tribolazioni gli studi e il diploma di maestro per vederlo sistemato. S’era dannata l’anima per trovare la rimedia. Adesso poteva stare finalmente senza pensieri, ché su questa terra prima o poi ognuno trova la strada. Gli rimaneva soltanto da accasare la figlia più piccola, Melina, ché la grande, Totonna, era già maritata.
               Da Como Michele gli scriveva un paio di volte al mese e puntuale passava dalla bottega lo zio prete, don Vito, a leggere le lettere con gli occhi stretti dietro le spesse lenti e col naso incollato al foglio. Si faceva vedere ogni tanto pure lo zio Biagio che, quando Michele era piccolo, avrebbe voluto adottarlo per lasciargli case vigne e soldi, ma Vituccio e Marietta avevano detto no e allora il fratello s’era rivolto alle Monache Grandi per trovare un’orfanella. Qualche volta passava anche il barbiere Osvaldo per avere notizie, e ad informare di tutto il vicinato pensava Comasia.
               Conservava le lettere nel cassetto del bancone, infiocchettate  con un nastrino; le rileggeva una due tre volte, le sapeva a memoria, se le ripeteva parola per parola ogni domenica mattina quando, dopo la messa nella chiesa dell’Ospedale, andava con la bicicletta alla vigna di Pisciannotte; o mentre tornava a casa con la damigiana sul portabagagli dietro la sella, col vino leggero e frizzantino che piaceva al figlio e che aveva messo da parte al fresco nel trullo per il suo primo ritorno a casa. Si provava, allora, ad immaginare la Stazione di Como, i treni che arrivavano e partivano, il figlio col berretto rosso sul capo e la paletta in mano, e quel paese che chi sa com’era fatto. Gli sarebbe piaciuto andarvi almeno una volta, per vedere Michele che faceva partire i treni con un fischio che si doveva sentire da lontano. Prima o poi, diceva, avrebbe accettato l’invito che leggeva in ogni lettera, ma tardava a decidersi, anche se don Vito e Marietta gli dicevano: “Vai! Tanto alla bottega pensiamo noi.”
               Cominciarono, così, a parlarne sempre più spesso, finché, quando finì la vendemmia a Pisciannotte, decise di partire, dopo I Morti, e andò alla Stazione di Fasano per sapere come si doveva fare. Allora, preparò dietro il bancone una grande scatola di cartone dove, a mano a mano che se ne ricordava, metteva le cose da portare al figlio: le noci di quell’anno, le fave bianche, i fichi secchi, la ricotta forte di masseria, il miele, le frise, i taralli zuccherati, il pecorino, insomma tutto ciò che Michele non poteva trovare da quelle parti. Non sapeva cos’altro mettere. Alla fine si ricordò dell’olio e del vino e preparò altri due cartoni. Per la spedizione dei tre colli seguì le istruzioni che Michele gli aveva scritte nell’ultima lettera; imballò tutto con cura e si fece accompagnare a Fasano-scalo dal genero Ciccillo che era fuochista.
                Mentre saliva sul Lecce-Milano ricordò che l’ultima volta che era salito su un treno era stato al tempo del servizio militare. Si sistemò nello scompartimento vicino al finestrino e passò la nottata a pensare. Chiuse gli occhi solo alle prime luci del giorno e, quando li riaprì, stava già nella stazione di Milano. Cambiò treno, salì sul Milano-Chiasso, come gli aveva mandato a dire Michele, e sotto mezzogiorno arrivò a Como. Prima di scendere volle guardare fuori dal finestrino: il figlio era sul marciapiedi col berretto rosso in testa, la paletta stretta con la mano destra e il fischietto tra il pollice e l’indice della sinistra.
              Appena entrato in servizio, Michele era stato assegnato all’Ufficio Movimento Merci e fino a quel giorno non aveva fatto partire un solo treno, contrariamente a quello che credeva Vituccio; ma, all’arrivo del Milano-Chiasso su cui viaggiava il padre, aveva pensato di prendere il posto di Angelo ch’era al Movimento Treni. Così, dopo che tutti i controllori avevano chiuse le porte delle carrozze, alzò la testa, guardò verso il macchinista che si era sporto dal locomitore, gonfiò il petto e con tutto il fiato che aveva soffiò nel fischietto che luccicava al sole. Ne uscì un trillo acuto, lacerante, lunghissimo, che si sentì per tutta la stazione; alzò la paletta muovendola come una bandierina ed il convoglio riprese pian piano la corsa; aspettò che fosse lontano e andò finalmente incontro al padre.
                In tutti quei giorni Vituccio ogni mattina usciva a fare due passi per il lungolago, a guardare le barche con le vele colorate, le case e le chiese col campanile tra il verde dei monti; poi, quando era ora, raggiungeva la Stazione e andava su e giù per il marciapiedi del primo binario, con le mani raccolte dietro la schiena, guardando di sottecchi verso l’ufficio del figlio. Appena giungeva il fischio di un treno in arrivo, Michele prendeva berretto, paletta e fischietto di Angelo ed usciva con l’aria seria del capostazione. Lui, confuso tra la gente raccolta presso l’edicola dei giornali osservava attentamente ogni movimento col cuore che gli batteva forte.
                Dopo una settimana Vituccio tornò a Martina. Mentre il treno lo riportava a Fasano seduto accanto al finestrino, guardava scorrere veloci le lunghe file di alberi senza nome e pensava alle vigne delle sue parti, ai muri a secco, ai trulli; alla sua casa nella Torre di Guardia di via Calvino, tutt’uno con la Porta Stracciata; alla Strada La Scivolata, stretta e tortuosa, che avrebbe ripreso a percorrere ogni giorno, alle prime luci dell’alba, fino alla bottega nello slargo di Via Nuova difronte alle case incalcinate e alle finestre piene di gerani; e per ultimo alle comari del vicinato che gli avrebbero chiesto sicuramente del figlio capostazione, come se la passava, che diceva, se si ricordava ogni tanto di Martina e se mandava a tutti i saluti.
 



Lascia un commento

Nome: (obbligatorio)


Email: (obbligatoria - non sarà pubblica)


Sito:
Commento: (obbligatorio)

Invia commento


ATTENZIONE: il tuo commento verrà prima moderato e se ritenuto idoneo sarà pubblicato

Sponsor