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LA PENDOLARE

Pubblicato da: Categoria: IL RACCONTO

24
APR
2018

La mattina sono costretta a uscire presto di casa, quando fuori è ancora buio. A piedi in dieci minuti arrivo alla stazione ma quando fa freddo e piove rischio di scivolare e allora diventa interminabile questo tratto di strada e, come spesso accade, quando arrivo alla stazione il mio treno è in ritardo. Tutti i giorni della settimana, dal lunedì al venerdì, la stessa vita, lo stesso percorso, il medesimo panorama che scorre attraverso il finestrino dello scompartimento.
Finalmente il treno spunta lento, con i suoi fari gialli che sembrano gli occhi di un gatto. Salgo e mi siedo al solito posto. Anche questa è un’abitudine. Fare le stesse cose, mantenere lo stesso posto è un punto fermo. Fa parte delle mie abitudini, della mia quotidianità.
Mi accomodo sul sedile, quello vicino al finestrino, è ancora buio e non vedo nulla se non la mia immagine riflessa e le luci dei paesini che si susseguono lenti sino in città. Nel vagone ci sono gli stessi passeggeri di sempre e qualche posto vuoto. Sul treno è un po’ come trovarsi tra vecchi amici. Dopo tanti anni da pendolare ci si conosce tutti, si chiacchiera, ci si lamenta, si discute, si ride. È così da anni, le solite cose che comunque danno un senso di accomunanza e rendono meno noioso il viaggio. A volte penso che, tra andata e ritorno, trascorro più tempo con loro che con mia figlia. Esco quando lei ancora dorme e torno a casa tardi, e per mia figlia mi rimane solo il fine settimana da dedicarle.
Il mio viaggio dura poco più di un’ora. Nella borsa ho un libro che però non riesco mai a finire. Le chiacchiere con i compagni di viaggio mi distraggono, oppure chiudo gli occhi e penso. Penso a mia figlia, agli impegni, alla mia vita da separata, ai mei cinquant’anni da poco compiuti, al lavoro. Capita di fare ogni tanto i bilanci e i minuti passano veloci. E mi ritengo anche fortunata, perché ho una figlia meravigliosa e un lavoro che mi piace. Ma si sa, non è tutto.
Il treno rallenta, passa vicino ad altri vagoni, a delle case vecchie e scrostate e all’interno si vedono delle persone. Siamo arrivati in stazione e il treno si è fermato. Scendo e corro al metrò. Cammino assieme a una fiumana di persone, tutte hanno fretta come me e scendiamo nel tunnel ad aspettare un altro treno. Si è fatto tardi, ma per fortuna ho poche fermate e anche questa mattina sarò puntuale in ufficio.
La sera, finito di lavorare, faccio il percorso inverso: metropolitana, treno, dieci minuti a piedi e sono di nuovo a casa. Sabato e domenica lo dedico alla casa o esco con mia figlia.
È di nuovo lunedì mattina e sono seduta in treno, pronta a iniziare un’altra settimana di lavoro, quando vedo dirigersi verso il posto vuoto di fronte al mio, un uomo. Un volto sconosciuto, che non mi sembra di aver mai visto prima.
«Buon giorno». Mi saluta e si siede.
Rispondo cortesemente e il dialogo finisce lì. Lui estrae dalla borsa un computer e per tutto il viaggio digita e legge. Occupa tutto il tempo a scrivere e non toglie nemmeno per un istante lo sguardo dal monitor del portatile. Io non mi pongo domande, aspetto che il treno arrivi in stazione per poi dare inizio come sempre alla mia giornata.
La sera, solito orario, solito posto, solita stanchezza e tanta voglia di tornare a casa. Di fronte a me viene a sedersi ancora quell’uomo. Stavolta non accende il computer, estrae dalla borsa un libro e noto dal titolo che è scritto in inglese.
«Buonasera». Mi saluta, mentre gli altri passeggeri conversano e cercano di coinvolgermi.
«Buonasera». Rispondo io.
Tutto regolare, o forse no. Stavolta lo osservo meglio, con più attenzione. Non più di tanto però, perché non vorrei apparire inopportuna. Ma più l’osservo e più mi sembra che il suo volto non sia del tutto sconosciuto. Quel viso ha qualcosa di familiare, mi sembra di conoscerlo.
Smetto di osservarlo e decido di parlare con le mie amiche, così, per far passare in fretta il tempo. Sta arrivando la sua fermata e lo vedo alzarsi e si prepara a scendere.
«Buona sera, a domani». Mi dice, mettendo via il libro e avvicinandosi alla porta. Dunque ci sarà anche domani… ma non ci penso più e, mentre la mia stazione si avvicina, mi preparo a scendere anch’io.
Tornando a casa, ripenso a quel volto e allora mi si accende nella mente un ricordo, anche se molto confuso e lontano. Quel volto appartiene senz’altro al mio passato, a quando ero molto giovane, forse a quando frequentavo il liceo.
Ceno con mia figlia, ma mi rendo conto che non la sto ascoltando. Ho come un piccolo tarlo nella mente e di tanto in tanto torna ad affiorarmi l’immagine di quell’uomo. Cerco di capire dove posso averlo conosciuto. Sì, perché sono sicura di averlo già incontrato, di averlo già conosciuto.
È di nuovo mattina, salgo sul treno e così do inizio al mio viaggio quotidiano. Alla stazione successiva rivedo quell’uomo. Lo vedo salire e venire verso di me, e questa volta lo osservo meglio: è alto, capelli leggermente brizzolati, un volto davvero familiare.
«Buongiorno, rieccoci qua. Ormai sto diventando un pendolare anch’io». Esclama con una voce carica di sentimento.
Sono un po’ spiazzata, e intanto mi chiedo perché si venga a sedere sempre qui, di fronte a me, con tanti posti vuoti. Ma in fondo è quello che voglio. Poi pensando che lo faccia per stare un po’ con me e mi sento lusingata e anche un po’confusa.
«Bene arrivato tra noi, allora. Così scoprirà la noia di questa routine». Gli rispondo, mentre torno a chiedermi dove posso averlo già incontrato. Tentenno, ma prima che lui estragga il suo computer dalla borsa, gli chiedo:
«Mi scusi, se mi permetto, ma ho la sensazione di averla già incontrata, di averla già conosciuta. Chissà forse da giovani, ai tempi della scuola…»
Lui mi guarda e capisco che sta frugando nella mente per capire se anch’io, per lui, possa essere una persona conosciuta.
«Per caso lei ha frequentato il liceo linguistico Ferraris?» Mi domanda. Dimostrando comunque delle perplessità.
«Be’ sì. In effetti. Anche se sono passati un bel po’ di anni. Erano gli anni ottanta, una vita fa». Gli rispondo. E finalmente capisco che il luogo del nostro incontro giovanile è quello. Ma io non lo ricordavo nella mia classe, nella mia sezione, e glielo dico.
«Mi vengono in mente tanti volti di allora, ma il suo no».
«Senta, possiamo darci del tu? Mi verrebbe più facile». Chiede, e io gli rispondo di si.
«Ma tu, per caso, facevi parte della squadra di palla a volo?» Prosegue.
«Sì, era una mia grande passione, da ragazza. Mi è sempre piaciuto giocare a palla a volo e con la squadra ho partecipato a diversi tornei e ne ho anche vinto qualcuno».
«Ma allora tu sei Daniela». Esclama.
«E tu sei Danilo, detto Tani, quello magro magro che faceva atletica e che vinceva tutte le gare dei cento metri piani». Soggiungo io.
«Ebbene sì. Come vedi sono ingrassato, anche se da ragazzo ero molto magro e nella corsa me la cavavo abbastanza bene». Conferma lui.
Continuiamo a parlare e non mi rendo conto che il treno sta entrando in stazione. Dobbiamo alzarci e scendere. C’è la solita confusione e fuori dalla stazione ci salutiamo.
«Buona giornata. A stasera». Mi grida dietro, mentre mi allontano.
«A stasera». Gli rispondo, e alzo un braccio».
La giornata in ufficio scorre lenta, guardo spesso l’orologio e vergognandomi un po’ mi chiedo se Danilo starà pensando un poco a me. Finalmente arriva l’orario di uscita e mi avvio verso la stazione e salgo sul treno. Danilo è già lì seduto, e mi accoglie con un gran sorriso.
«Ciao Daniela. Sai, oggi ti ho pensato molto e ho avuto un flash. Tornando al periodo scolastico, al tempo della scuola, mi sono ricordato che avevi i capelli lunghi ed eri proprio una bella ragazza, un po’ taciturna ma disinvolta. E il tuo modo di vestire oggi, così classico che mi ha confuso, ma devo dire che sei molto cambiata, in meglio naturalmente».
«Grazie». Gli rispondo, senza riuscire a nascondere la mia soddisfazione.
Ma è stata l’unica parola che sono riuscita a pronunciare davanti al suo complimento. Certo, da come mi ha descritto, sono cambiata molto. La mia femminilità allora era un po’ nascosta, e c’era anche tanta timidezza. Sono passati gli anni e ci sono stati tanti cambiamenti, ma lo sento, in noi è sorta la curiosità di conoscere questo lungo pezzo di vita che ci separa dalla scuola a oggi. Adesso, sia lui sia io vorremmo sapere, fare tante domande, ma il timore di essere indiscreti e invadenti, ce lo impedisce e allora restiamo sul vago.
«Be’ dimmi di te, dai. Com’è la tua vita adesso? Dopo il liceo, intendo, cosa hai fatto?» Mi chiede.
«Dopo il liceo ho chiuso con gli studi. Cercavo la mia indipendenza economica e sono andata subito a lavorare. In quel senso sono stata fortunata, in altri meno. Molto meno. E tu?»
Chiedo.
«Finito il liceo, mi sono iscritto all’università, facoltà di lingue, tanto per cambiare, ma non ho mai conseguito la laurea. Dopo un viaggio in Inghilterra la mia vita ha preso un’altra strada. A Londra ho incontrato una ragazza inglese ed è stato un colpo di fulmine».
«Cos’è successo?» Gli chiedo curiosa.
«Anche se eravamo ancora molto giovani, abbiamo deciso di andare a vivere subito insieme e forse siamo stati un po’ incoscienti, visto le nostre precarie entrate. Eddye faceva la commessa e io mi arrangiavo con delle traduzioni. Poi ho trovato lavoro in un’azienda informatica, lo stesso lavoro che faccio anche ora, e ci siamo sposati. La nostra storia è durata vent’anni, poi è subentrata la routine, la noia e abbiamo finito col divorziare».
«Avete avuto figli?» Domando, mentre il tempo è letteralmente volato via e la sua stazione si sta approssimando.
«No. Non abbiamo avuto figli, e forse è stato meglio così». Mi risponde.
E mentre ho ancora tante domande da porgli, il treno è arrivato in stazione e lui deve scendere. Anche lui avrebbe tante domande da pormi e so cosa vorrebbe chiedermi, almeno lo immagino, lo capisco dal suo sguardo.
«Io sono separata da qualche anno e vivo con mia figlia». Gli racconto tutto d’un fiato, mentre le porte del vagone si stanno aprendo.
Stavolta il tragitto per tornare a casa mi dà il tempo di pensare a quell’ora trascorsa con Danilo. Ho una piacevole sensazione: mi sento serena e nello stesso tempo anche preoccupata. Mi guardo riflessa nelle vetrine e non mi piaccio. Vorrei essere più bella, sentirmi più sicura, e invece sono piena di dubbi e incertezze. E mi domando perché mi stia ponendo tutti questi problemi. In fondo cosa mi dovrei aspettare? Ma sto mentendo a me stessa, perché quello che mi aspetto e vorrei che accadesse, invece lo so.
Il mattino dopo, seduti di nuovo una di fronte all’altro, Danilo ed io stiamo parlando ancora di noi.
«È per quello che leggi libri in inglese? Perché sei stato molto tempo a Londra?» Chiedo.
Lui si piega in avanti e mi dice ciò che volevo sentirmi dire, ma che per pudore trattenevo dentro di me.
«Senti Daniela, perché uno di questi giorni, magari una sera, non ci fermiamo in città per prenderci un aperitivo insieme. Sarebbe bello poter fare due chiacchiere. Insomma, chiacchierare in un ambiente un po’ più carino di questo treno, qui mi sembra di essere in vetrina, in mezzo a tutti questi compagni di viaggio. Che ne pensi?»
Mi guardo attorno e ho l’impressione che tutti stiano guardando noi e aspettino la mia risposta.
«Va bene, d’accordo». Rispondo.
Già ma quando? La mia vita è scandita dall’orario di lavoro, dalle faccende domestiche e dalle esigenze di mia figlia. La mia vita è segnata dai ritmi e dagli impegni ai quali sono costretta a far fronte. Mi sto preoccupando e sento salirmi l’ansia e ho anche un po’ paura. Ma che cosa sto facendo?
Danilo, con aria sicura e disinvolta mi dice che potremmo vederci sabato pomeriggio.
«Non abitiamo distanti, se vuoi potrei venirti a prendere io con la macchina, oppure vederci direttamente in città». Mi dice.
Ci penso un po’, prima di rispondere. Il sabato pomeriggio di solito non ho nessun impegno. Mia figlia esce con le amiche e io resto a casa a rimettere in ordine la sua stanza.
«Va bene. Sabato pomeriggio ci possiamo vedere direttamente in città». Gli rispondo, con un entusiasmo forse esagerato.
Il sabato pomeriggio ci troviamo in un bar, in un posto che Danilo conosce e frequenta abitualmente e lo vedo che mi aspetta seduto a un tavolo un po’ defilato. Mi sento a disagio e ho voglia di scappare via. Mi sembra ti tradire qualcuno che non esiste più.
«Ciao Daniela. Ti consiglio una cioccolata calda, qui la sanno fare bene». Mi dice, alzandosi con la sua aria rassicurante.
Torniamo a parlare di noi e lui ride quando ricorda gli episodi della scuola. Mi prende anche un po’ in giro. Capisce che sono tesa e fa di tutto per mettermi a mio agio. Poi, mentre ci stiamo alzando, mi fa la domanda più importante e impegnativa.
«Daniela, prima di uscire di qui, vorrei chiederti se ti andrebbe di vederci ancora? Non solo in treno, intendo». E questa volta è molto serio.
Ecco, sono avvampata da un’altra ondata d’imbarazzo, e credo che si legga chiaramente sul mio viso, ma lui, abilmente, non mi ripete la domanda, non aspetta la mia risposta. Mi previene.
«Che ne dici se domani o sabato prossimo andassimo al cinema e poi magari a cena? Poi, naturalmente, ti accompagnerei io a casa. Non ti preoccupare, non faremo tardi».
Mi assicura, e così facendo sta dando anche tante risposte alle mie domande sottaciute.
«Va bene Danilo. È una vita che non vado al cinema e di solito nei weekend resto sempre a casa da sola». Farfuglio.
Non riesco a dire altro e lui mi sorride.
Usciamo dal bar e mi prende per mano. Cominciamo a camminare in silenzio tra la gente, come due adolescenti che non devono dirsi altro che già non sappiano.



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