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TANTE COSE ERANO STATE CHIARTE MA…

Pubblicato da: Categoria: IL RACCONTO

17
APR
2018

Quando ero piccolo, sentii i miei genitori parlare di un loro conoscente, un professore che aveva lasciato la moglie per mettersi con una ragazzina.
Era una di quelle occasioni in cui mio padre e mia madre parlavano liberamente, convinti che io non li stessi a sentire, o se ascoltavo non capissi quello che stavano dicendo. Mia madre sosteneva che a una coppia poteva anche capitare di separarsi. Non era la prima volta e non sarebbe stata l’ultima, ma era un’indecenza vedere quell’uomo amoreggiare con una ragazzina.
Invece quella conversazione mi colpì moltissimo: un uomo di oltre cinquant’anni che si era fidanzato con una ragazza di venti. Conoscevo quell’uomo, era venuto anche a casa nostra. Era un tipo altezzoso e pieno di sé. Un vecchio, più vecchio dei miei genitori che si era messo con una studentessa. E non saprei spiegarne il motivo, ma mi era antipatico e non lo potevo soffrire.
Tre anni dopo mio padre lasciò mia madre e la nostra casa. Tutto si svolse in modo garbato, forse da parte loro anche indolore, ma non per me che quella separazione la vissi in modo traumatico.
Una sera vennero in camera mia e mi dissero che si stavano separando, che papà andava via; che a volte poteva capitare, anche se si volevano ancora bene, di doversi lasciare.
«Ma vuol dire che state divorziando?» Chiesi, preso dalla paura di rimanere solo. Da sempre, quando sentivo quella parola: divorzio, m’inquietavo, anche se ritenevo che fosse una questione che riguardava altri, non certo la mia famiglia. Non i miei genitori.
Loro fecero di tutto per spiegarmi che per me non sarebbe cambiato nulla. Papà andava a vivere da solo in un’altra casa e io sarei rimasto con mia madre. Mi dissero che si separavano perché avevano bisogno di una pausa di riflessione. Ma la differenza tra divorzio, separazione o pausa di riflessione, allora non riuscii a coglierla, anche se loro cercarono di spiegarmelo, insistendo che per me non sarebbe cambiato nulla. Era chiaro, invece, che mi stavano dicendo un sacco di frottole e che niente sarebbe stato più come prima. Mio padre se ne stava andando di casa, come aveva fatto quel loro conoscente, ma per loro era tutto normale.
Da quel momento provai rabbia e cominciai a nutrire una sorda ostilità nei confronti di mio padre. Ma anche verso mia madre, per ragioni diverse, ma altrettanto sostanziali. La vedevo triste, a volte piangeva e allora mi chiedevo perché non avesse cercato di trattenerlo, non lo avesse fatto ragionare? Mio padre se n’era andato lasciandoci soli, e lei sembrava quasi rassegnata. Invece avrebbe dovuto arrabbiarsi, metterlo alle strette, fargliela pagare.
Cominciai a considerare che mio padre se ne fosse andando perché aveva un'altra donna, più giovane di mia madre, ed era del tutto irrilevante che quando andavo a casa sua non trovassi nessuna traccia di quella presenza femminile, perché la ritenevo solo una cautela di mio padre per non farsi scoprire e la rabbia e il rancore nei suoi confronti non cessarono mai.
Gli anni che seguirono trascorsero in modo normale o quasi. Andavo a trovarlo di rado e lui non venne mai a casa nostra. Se mi veniva a prendere o aveva bisogno di qualcosa, citofonava, mentre, se doveva parlare con mia madre si limitava a telefonate sbrigative.
Poi un giorno, ero appena rientrato dall’università, mia madre disse che mio padre si trovava in ospedale perché aveva avuto un malore, ma non mi dovevo preoccupare perché i medici lo stavano curando e lo tenevano sotto controllo.
Frequentavo il primo anno d’ingegneria e la cosa non mi turbò più di tanto. Pensai a un malore passeggero, acciacchi di vecchiaia, nulla di più. Però le cose non andarono come aveva previsto mia madre, e mio padre dovette sottoporsi a un delicato intervento chirurgico. Dopo l’operazione rimase giorni e giorni in ospedale, e io con lui ad assisterlo e fargli compagnia.
La prima notte, sebbene ancora intorpidito dall’anestesia, la trascorse agitato: sonnecchiava, si lamentava, chiedeva sempre dell’acqua. Apriva gli occhi e se non mi vedeva girava la testa e mi cercava. Voleva che stessi sempre accanto a lui.
Se non fosse stato per la barba incolta e ormai lunga, per quelle rughe sulla fronte, intorno agli occhi e alle labbra, si poteva credere che nel letto ci fosse un ragazzino in preda alla paura. Teneva gli occhi sbarrati e si guardava intorno, mi cercava e poi li richiudeva. Forse riprendeva a dormire o forse tornava a qualche suo remoto pensiero.
In quei giorni di degenza, gli restai sempre vicino. Giorno e notte si confondevano con la sua continua e irrequieta sofferenza. Respirava aiutato dall’ossigeno, parlava a fatica e sempre sottovoce. Non aveva la forza di reagire. Non se la sentiva di alzarsi, non guardava la televisione e parlava pochissimo. Quando nella sua stanza entravano i medici, seguiti dagli infermieri che portavano apparecchiature piene di cavi e ventose, sì inquietava. Gli attaccavano elettrodi sul petto, lo costringevano a trattenere il respiro, gli facevano qualche domanda, esaminavano con aria annoiata i fogli che uscivano dalla macchina, gli misuravano la febbre e la pressione arteriosa e se ne andavano. Mio padre aspettava che fossero usciti, che richiudessero la porta alle loro spalle e poi, con le labbra tirate in uno stentato sorriso, mi faceva un cenno affermativo, come a volermi rassicurare che tutto stava andando per il meglio.
«Sono visite di controllo, di routine, per vedere come sta andando il decorso post operatorio. Andrà tutto bene sai, perché mi hanno assicurato che non c’è niente di cui mi debba preoccupare». Mi diceva, appena rientravo nella stanza.
Le sue parole dicevano una cosa ma il suo volto, la sua espressione e la sua voce facevano capire ben altro e, com’era facile prevedere, non andò tutto bene. Infatti, dopo tre settimane fu trasferito in una clinica e lì la degenza si protrasse per altri interminabili giorni. Nella nuova casa di cura ripeterono gli esami clinici e i medici, come quelli dell’ospedale, si strinsero nelle spalle.
Mia madre non vene mai a trovarlo. Era sola, non aveva vincoli, ma non venne mai in clinica, si limitava, quando rientravo, a chiedere a me notizie. E nemmeno mio padre, chiese mai di lei. Solo una volta, quando, mentendo, gli portai i suoi saluti, disse che mia madre era stata l’unica donna della sua vita. Ma quella frase la trovai incomprensibile e mi suonò ancorché falsa.
In clinica, soprattutto la notte, cominciammo a parlare. Prima di cose banali, di episodi e ricordi lontani, poi parlammo anche di noi. Mi disse che si era accorto del mio cambiamento, della mia freddezza nei suoi confronti, ma che non mi aveva mai detto niente perché voleva rispettare il mio stato d’animo. Volle anche ribadire che, sebbene certe scelte fossero dolorose e coinvolgessero i figli, a volte si rendevano necessarie. Mi disse che avrebbe voluto starmi vicino, seguirmi nello studio, fare qualche viaggio con me, ma poi, preso dal lavoro aveva sempre rimandato, sino a vedermi ormai cresciuto e a quel punto ritenne ridicolo chiedermi di trascorrere le vacanze con lui. Disse che avremmo dovuto parlare di più, questo sì, ma volle sottolineare che il dialogo tra un padre e un figlio che si vedevano poco, era difficile da intavolare. Avrebbe voluto farlo ma, concluse, non sapeva da dove cominciare.
Gli piaceva raccontarmi storielle e aneddoti del passato. Soprattutto sembrava contento che io stessi lì, accanto a lui, ad ascoltarlo. A volte parlava per tutta la notte, sino a quando il cielo cominciava a schiarirsi e il rumore nelle strade a intensificarsi.
«Adesso ho bisogno di riposare. Tra un po’ inizieranno le visite mediche, la terapia e io non ho ancora chiuso occhio». Si girava su un fianco e si assopiva.
Mentre lo guardavo, mi sembrava di essere diventato importante e quasi indispensabile per lui. Tra le pareti asettiche di quella clinica anonima stavo ritrovando quel padre che avevo smarrito anni prima, quando, seguendo mia madre, era venuto in camera mia per dirmi che se ne sarebbe andato via.
Quando entravano i medici per visitarlo o lo portavano a fare qualche esame o la ginnastica riabilitativa, io approfittavo e tornavo a casa. Fatta la doccia, mi sdraiavo sul letto, mi mettevo gli auricolari, facevo partire la musica e immediatamente mi addormentavo.
Un giorno, quando nel pomeriggio tornai da lui in clinica, trovai due donne intorno al suo letto. Erano poco più grandi di me e stavano parlando amabilmente con mio padre.
«Sono due mie collaboratrici». Ci tenne a precisare, quando le due donne frettolosamente salutarono e se ne andarono. Ma ebbi l’impressione che mi stesse raccontato una versione incompleta della questione, nonché molto lontana dalla realtà. Una, spiegò, era laureata in archeologia e l’altra era una sua amica e frequentavano il suo studio per ragioni professionali. Cercò di giustificarsi adducendo altre scuse, peraltro senza riuscire a convincermi. Era a disagio e si vedeva, ma io non commentai, né lui chiese mai la mia opinione.
Qualche giorno dopo, nella tarda serata, le due donne tornarono a trovarlo e restarono con noi. Parlammo tranquillamente del più e del meno. Chiesero del suo lavoro, dei suoi progetti e anche dei miei e, quando stavano per andare via, mio padre mi chiese se volevo andare con loro, visto che si stavano recando a una festa di compleanno di una loro amica.
Inspiegabilmente mi venne una gran voglia di andarci e stavo per rispondere subito di sì, ma mi trattenni per non dare l’impressione di essere invadente.
«Che dici? Sono due mie amiche». Insistette mio padre.
«Ma sì, perché non vieni anche tu, così ti distrai un po’. Tuo padre ci ha detto che sei sempre stato accanto a lui da quando è ricoverato». Intervenne una delle due donne.
Smisi di credere che una delle due fosse la fantomatica fidanzata di mio padre e tornai a pensare a quello che mi aveva detto qualche giorno prima, parlando della mamma: “L’ho amata molto e non ho mai guardato nessun’altra donna, credimi”. E pensai che forse non si fosse più rifatto una vita sentimentale.
Salutato mio padre, uscii con le due ragazze e ci incamminammo per vicoli poco illuminati, tra cumuli d’immondizia e incontrando ragazzi che si muovevano in gruppo.
Arrivati ai piedi di una scalinata, la risalimmo e raggiungemmo la casa dove si teneva la festa. Era un palazzo antico, con le persiane che un tempo dovevano essere state di un rosso vivace e le pareti ben intonacate. Il portone era aperto, l’androne poco illuminato e salimmo al primo superiore. Bussammo a una porta e ci venne ad aprire una ragazza, la loro amica:
«Siete venute. Sono contenta». Disse loro. Poi si girò verso di me e mi guardò per qualche secondo, come per cercare nella sua mente dove mi avesse incontrato prima. Mi attraversò il viso con uno sguardo indagatore, e infine mi tese la mano.
«Non importa chi tu sia. Sei venuto con le mie migliori amiche e allora sei il benvenuto».
Mi disse, e si girò per precederci all’interno dell’appartamento.
«Servitevi, da quella parte c’è il buffet e fate come se foste a casa vostra».
Entrammo in un grande salone bene illuminato, l’aria profumava di qualcosa che assomigliava tanto all’incenso. Sedie e divani erano già occupati dagli ospiti arrivati prima di noi e altri erano in piedi e si aggiravano attorno al buffet. Uno stereo diffondeva una musica assordante e un gatto nero si aggirava tra gli ospiti senza nessuna timidezza, come fosse abituato a dover condividere la sua casa con tanta gente estranea.
Mi andai a sedere su un divano e ogni tanto, o forse troppo spesso, mi alzavo e andavo a riempirmi il bicchiere di vino. Durante la notte cominciò a piovere e tutte le persone che erano fuori, sul terrazzo, rientrarono e si misero a ballare. Qualcuna cominciò a salutare e andò via. Di tanto in tanto mi girava la testa. Cercavo di mettere in fila i pensieri ma non ci riuscivo. Senza rendermene conto mi stavo ubriacando e non posso escludere di essermi addormentato, perché a un dato momento mi accorsi che il salone si era svuotato.
«Che c’è?» Chiesi.
«Sta ancora piovendo, ci conviene rimanere qui a dormire». Mi rispose una delle amiche di mio padre, che in piedi davanti a me mi stava scuotendo e indossava solo una maglietta sulle gambe nude.
«Io preferisco andare via. Prima di tornare a casa voglio passare da mio padre. Magari prendo un taxi». Risposi.
Quando arrivai in clinica, stava albeggiando e pioveva ancora a dirotto. All’interno tutto era silenzio. Le luci azzurrognole illuminavano debolmente i corridoi e un infermiere stava uscendo dalla stanza di mio padre.
«Il solito prelievo». Mi disse, continuando a spingere il suo carrello pieno di provette e siringhe.
Trovai mio padre sveglio. Respirava attraverso l’ossigeno e alzò una mano per togliersi la mascherina, o forse mi voleva semplicemente salutare. Mi sedetti accanto a lui, presi la sua mano tra le mie e cominciai a parlargli. Non so cosa gli dissi, forse gli raccontai della festa, forse gli parlai del freddo e della pioggia.
A un tratto mi fece cenno di avvicinarmi al suo viso e sussurrò:
«Esci».
«Come?» Chiesi.
«Esci, ti ho detto».
«Perché devo uscire?» Tornai a chiedere.
«Esci ti ho detto. Esci per dieci minuti. Vatti a prendere un caffè e poi torna».
In quei lunghi giorni trascorsi assieme avevamo parlato molto. Molti malintesi erano stati chiariti, tanti altri argomenti erano stati affrontati e altri ancora erano rimasti sospesi, e altri ancora attendevano di essere affrontati, ma...
Uscii e andai a prendermi quel caffè di cui parlava mio padre, e quando tornai nella stanza vidi la mascherina dell’ossigeno penzolare lungo la spalliera del letto. Mio padre aveva gli occhi chiusi, ma non dormiva. Finalmente non soffriva più e riposava serenamente.
Rimasi in silenzio, mentre le lacrime cominciarono a scivolarmi lungo le guance. Avrei voluto chiamare mia madre, dirle che papà non c’era più, ma poi mi trattenni. Non sapevo come l’avrebbe presa, né se la notizia le avrebbe provocato un dolore, e allora rimisi il cellulare in tasca.
Tornai a guardare mio padre, immobile e sempre più pallido, ma finalmente senza più quell’ombra di sofferenza che lo aveva accompagnato per tutta la malattia.
Non potevamo dirci più niente, non avrei più potuto parlare con lui, ma in quei giorni di degenza tanto era stato detto, chiarito e anche compreso. Ora restavano solo i ricordi. Quelli belli e quelli dolorosi. Restavano le sue parole e la sua voce mi rimbalzò nella mente.
Avrei voluto fargli ancora una domanda, chiedergli perché mi avesse fatto uscire, perché non aveva voluto che gli restassi vicino sino alla fine, ma ormai quella domanda sarebbe rimasta tale per sempre.
Ma forse, pensai, sentendo avvicinarsi il momento fatidico e non volendo che io assistessi, con il pretesto del caffè mi aveva fatto allontanare. E quella era stata la sua ultima attenzione, il suo ultimo gesto d’affetto nei miei confronti.
 



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