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BULLISMO

Pubblicato da: Categoria: IL RACCONTO

15
MAG
2018

Si era fatto buio. Il vento sferzava la strada. Le nuvole di tanto in tanto aprivanouno spiraglioper permettere alla lunadi riflettere la sua luce giallognola sui tetti delle case.
Paolo si sforzava ditenere in piedi la bicicletta epedalava a fatica,quando vide in lontananza tre luci fioche che avanzavano verso di lui.Si avvicinavano e qualcuno rideva. Una risata stridula,come il gessetto sulla lavagna e a Paolo si bloccò il respiro in gola. Quei tre erano compagni di scuola e sapeva che lo odiavano. E l’assurdo era che non riusciva a capirne il motivo.
Non sapeva cosa fare. Pensò di nascondersi, voleva tornare indietro, cambiare strada, ma ormai erano a meno di cinquanta metri e lo avevano visto e non sapeva come comportarsi. L’unica cosa era continuare a pedalare, passargli accanto, salutarli e sperare che lo lasciassero in pace.Dei tre il più pericolosoera Bruno Bonetti, il ragazzo più cattivodella scuola, quello chesi vantava di fare quello che voleva. Sua madre era morta e lui si permetteva di mandare al diavolo il padre, la nonna e anche i professori. Ed era vero, se ne fregava di tutti e anche della scuola. Gli altri due non erano come Bruno maper timore o insicurezza, eseguivano alla lettera quello che dicevalui.
Mentre loro pedalavano tranquilli e avanzavanonel buio occupando tutta la strada, consapevoli di essere temuti, Paolo ci stava andando incontro e continuava a chiedersi perché ce l’avessero con lui. Ormai erano a pochi metri, Paolo non poteva più evitarli e allora diminuì la velocità e si mise di lato per lasciarli passare. Invece successe una cosa che non si aspettava.
«Ohi Merli, ciao. Dove stai andando?» Si sentì chiedere in modo gentile da Bonetti, mentre gli altri si limitarono a salutarlo mostrandoil palmo della mano.
«Ciao. Sto tornando a casa». Rispose Paolo, con il piede sul pedale, pronto a scattare se il modo di fare di Bruno si fosse rivelatouna trappola.
«Ah, che peccato! Noi stavamo andando a fare una certa cosina e ci saremmo divertiti di più se venivi anche tu. Perché non vieni con noi?»Una bella commedia, recitata da tre attori consumati e Paolo capì subito che stavano cercando di incuriosirloperpoi coinvolgerloin qualcosa che ancora gli sfuggiva.
«Mi dispiace, ma devo tornare a casa». Rispose.
«Lo so, lo so. È che pensavamo di farti venire con noi per divertirci un po’, tutto qui».
Insistette Bruno Bonetti.
«Dai, ci mettiamo poco…» Intervennero gli altri in coro. Intanto Bonetti gli si avvicinò ma, invece di picchiarlo, gli batté due colpetti sulla spalla e lui capì che non poteva più fare niente.
Era nelle loro mani e se avesse cercato di scappare avrebberopotuto anche picchiarlo.
«Senti Paolo, portiamo con noi una grossa catena d’acciaio e un lucchetto per chiudere il cancello della scuola». Gli sussurrò Bruno, mostrandogli la catena.
«E perché?» Chiese Paolo, più stupito che preoccupato.
«Così… domani niente scuola, capisci? Niente prova in classe, niente riassunto su quel cavolo di Medioevo». Insistette Bonetti.
A Paolo la cosa non piaceva per niente. Lui a scuola ci voleva andare. Aveva già preparato il riassunto ed era anche pronto per la prova in classe.
«Non posso,è tardi e a casa mi stanno aspettando, mi dispiace. Ma perché volete che venga con voi?»Aggiunse.
«Anche noi dobbiamo tornare a casa, ma ci mettiamo poco e domani ci divertiamo a vedere cosa succede. Allora, vieni o no?» Gli domandò Bonetti, maquesta volta parlòa muso duro.
«Va bene, vengo, ma facciamo presto». Rispose preoccupato Paolo, mentre gli altri risalivano in bicicletta.
Arrivati a trenta metri dalla scuola, i quattro lasciarono le biciclette appoggiate alle panchine dei giardinetti e proseguirono a piedi.
«Allora, come facciamo? È importante non farsi vedere dal custode. Chi va a mettere la catena? Potremmo fare la conta». Propose Tani, uno dei tre.
«Ma quale conta. Allora che lo abbiamo portato a fareil cazzone?» Intervenne minaccioso Bonetti.
«Giusto, è lui che deve andare a mettere la catena». Intervenne Danilo, l’altro componente della combriccola. E finalmente Paolo capì il motivo per il qualeavevano insistito tanto perché andasse con loro. Ma gli avrebbe fatto vedere lui. Gli avrebbe dimostrato che non aveva paura.
Si fece dare lucchetto e catena e si avviò verso il cancello.Si guardòattorno per paura di scorgere il custode, poi si girò verso gli altri tre, che intanto si erano buttati bocconi per terra, e avvolse la catena intorno al cancello, la chiuse con il lucchetto e tornò indietro.
«Fatto». Disse, quando arrivò all’altezza dei tre.
«Ti ha visto nessuno? Il custode?» Gli chiesero.
Nessuno lo aveva visto e nemmeno il custodeavrebbe potuto vederlo, perché in quel momento era a cena con il suo amico Abdul. Un extracomunitario che gli faceva compagnia durante la veglianotturna e in cambiolo portava qualche voltain trattoria e lo faceva dormire nella scuola.
«Abdul, tu mi devi spiegare, come mai il tuo Allah non vuole che mangi maiale, né che bevi alcolici?»Chiese Luigi, il custode, già mezzo ubriaco e continuando a ridacchiare. Ma Abdul non rispose. Quella domanda se l’era sentita rivolgere un milione di volte e non sapeva più come fargli capire che la sua religione non gli permetteva di bere alcolici, né di mangiare carne di maiale.
«Com’è lo spezzatino?» Insistette Luigi. E Abdul gli rispose che era buono, saporito.
«È buono, eh? Ma tu lo sai che questo spezzatino è fatto con salcicce e pezzi di carne di maiale?»
Gli chiese Luigi, sogghignando.
«Non ho capito». Rispose Abdul, alzando la testa dal piatto.
«Stai mangiando carne di maiale! Nel tuo piatto c’è carne di maiale». Gli ripetéLuigi indicandogliela, e finalmente Abdul comprese.
«Tu mi hai fatto questo? Tu mi hai fatto mangiare maiale?»
«Bravo. Proprio maiale. Ma non te la prendere, èsolo uno scherzo».MaAbdulscostò il piatto, scattò in piedi, mandò al diavolo il custode, cominciò a sputare perterra e, imprecando in maniera incomprensibile, uscì dalla trattoria.
«E va bene, avrò anche sbagliato. Scusami tanto, ma era solo uno scherzo. Non te la prendere così». Gli gridò dietro Luigi, mentre tutta la trattoria si era zittita e girata verso di loro.
Paolointanto non vedeva l’ora di tornare a casa, ma non sapeva come fare, e allora rimase a vedere cosa avrebbero fatto gli altri.
Magli altri non avevano nessuna intenzione di tornare a casa, anzi...
«La finestra dei bagni delle femmine è difettosa e non chiude bene, basta spingerla con un ditoper aprirla epoi entrare nella scuola». Esordì Bonetti.
«Per fare cosa?» Chiese stupito Paolo. Masi sentì rispondere di stare zitto e di seguirli.
Per primo entrò Danilo Preti, poi Tani Carini, seguito da Paolo e infine entrò anche Bruno Bonetti. All’internoerabuio, silenzio e nessuno in giro. Salirono le scale e si avviarono verso la stanza del preside. Bonetti sapeva esattamente dove voleva andare: nella segreteria, dove c’era il televisore e il videoregistratore, l’apparecchiatura che la professoressa Giardiniaveva fatto acquistare, assieme adei video sul Medioevo, per poi mostrarli ai ragazzi di terza.
Bruno Bonetti,che del Medioevo non gliene poteva importare di meno,prese il televisore e lo scagliòper terra facendolo esplodere in mille pezzi, poi sollevò sopra la testa il videoregistratore e gli fece fare la stessa fine. Danilo e Tanisi accanironoinvece su quello che rimaneva delle casse acustiche.
«E ora, cara la mia professoressa Giardini, spiegamicome farai a farmi vedere le tuetediosissimecassette sul Medioevo?» Concluse Bonetti,estraendo dalla tasca una bomboletta spraye scrivendo sul muro: “GIARDINITU E IL TUO MEDDIOEVO POTETE ANDARE AFF”.
Quella scritta, enorme e rossa, copriva tutta la parete. Le lettere erano storte, c’era una “D” di troppo e per mancanza di spazio era anche incompleta, ma il messaggio era chiaro, inequivocabile. Poi Bonetti si sedette sulla scrivania del preside e si rivolse e Paolo.
«Adesso, cazzone mio, scrivi tu qualcosa sul muro, se no, sotto quello che ho scritto io metto il tuo nome e domani saranno cavoli tuoi». Paolo cominciò a sudare, non sapeva cosa dire, voleva scappare ma era sicuro che lo avrebbero ripreso e picchiato, e allora rispose:
«Scrivi tu. Scrivi che il preside e la vicepreside sono amanti e lo sanno tutti». Rispose Paolo, non sapendo cos’altro dire.
Intanto il custodeaveva rincorso Abdul, lo aveva tirato per la giacca e gli aveva chiesto mille volte scusa. Alla fine si erano chiariti e insieme stavano arrivando davanti alla scuola.
«Ma chi è stato? Chi è quel cretino che ha messo una catena al cancello». Urlò il custode.
I ragazzi sentendo gridare e si appiattirono contro il muro, poi scesero in fretta le scale e,raggiunti i bagni delle ragazze, scavalcarono la finestra e si precipitarono nei giardinetti per recuperare le biciclette escapparevia.
Arrivato a casa,Paolo sgonfiò le ruote eabbandonò la bicicletta in giardino.
«Ciao ma’. Ho fatto tardi perché ho forato».Disse appena entrato, e prima che la madre lo subissasse di domande e di rimproveri.
Intanto il custode,aiutato da Abdul, aveva scavalcato la recinzione, era entrato nella scuola e, accortosi dello scempioche regnava al primo piano, chiamòil preside.
«Signor Preside, mi trovo a scuola per il mio solito giro d’ispezione, maqui sono entrati i ladri e hanno spaccato tutto». Gli riferì per telefono.
«Chi? Dove?» Chiese il preside, svegliato di soprassaltodallo squillo del telefono.
«Nella scuola, i ladri hanno spaccato tutto e hanno anche imbrattato i muri di vernice».
«Ma sono deivandali, dei teppisti. Vengo subito»E si precipitò a scuola.
Giunto davanti all’edificio, trovò Luigi che lo stava aspettandoe gli mostròil cancello chiuso con la catena.
«Perché non l’hai tolta?» Chiese il preside.
«Ma non l’ho messa io, signor Preside. Sono stati i ladri. Qui bisogna chiamare i Vigili del Fuoco, e bisogna anche dirgli di venire con delle cesoie molto grosse».
Abdul, intanto, intuendo che quella sarebbe stata una notte movimentata, si dileguòe andò a dormire tra vecchi armadietti e brandine arrugginite,dimenticate nel sotterraneo dell’ospedale.
Una volta riusciti ad aprire il cancello, preside, custode, Vigili del Fuoco, e anche la Polizia che nel frattempo era stata allertata, entrarono all’interno dell’edificio.
Visto lo scempio, il preside si mise le mani nei capelli etelefonò alla vicepreside e alla professoressa Giardini.
«Questa notte sono entrati nella scuola dei vandali e hanno distrutto tutto, compreso il televisore e videoregistratore. E hanno anche imbrattato le pareti con lo spray».
«E cosa hanno scritto?» Chiese la Giardini.
«Giardini tu e il tuo Medioevo potete andare... E altre scritte ingiuriose,sia su di me chesullavicepreside, e questo anche se siamo personeal di sopra di ogni sospettoe non meritiamo di leggere certe frasi false, offensive e ingiuriose». Rispose il preside.
«Allora so chi è stato. È stato quel mascalzone di Bruno Bonetti. Lui e i suoi fidi compari. Ne sono sicura. Vengo subito».Gli rispose la Giardini.
«Guardate che disastro».Riferì il preside, appena le due donne lo raggiunsero.
La vicepreside, appena lette le scritte avvampò, tossì, strinse i pugni e si chiese chi potesseessere così malvagio da scrivere cose che non stavano né in cielo né in terra, e pretese che quelle falsità venisserorimosse subito, prima del sorgere del sole. Prima che iniziassero le lezioni.
«Non si può».Le rispose la Giardini, anche se sapevabenissimo che alla collega premeva coprire in fretta solo la scritta che riguardava la sua risaputa infedeltà,e spiegò che prima la Polizia doveva finire il proprio lavoro.
Il mattino dopo, Paolo stava correndo a scuola. Non ce l’aveva fatta a rimanere a casa. La curiosità, la voglia di sapere com’erano andate a finire le cose, avevano avuto la meglio sull’intenzione di fingersi ammalato. Aveva messo il termometro sotto l’acqua calda, ma al momento di dire alla madre che aveva la febbre, aveva cambiato idea ed era uscito di corsa.
Come poteva rimanere tutto il giorno a casa senza sapere se erano riusciti ad aprire il cancello, se avevano scopertola devastazione e le scrittesui muri, senza conoscere la reazione dei professori?La curiosità faceva a pugni con la paura e la voglia di tornare a casa, ma proseguì.
Arrivato davanti alla scuola, trovò Bruno, Danilo e Tani che si stavano guardando intorno.
Paolo avanzò e vide che il cancello era aperto. Nel parcheggio c’erano le macchine dei professori e anche la vecchia utilitaria del custode. Superò il cancello, attento a controllare se per terra ci fossero i resti della catena, ma niente, tutto era normale, come tutti gli altri giorni.
«Che fai Paolo? Ti vuoi muovere?» Gli gridò la bidella, mentre gli faceva cenno di sbrigarsi. Paolo si scosse e si avviò verso la sua classe.
La professoressa Giardini era seduta alla cattedra, tutti i suoi compagni ai loro posti e questo lo rassicurò, anche se Bonetti gli lanciò un’occhiata che lo fece rabbrividire e la tensione in classe si poteva tagliare con il coltello. Appena sedutosi al suo banco, sentì una fitta nel fianco.
«Cazzone, ma l’hai chiusa bene la catena? Ma che hai fatto, qui è tutto normale?». Si sentì dire da Bonetti, mentre questi gli premeva la punta del temperino nel fianco.
C’erto che l’aveva chiusa bene. E aveva anche controllato.
Strappò un foglio dal quaderno e scrisse:”La catena l’ho messa e chiusa bene”. Poi si girò e posò il foglio sul banco di Bonetti. Ma la professoressa Giardini, che aveva trent’anni diinsegnamento e non le sfuggiva mai niente, se ne accorse e si fece portare il foglio.
Un’ora dopo la porta dell’aula si aprì e la bidella, interrompendo la lezione, disse che Paolo Merli doveva recarsisubito dal preside. Quando bussò alla porta e sentì rispondere avanti, Paolo, sbiancato in volto e con la certezza che stava per passare un gran brutto momento, si trascinò sino alla scrivania del preside.
Erano le dieci e trentotto. Alle undici Paolo aveva confessato tutto. Disse al preside che la sera prima aveva incontrato i suoi compagni per strada, che era stato costretto a seguirli eche lo avevano obbligato a mettere la catena al cancello. Ammise di essere entrato nella scuolaassieme agli altri, ma giurò che lui non avevafatto niente. Si trovava lì solo perché costretto da Bonetti.
Mentre la vicepreside insisteva per sapere il nome dichi avessescritto quella frase falsa, ingiusta e ingiuriosa,Paolo, seduto di fronte al preside, piangeva e non sapeva cosa dire.
«Non sono stato io. Io non volevo andare con loro, non volevo entrare nella scuola, mi hanno costretto, obbligato. Mi odiano,mi fannosempre dispetti,mi picchiano e io ho paura. Per questo sono entrato con loro. Ma lo giuro, io non ho fatto niente». E intanto si chiedeva perché ai pentiti di mafia i giudici offrissero sconti di pena, una seconda identità, una serie di sconti di pena e diverse garanzie, mentre a lui,che era finito in quel grosso guaiounicamente per colpa dei bulli, nessunovoleva credere.
A Bruno Bonetti, a Danilo Preti e Tani Carini, che uno dopo l’altro erano stati chiamati in presidenza e avevano confessato, furono inflitti due mesi di sospensione e i loro genitori costretti a sostenere le spese per l’acquisto della nuova attrezzatura e per il ripristino delle pareti, anche se intanto erano già state ritinteggiate a spese del preside e della vicepreside.
Paolo Merli se la cavò invece con una romanzina,in presenza degli increduli genitori.
 



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