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OLTRE IL TEMPO CHE PASSA

Pubblicato da: Categoria: IL RACCONTO

30
AGO
2018

Il liceo è il luogo dove si inizia ad amare. Non si sa ancora amare e, forse, è proprio per questo che quegli amori rimangono indelebili, indimenticabili. A quell’età si ama in modo puro, senza pregiudizi, senza strategie e, purtroppo, senza difese.
Marina ed io ci siamo innamorati nel modo più banale di questo mondo, e non potrei nemmeno chiamarlo un semplice innamoramento, perché è stato piuttosto una struggente illusione: lei era quella seduta nel primo banco, io nell’ultimo e questo la dice lunga su chi studiasse di più. A scuola non andavo troppo bene e un giorno, durante l’interrogazione di latino, feci una figuraccia e lei si mise a ridere. Ci rimasi male, ma mentre le passavo accanto mi sfiorò la mano con le dita e sorrise.
Avevo bisogno d’aiuto, non sarei mai riuscito a superare l’anno senza aiuto, così, quando suonò la campanella e stavamo uscendo, mi avvicinai e le chiesi:
«Mi daresti una mano con il latino?» Lei si fermò, mi guardò perplessa, si strinse i libri al petto e sorridendo rispose di sì. Iniziò tutto così, con una domanda e un sì, ma forse lo disse senza rendersi conto del sentimento che stava scatenando in me.
Cominciai ad andare a casa sua: una casa signorile situata in centro, non come la mia che abitavo in periferia. Casa mia odorava di carciofi e melanzane fritte, la sua emanava un profumo raffinato ed era immensa. Studiavamo in camera sua, che era più grande della stanza da letto dei miei genitori.
Marina si era messa d’impegno e mi rimproverava se traducevo male o si accorgeva che la mia attenzione veniva meno. Lo faceva con affetto, sorridendo. Si portava i lunghi capelli color miele dietro l’orecchio e rideva come si ride di un caso disperato come il mio.
«È colpa dei miei se mi ritrovo al classico. Io avrei preferito lo scientifico». Le ripetevo per giustificarmi. Ma il mio era un metodo che accentuavo per attrarre la sua attenzione, volevo godere della sua divertita benevolenza di fronte alla mia spregiudicata ignoranza.
Prendemmo l’abitudine di vederci tre volte a settimana per studiare insieme. Lei zoppicava un po’ in matematica, o meglio la odiava, io invece me la cavavo abbastanza bene e l’aiutavo come potevo, provando a spiegare le equazioni a modo mio, mischiando il linguaggio matematico con il dialetto che spesso mi sfuggiva, nonostante cercassi di tenerlo sotto controllo. Ci vedevamo sempre a casa sua, dove nessuno parlava mai il dialetto. Sua madre ogni tanto apriva la porta e chiedeva alla figlia cosa volesse per cena e se magari rimanevo anch’io a mangiare con loro, poi, richiusa la porta, la sentivamo parlare con la domestica. Io, per paura di trovarmi davanti il padre a tavola e dover maneggiare posate d’argento e piatti di porcellana, rispondevo sempre di no, e tiravo fuori la scusa che a quell’ora mia madre aveva senz’altro già cucinato e preparato.
Così, in quei pomeriggi primaverili, in camera sua ci innamorammo. Un giorno, seduti sul letto, con il libro di latino tra le mani, ci guardammo in modo diverso e finimmo col baciarci.
«Abbiamo fatto proprio come Paolo e Francesca». Disse Marina, scostando le sue labbra dalle mie.
«E chi sono? Amici tuoi?» Chiesi ridendo.
«Scemo: è il quinto canto dell’inferno. Divina Commedia. Ne hai mai sentito parlare?»
«No, probabilmente quando la professoressa ha spiegato io ero assente». Risposi e la baciai di nuovo. In realtà sapevo benissimo chi fossero Paolo e Francesca, ma mi divertivo a farla irritare.
«Ma di chi mi sto innamorando? Che ci faccio io con uno come te?» Disse, tra un bacio e una carezza, ma non voleva offendermi. Voleva solo farmi sapere che non le importava niente che lei era la figlia di un ricco industriale, che abitava in una bella casa ed io venivo dalla periferia, non sapevo niente della Divina Commedia e mio padre faceva l’operaio.
Passammo insieme, innamoratissimi, gli ultimi due anni di liceo e furono anni felici, meravigliosi in cui, quando i genitori non c’erano, facevamo l’amore a casa sua o in macchina non appena presi la patente e riuscivo a farmi dare la macchina da mio padre. Continuammo a studiare sempre a casa sua, mangiando panini e spargendo molliche nel letto. Cercavo di farla ridere perché a lei piaceva ridere, poi, finito di studiare uscivamo. L’accompagnavo al corso di recitazione e durante il tragitto ascoltavamo Vasco Rossi che entrambi adoravamo. Il sabato sera andavamo a farci una pizza con gli amici e poi tutti in discoteca. Lei cominciò a venire a casa mia e io a fermarmi a casa sua per la cena e qualche volta anche a pranzo, la domenica. Lei si stupiva dell’allegria che si respirava a casa mia e si divertiva a sentir litigare mia madre con le mie sorelle, ma non era abituata a tutta quella caciara: gente che entrava e usciva dalle stanze, che si prendeva a sberleffi e si ingozzava di patatine e polpette, ancora prima che queste fossero arrivate in tavola.
«Ti amo anche per questo». Mi diceva, quando cercavo di scusarmi per la confusione che regnava in casa mia.
«E io ti amo e ti amerò per sempre». Le dissi una sera, dopo aver fatto l’amore sulla spiaggia, al riparo di due barche capovolte.
«Anch’io». Rispose ansimando e ancora abbracciata a me. Tornai a baciarla e le accarezzai i seni. Lei sorrise e mi pregò di smetterla, ma a me non bastava mai.
Non le dicevo spesso ti amo ed era la prima volta che le avevo detto per sempre.
Temevo il futuro, temevo che una voragine si potesse aprire sotto i nostri piedi, temevo ciò che ci aspettava dopo la maturità.
Alla fine del liceo io mi iscrissi alla facoltà d’ingegneria informatica nella nostra città, mentre Marina, avendo scelto lettere e filosofia si trasferì a Roma. Incominciammo a vederci sempre meno e dopo tre mesi, quando tornò a casa per le vacanze natalizie e mi venne incontro con le guance rosse per il freddo, mi disse che oltre all’università stava frequentando un corso di recitazione e stava tentando di ottenere una particina in una fiction che si stava girando a Cinecittà.
Vedendomi perplesso e pensieroso, replicò che recitare era sempre stato il suo sogno e che non poteva lasciarsi sfuggire l’occasione che stava inseguendo da sempre.
«E io? E noi?» Fu la prima cosa che riuscii a rispondere, roso dalla gelosia e preso dalla paura di perderla.
«Ce la faremo. Il nostro amore è così grande che non può finire nemmeno se ci sono tanti chilometri che ci separano e restiamo senza vederci per tanto tempo».
La sua risposta mi rassicurò, anche se in fondo ero rimasto scettico e perplesso. E pensai che se già era difficile vederci adesso, andando avanti così sarebbe stato ancora più difficile: io perché preso dallo studio, e soprattutto dalle difficoltà economiche, e lei perché impegnata nello studio e adesso anche nella recitazione.
Dopo le feste Marina tornò a Roma. L’accompagnai e ci salutammo all’aeroporto e, quando la vidi superare la barriera del check-in, mi sentii morire dentro e capii che niente sarebbe stato più come prima.
Durammo sei mesi e in quel periodo andai a trovarla tre volte e la terza mi disse:
«Forse è meglio prenderci una pausa. Tra l’università e il corso di recitazione sono impegnatissima e non sono più sicura di niente. Sono cambiate molte cose in questi mesi, e io devo concentrarmi nello studio e voglio anche tentare di sfondare nel cinema. Ho conosciuto persone che potrebbero farmi ottenere una particina in una fiction che si sta girando per la tv. Mi dispiace».
«Mi stai dicendo che è finita? È finita? Di la verità, è finita perché c’è un altro?» Chiesi.
Non rispose e io insistetti:
«C’è un altro, vero? C’è sempre un altro quando una storia bella come la nostra finisce così bruscamente».
«No. Non c’è nessun altro. È solo che sono molto impegnata e presa da quello che voglio realizzare». Rispose quasi arrabbiata, come se le mie domande e la mia presenza la infastidissero. E questo, più che le sue parole, mi fecero capire che tra noi era davvero finita e un altro aveva preso il mio posto nella sua vita.
Dopo nemmeno un mese lo venni a sapere dalla sua amica Cristina, che era diventata anche una mia cara amica e l’avevo interpellata per avere sue notizie. Marina si era fidanzata con uno di Roma, uno più grande di lei di quasi quindici anni, che faceva il regista e la storia era iniziata ancora prima che lei chiudesse con me, e venendolo a sapere mi fece stare ancora più male.
«Forse ho fatto male a dirtelo io. Magari sarebbe stato meglio che te lo sentissi dire da lei, ma ritengo che sia giusto che tu sappia come stanno realmente le cose, perché mi dispiace vederti soffrire così. Magari speravi in un suo ripensamento e riavvicinamento, ma non credo che ciò possa avvenire». Concluse Cristina.
“Il nostro amore è così grande che non può finire nemmeno se ci sono tanti chilometri che ci separano e restiamo senza vederci per tanto tempo”. Queste sue parole mi risuonavano in testa e me le ripetevo in tutte le ore del giorno, anche quando mi sedevo a tavola e mia madre mi chiedeva perché non mangiassi o cosa avessi. Quella frase mi bruciava dentro. Mi feriva più del tradimento stesso.
Non ci sentimmo più. Smisi di cercarla e lei di telefonarmi e anche di scrivermi, come un paio di volte aveva fatto, forse perché morsa dai sensi di colpa. Mi aveva mandato un paio di e-mail in cui provava a giustificarsi. La prima la lessi e poi la cestinai. La seconda la cestinai senza nemmeno aprirla.
Trascorsero gli anni, mi laureai e feci la mia vita. Ero diventato un ingegnere informatico e operavo per una grande azienda del settore e il lavoro mi gratificava. Ho conosciuto e frequentato altre donne, certe molto belle, alcune disponibili, ma non mi sono innamorato di nessuna di loro.
Di Marina non seppi più niente, o molto poco. Un paio di volte la vidi anche in tv: sosteneva una particina o era ospite di qualche trasmissione pomeridiana e pensai che alla fine ce l’aveva fatta, ma cambiavo subito canale.
Nel mese di giugno Vasco Rossi venne nella nostra città per tenere un concerto allo stadio e io ci andai con Serena, una che un po’ mi piaceva. Una brava ragazza che lavorava in un call center: non molto alta, dolce e spiritosa, ma soprattutto rassicurante. Ma, a differenza di Marina, quello che provavo per lei non era passione, ci stavo bene insieme, riempiva le mie serate vuote.
Il concerto fu fantastico, adrenalina pura. La voce di Vasco raggiungeva ogni angolo dello stadio e le note si confondevano con la notte stellata, e a un tratto la vidi. Tra la folla sbraitante notai Marina. Era in compagnia di altre ragazze e Vasco stava cantando Sally: “Sally è già stata punita per ogni sua distrazione o debolezza, per ogni candida carezza data per non sentire l'amarezza. Senti che fuori piove. Senti che bel rumore…. Sono lontani quei momenti, quando lo sguardo provocava turbamenti, quando la vita era più facile e si potevano mangiare anche le fragole, perché la vita è un brivido che vola via, è tutto un equilibrio sopra la follia…” Fu un attimo, un fulmine, e anche lei mi vide.
Come se fosse la cosa più naturale di questo mondo, sgomitando tra la gente la raggiunsi e ci abbracciammo. Non c’era più rabbia né amarezza in me. La sorpresa di incontrarla lì, con Vasco che cantava una delle nostre canzoni preferite, era la cosa più bella del mondo, un regalo bellissimo e inaspettato. Ci dimenticammo che non eravamo soli e, dopo i rituali: “come stai?”, ci lasciammo trasportare dalla musica e abbracciati ci mettemmo a cantare a squarciagola, con Vasco.
Serena ci raggiunse e allora le misi una mano sulla spalla e le presentai Marina.
«Ah, questa è Marina». Commentò amara Serena, ma Marina cercò subito di stemperare il momento, dicendo:
«Che belli che siete. State bene insieme».
E io, per dimostrarle che era vero, che stavamo veramente bene insieme, strinsi a me Serena.
Ma intanto la canzone era finita e con essa era svanita anche la magia di quel momento e ci salutammo. Serena, serafica, mi tirò per un braccio e disse:
«Sono sicura che tra voi non è finita e tornerete di nuovo insieme».
Udite quelle parole, non provai imbarazzo, le avevo già parlato di Marina, mi sembrava solo di essere stato scoperto, come un ladro, a rubare in chiesa e risposi:
«Ma che dici? Dopo tutti questi anni non ha più senso». Serena sorrise, ma da quel momento rimanemmo in silenzio.
Con Serena finì presto, ci stavo bene con lei, ma l’amore è tutt’altra cosa. Ogni tanto ripensavo a Marina, come non mi succedeva da tempo, e lo dissi anche a Cristina, alla nostra comune amica, e fu proprio lei a combinare il tutto. Prima mi chiese che effetto mi avrebbe fatto rivederla, poi organizzò una festa in cui invitò me e Marina, e l’effetto fu sorprendente. Mi sembrava che il tempo non fosse mai passato, che non ci fossimo mai lasciati. Le dissi che con Serena non aveva funzionato e lei di rimando rispose che ormai da anni era tornata in città, che viveva da sola e non c’era nessun uomo nella sua vita. Dopo la festa, in cui non ci perdemmo di vista un momento, la riaccompagnai a casa, ma nel momento di salutarla le detti solo due baci casti sulle guance. Due centimetri più in là e avrei potuto baciarla sulle labbra. Il nostro imbarazzo era impercettibile ma latente e ci lasciammo con la promessa di rivederci presto, non una promessa generica, che sarebbe andata perduta tra gli impegni di entrambi, ma di vederci presto, l’indomani stesso per andare a cena assieme.
E fu così. La andai a prendere e la portai in un ristorante in riva al mare. La notte era limpida, tiepida come ogni notte di inizio estate e dal mare arrivava una brezza leggera. Bevemmo forse troppo e cercai di farla ridere come un tempo, e questo facilitò quello che stava per accadere.
Appena usciti dal ristorante, Marina si tolse le scarpe e tenendole in mano si incamminò sulla sabbia e raggiunse il mare. Io la seguii nel buio e le misi una mano sulla spalla.
Si girò e riuscii a vedere solo il bianco dei suoi occhi e il candore dei suoi denti. Stavo per baciarla ma lei si svincolò e cominciò a correre. Le tenni dietro e la raggiunsi. L’afferrai per un braccio e finimmo a terra. Scoprii in quell’istante, abbracciati e avvolti dal buio, quanto ancora l’amassi e quanto mi fosse mancata in tutti quegli anni, e finalmente ci baciammo.
Tornammo indietro tenendoci per mano e passando davanti al ristorante sentimmo levarsi nell’aria le note di una delle più belle canzoni di Vasco Rossi: Sally: “… E un pensiero mi passa per la testa, forse la vita non è stata tutta persa, forse qualcosa s’è salvato, forse davvero non è stato tutto sbagliato…”. Ci fermammo e abbracciati ascoltammo sino alla fine la canzone. Il resto della notte la trascorremmo a casa sua e facemmo l’amore come due ragazzi, anche se ragazzi non lo eravamo più.
Oggi siamo sposati e abbiamo avuto due splendide bambine, ora adolescenti che portiamo sempre con noi ai concerti di Vasco, e loro sono felici di cantare con noi le sue canzoni.



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