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PAURE E SPERANZE

Pubblicato da: Categoria: IL RACCONTO

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LUG
2018

Mia madre non si truccava mai, non si tingeva i capelli, lasciava che crescessero grigi e lunghi sin oltre le spalle. Aveva fatto il sessantotto, manifestato, bruciato reggiseni, inneggiato con cartelli nelle piazze, gridato non so cosa, occupato aule d’università ma, probabilmente, nonostante tutto questo, il sessantotto le era passato sopra senza sfiorarla, o forse non lo aveva nemmeno capito bene. Però, quando aveva ormai raggiunto una certa età, continuò a dimostrarsi anticonformista, lodare la libertà di coppia, esaltare l’amore libero e aveva anche smesso di credere a quello che le aveva insegnato la chiesa.
Naturalmente tutto questo andava bene per gli altri, ma non certo per me che sono stata educata con eccessiva severità, se non proprio in modo repressivo. E mi aveva anche inculcato l’indiscutibile necessità di arrivare casta e pura all’altare, tanto che io avevo acquisito un’educazione sessuale tutta mia, ma non per questo non vedevo l’ora di liberarmi di quel tabù che per mia madre è sempre stato una cosa moralmente vergognosa. Tanto che con la figlia non ne volle mai parlare.
A sedici anni ho conosciuto Francesco e mi sono innamorata di lui. Il problema è che oltre al cuore si sono destate anche le brame più intime, sino allora a me sconosciute. Ed è successo.
La prima volta abbiamo fatto l’amore in macchina, in un parcheggio, e fu una cosa veloce, quasi indolore e priva di passione. E devo dire che ci rimasi anche male, perché la faccenda si concluse in un battere di ciglia e si risolse con il solo piacere di Francesco.
Una volta finito, credevo di dovermi sentire in colpa, magari di dovermi pentire, ma non è successo, e questo perché ero finalmente riuscita a liberarmi di quel tabù e, avendolo fatto, ritenevo di essere entrata a pieno titolo nell’età adulta.
Quando ci lasciammo, oltre che Francesco, pensavo di aver perso anche la capacità e la voglia di fare l’amore, ma non è stato così, perché lo rifeci subito dopo con un altro ragazzo e poi ancora con altri, e la cosa, se così si può dire, la trovai ancora più piacevole e appagante.
Con alcuni scoprii il sesso comico, con altri quello privo di coinvolgimento, con altri quello che mi coinvolgeva sentimentalmente, e con altri ancora quello che mi lasciava del tutto indifferente.
Ho fatto l’amore con adolescenti della mia età e con adulti che avevano quella di mio padre; con degli eterni Peter Pan; con quelli che avrebbero voluto sposarmi ma non potevano; con quelli che avrebbero potuto sposarmi ma non volevano; con separati e divorziati, e anche con sposati che avrebbero lasciato la moglie per me. Ma tutti quegli uomini, per me, erano e restavano solo la compagnia di una sera, l’amore fatto dopo una notte da sballo in discoteca.
Con le mie amiche ironizzavamo sulle prestazioni di questo o quel ragazzo e alla fine ne ridevamo, ma mi dissero anche che stavo esagerando e allora m’imposi delle riflessioni. E questo perché facevo sì l’amore, ma non riuscivo più a innamorarmi.
Ma dopo un breve periodo di poco profonde riflessioni, non ci pensai più e lo rifeci altre volte e altre ancora. Fino a quando, un pomeriggio, mentre stavo studiando, mia madre fece irruzione in camera mia e, mostrandomi la biancheria che avevo occultato nella lavatrice, chiese cosa fossero quelle porcherie. Disse proprio così, porcherie, e scoppiò il finimondo.
Era fuori di se. Se la prese con me e con tutti i maschi del mondo. Disse che se lo sarebbe dovuto aspettare da una come me, perché ero sempre stata testarda come mio padre, la figlia che non accettava mai i consigli e preferiva fare di testa sua, e quelli sotto i suoi occhi erano i risultati.
Che cosa avrei potuto risponderle? Se non che era nella natura delle cose che una figlia della mia età facesse l’esatto contrario di quello che si aspettasse la madre.
Voleva dimostrarsi forte, sempre sicura di se e continuò a inveire, a imprecare, ma alla fine crollò sul mio letto, si mise le mani sul viso e scoppiò a piangere e, tra un singhiozzo e l’altro, continuò a maledire quelle brutte cose che erano gli uomini e il sesso.
Era fuori di se, ma ormai lo sapevo che bastava poco per ridurla in quello stato. Bastava che in cielo si ammassassero delle nuvole nere, o che in lontananza echeggiassero minacciosi i tuoni di un temporale perché mia madre perdesse del tutto la testa e cominciasse ad agitarsi. Figurarsi l’aver scoperto che la sua unica figlia, sedicenne o giù di lì, non era più immacolata come avrebbe voluto lei.
Quando accadeva qualcosa che riteneva sconveniente o peggio, mia madre perdeva del tutto la testa e si comportava in modo incomprensibile, spesso senza ragione, come quando, appunto, scoppiava un temporale.
Quando ero piccola, per evitare di farmi assistere a quelle sue esplosioni di rabbia e paure, mio padre mi portava dai nonni che abitavano sotto di noi, nello stesso palazzo. Ma poi si era talmente abituato alle esplosioni isteriche della moglie che non ci faceva più caso. Non gli faceva più né caldo né freddo, e la guardava senza battere ciglio, a volte con indifferenza, al massimo scuotendo la testa ma poi, senza dire una parola, tornava a chiudersi in biblioteca. Nel suo mondo.
Io non ho mai capito da dove scaturisse la sua paura per i temporali, perché a me non facevano nessuna impressione, anzi, mi piaceva starmene alla finestra con mio nonno e guardare fuori mentre si scatenava il finimondo.
Era stato proprio mio nonno Vito, a insegnarmi a non avere paura dei temporali. Mi diceva che bastava mettersi al riparo in un posto sicuro e poi ci si poteva anche godere lo spettacolo dei fulmini che saettavano in cielo.
Uomo d’altri tempi, mio nonno, che aveva vissuto in prima persona le privazioni, la fame, la lontananza da casa, il terrore della guerra. E mi raccontava che i boati delle cannonate erano di gran lunga più spaventosi di tutti i tuoni del mondo messi insieme. Quando ero piccola, mi prendeva a cavalcioni sulle spalle e mi raccontava delle favole che non erano le solite, quelle di Pinocchio o Cappuccetto Rosso, ma storie vere, storie che aveva vissuto in prima persona e che a volte lo avevano visto protagonista, e a me piaceva sentirlo parlare della sua vita, dei suoi trascorsi di ragazzo, anche se mi era difficile accostare quell’omone grande e grosso, con quei suoi baffoni e capelli bianchi, a un ragazzino della mia età.
Mio padre invece era un uomo di poche parole, se non proprio taciturno, e non amava più mia madre da molto tempo. Non l’amava e non l’odiava, provava solo indifferenza e forse, qualche volta, un mal celato disprezzo nei suoi confronti. Per lui mia madre non esisteva più, al massimo la riteneva un malanno da sopportare e con cui bisognava convivere. Almeno sino a quando non è più riuscito a sopportarla.
Mentre con me ha sempre dimostrato un grande affetto ed è stato il padre più buono del mondo, con lei le cose andarono sempre peggio, finché, dopo l’ennesimo litigio, probabilmente più violento degli altri, è uscito di casa e non ha fatto più ritorno. Sparito per sempre nel buio di quella maledetta notte invernale. E forse proprio perché se n’è andato così, lasciandomi sola e senza spiegazioni, ora ho sempre paura.
Paura di rimanere un’altra volta sola, paura di perdere anche lui, mio marito.
Federico lo conobbi dal meccanico, dove avevo portato la macchina a far riparare, mi offrì un caffè e ci mettemmo a parlare. Io avevo trentacinque anni e più nessun grillo per la testa. Lui aveva superato i quaranta ma, dopo qualche relazione di poco conto, era tornato single come me.
È difficile spiegare l’alchimia che subito si venne a creare tra lui e me, anche se dopo una settimana di messaggini e incontri serali, non c’eravamo ancora dati un bacio. Fui io, la prima volta, a prendere l’iniziativa e chiedergli se gli avrebbe fatto piacere accompagnarmi a una prima teatrale. Lui rispose di sì e da quel giorno ha avuto inizio la nostra storia.
Le serate iniziavano cucinando insieme a casa sua, continuavano cenando in cucina, proseguivano sul divano del salotto e finivano in camera da letto.
Dopo due anni di convivenza ci siamo sposati e da allora, sempre innamoratissimi, siamo ancora insieme. A volte capita di litigare, capita di rado ma capita, e oggi è successo. E questa volta Federico è uscito senza dire una parola e sbattendo la porta.
Come dicevo, capita di litigare, e ogni volta ho paura che un giorno possa succedere, che si possa stancare di me, che possa andare via per sempre e non tornare più, come ha fatto mio padre con mia madre.
Continuo a camminare avanti e indietro. Ho caldo, sto sudando, devo calmarmi, devo cercare di ragionare. In fondo, mi dico, capita a tutte le coppie di questo mondo di avere degli screzi, di tanto in tanto.
Considerazioni piene di buon senso che però non bastano a tranquillizzarmi, e continuo ad avere il terrore di essere lasciata sola, di perderlo. Anche se nel nostro caso la colpa è sempre della sua eccessiva gelosia, tanto che a volte diventa così possessivo che mi è difficile sopportarlo.
Lui lavora in un ambiente prettamente maschile, mentre io in un ente pubblico, dove ci sono sì altre donne, ma anche tanti uomini e a volte capita che un collega mi chiami a casa per avere delle delucidazioni, dei chiarimenti su pratiche che stavo seguendo io. Ed è successo anche questa volta: mentre stavamo pranzando, mi ha chiamato un collega e io mi sono alzata per andare a rispondere. È stata una telefonata breve e sintetica, di lavoro, ma quando sono tornata a sedermi, apriti cielo. Si è lamentato che prima di lui vengono sempre i miei colleghi, che quando mi chiamano scatto come una molla, che è sempre lo stesso che mi cerca e che si vede che io provo piacere a parlare con lui. Ho cercato di farlo ragionare, gli ho spiegato che mi cercavano per una pratica urgente, ma non c’è stato nulla da fare. Mi ha detto che di questa situazione si è stancato e io gli ho risposto a tono. Insomma, abbiamo litigato e lui se n’è andato sbattendo la porta.
Passano i minuti, scorrono le ore e lui non torna. Sì è fatto buio e io ho paura, paura, sempre più paura che non torni più, che se ne sia andato per sempre. Ho cercato di chiamarlo, gli ho mandato dei messaggi sul cellulare, ma non si è fatto sentire e non risponde nemmeno ai miei messaggi.
Sono in camera da letto, al buio, le tapparelle alzate, intorno a me è tutto silenzio e io continuo a seguire con attenzione il rumore dell’ascensore che sale e che scende, ma non si ferma mai al nostro piano.
Forse ho dormito qualche minuto, perché mi sembra di aver fatto strani sogni e mi agito. Mi manca l’aria, mi alzo, apro la finestra e faccio un respiro profondo. Guardo l’orologio sul comodino ed è quasi mezzanotte. Prendo il cellulare ma non trovo nessuna chiamata, nessun messaggio e ricomincio a temere il peggio.
Il cielo si è fatto nero, grosse gocce di pioggia stanno colpendo i vetri della finestra e bagnando il davanzale. All’improvviso ecco un lampo che rischiara la stanza e d’istinto con le mani mi copro il viso.
Subito dopo un tuono squarcia la notte. Ora la pioggia cade impetuosa e percuote senza sosta i tetti, le tapparelle e gli alberi giù nel viale.
Tremando richiudo la finestra e mi butto sul letto. Ho paura, e adesso scopro che mi fa paura anche il temporale: i lampi e i tuoni mi terrorizzano, proprio come succedeva a mia madre.
Sto tremando. Piango e ho paura. Ho paura del temporale, ho paura perché sono sola e ho soprattutto paura di essere stata lasciata per sempre da mio marito.
Singhiozzo e grido. Grido e singhiozzo senza una vera ragione, ma non riesco a smettere.
«Sono tornato. Sono tornato». Sento ripetere, ma non capisco se sto sognando, se è il vento che porta la voce da fuori o se è Federico che è tornato.
Mi giro e tra i lampi lo vedo. È tutto bagnato, spettinato e sta grondando acqua su di me.
Mi alzo e gli butto le braccia al collo.
È tornato. È tornato e io sono felice. Lui è qui con me e mi sta stringendo. Mi sussurra parole che non comprendo perché continuo a piangere, ma va tutto bene. Ora non ho più paura e non tremo più.
Lo amo e capisco che anche lui mi ama perché è premuroso. Più premuroso del solito e mi da molto di più di quello che ho ricevuto da mia madre.
Ecco, quando penso a lei, non posso fare a meno di ritenermi una donna fortunata. Io ho trovato un uomo che mi ama, che mi accetta così come sono e che non ha nessuna intenzione di lasciarmi.
Il temporale si sta allontanando e la pioggia è cessata.
Ci saranno altri temporali? Certo, e forse mi tornerà la paura di perderlo, di essere abbandonata, ma in questo momento non me ne importa e sono felice. Lui è qui con me e tutto il resto non conta.
«Forse abbiamo bisogno tutti e due di una bella doccia». Mi dice Federico, accarezzandomi i capelli e stringendomi forte.
Io sono tra le sue braccia e alzo un po’ la testa per dirgli di sì .
Oggi è stata una giornata lunga e difficile, ma in fondo non mi dispiace averla vissuta, perché è al termine di giornate come queste che ci si sente di nuovo in pace con se stessi e con tutto ciò che ci circonda.
Respiro profondamente. Attorno a noi tutto e silenzio e io sono finalmente tornata serena.
Apro la finestra e nell’aria c’è odore di terra bagnata. Giù, nel viale, grosse gocce di pioggia continuano a cadere dagli alberi e vanno a formare zampilli per terra.
Il temporale è passato, la luna è tornata e rischiara la notte, noi abbiamo fatto la doccia e siamo finalmente a letto e i nostri corpi nudi si cercano. Si stringono in un abbraccio che non è solo passione e desiderio, ma comprende tutto l’amore che ci unisce, che sentiamo e proviamo uno per l’altra.
 



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