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QUANDO L´AMORE FINISCE

Pubblicato da: Categoria: IL RACCONTO

19
SET
2018

Quando ci siamo messi insieme io avevo diciassette anni e Giuliano venti. La presi come una storia d’amore leggera, una cosa da ragazzi, una di quelle cotte che sarebbe servita per farmi crescere. Invece la storia è andata avanti e si è trasformata in una cosa seria, tanto che siamo stati fidanzati per sei anni e poi ci siamo sposati.
«Siete troppo giovani». Mi ripeteva mia madre.
«Siete matti». Ci dicevano gli amici che si stupivano nel vedere con quanta fretta cercavamo di mettere su casa e organizzavamo il giorno del nostro matrimonio.
Ma noi non abbiamo ascoltato nessuno e siamo andati dritti per la nostra strada e ci siamo sposati in chiesa: io nel mio abito bianco e Giuliano, elegantissimo, nel suo completo blu scuro.
Ero felice, mi sembrava di essere di colpo diventata grande, mi sentivo realizzata e con la fede al dito e la parola “moglie” sulla bocca ero sicura che la nostra unione sarebbe durata per sempre.
Giuliano era il mio principe azzurro, colui che amavo e che non mi avrebbe lasciata mai. Su questo non avevo dubbi e i primi tempi sono stati felici, pieni d’amore, di sorprese deliziose, emozioni meravigliose e tanti regali. Lui mi amava e mi stava sempre vicino. A letto si addormentava adattando il suo corpo alle curve della mia schiena e mi stringeva. Ci conoscevamo così bene che non c’era bisogno di parlare, di chiedere, sapevamo perfettamente cosa in quel momento ci passava per la testa. Bastava guardarci negli occhi per scoprirlo, per capirci.
Però, allo scadere del terzo anno, come una ghigliottina è calata la mannaia e mi sono sentita come se avessi sbagliato tutto, e iniziai ad avere dei dubbi sulla tenuta del mio matrimonio.
Più mi guardavo dentro, più scavavo con la lente d’ingrandimento, più mi rendevo conto di non provare più niente per mio marito.
Non litigavamo mai. Armonia perfetta? Non lo so, ma poco alla volta cominciai a pensarci, a dubitarne e diventò quasi una fissazione. Una strana trasformazione stava vagando negli spazi infiniti della mia mente e non riuscivo più a ritrovare quell’amore che mi aveva legato a lui, quando eravamo ancora così giovani. Capivo, e mi rendevo conto che stavo andando alla deriva in un mare di noia e apatia. Mi preoccupava l’incertezza del futuro, ma non riuscivo a comprendere quale fosse la fonte della mia metamorfosi, della mia rabbia. Cosa stesse succedendo in me non riuscivo a metabolizzarlo.
Giuliano è una persona come tante. E come tante, crede poco in se stesso, subisce la vita, è convinto di non poterla cambiare e si accontenta. Ama chiacchierare, andare al cinema, giocare al calcetto con i suoi amici e vive in perfetta sintonia con il suo tempo, con le cose che lo circondano. Mentre io sto scoprendo che non mi va più bene niente.
Abbiamo una bella casa in un quartiere residenziale della città e una villetta in campagna a due passi dal mare, dove nei fine settimana andiamo a rilassarci. Lavoriamo entrambi e questo ci garantisce una certa sicurezza economica e, nonostante qualche nuvola passeggera e qualche preoccupazione iniziale, sino ad ora sembrava stesse andando tutto bene... invece.
Ora ho scoperto che quello che ho non mi basta più, sento di avere bisogno d’altro. Sento il bisogno di vivere la mia vita come la voglio io. Ho voglia di ricominciare e sono pronta a tagliare il filo che mi lega a questa esistenza senza futuro e che mi sta incupendo ogni giorno di più. Ho voglia di lasciar correre la fantasia, di dare sfogo ai desideri fin qui inespressi. La vita di tutti i giorni mi sembra ormai vuota, priva di sostanza, mi annoia e non mi basta più. Voglio vivere in un’altra dimensione, più appagante, più gratificante.
Ho voglia di restare sola per capire cosa mi sta succedendo. Ho bisogno di sentirmi circondata da silenzi assordanti per potermi concentrare e pensare. Credevo che sposando Giuliano sarei stata per sempre felice… invece. Invece sono finita in una gabbia, e le sbarre intorno me le sono costruite da sola. Mi trovo in un deserto, ai confini del mondo e non voglio che dei miei anni migliori restino solo ricordi opachi.
Mi sto trascinando senza fine sotto il peso di questa inaspettata infelicità e nei miei pensieri il futuro è tutto nero e i rimpianti prevalgono sulle speranze e le mie aspettative.
Cerco di darmi delle spiegazioni, arrivo addirittura a dare un colore alle mie emozioni. Il presente è bianco, e il bianco è un colore che non sopporto perché non ha confini. Passare una notte in bianco; andare in bianco; alzare bandiera bianca; lasciare il foglio in bianco. Per me il bianco non è nemmeno un colore. Non è niente. Il foglio bianco senza parole, senza note, senza il nero dell’inchiostro è come il silenzio infinito. Invece il futuro lo vedo nero. Nero come il cielo in una giornata di pioggia, nero come la notte, nero come il mare d’inverno.
Ma perché sono diventata così? Perché sto così male e a volte perdo il controllo? Ho bisogno di… nemmeno io so di cosa. Che rabbia mi faccio.
Le prime vere avvisaglie di questo malessere, quelle che mi hanno fatto capire che qualcosa non andava, che qualcosa stava cambiando in me, le ho avvertite quando mi accorsi che non riuscivo più a dormire bene la notte. Faticavo ad addormentarmi, mi svegliavo nel cuore della notte e non riuscivo più a riprendere sonno. Ho provato ad andare a letto tardi: aspettavo che arrivasse il sonno guardando la televisione, sprofondata sul divano, mi preparavo tisane e camomille calde, ma le notti per me si stavano trasformando in un incubo da cui non riuscivo a uscirne.
Giuliano mi vuole bene e anch’io gliene ho voluto, e mi sforzo di convincermi che sia vero, che gli voglio ancora bene. Facciamo l’amore con la solita passione, riempendoci di baci e coccole, ma più passa il tempo più mi appare tutto così ordinario e abituale. Mi sembra di recitare un copione di una commedia già vista e rivista e ormai superata. Ogni volta allo steso modo, ogni volta la stessa cosa e io non provo più nessuna emozione, e ormai partecipo solo per abitudine, per assuefazione. Per non deluderlo.
È sabato, le tre del pomeriggio, ora morta. Sbatte una porta, colpita da una folata di vento. Un vento inaspettato e violento per questa stagione che porta un’aria pesante e salmastra nelle stanze della vecchia casa di campagna. Mentre in lontananza sento il mare che si sta alzando.
Il nervosismo e le ansie del mattino sono andate bruciate facendo prima pigri palleggi con un maestro niente male al circolo tennis e poi correndo con due amiche in pineta. E ora sono qui, in camera mia, alle prese con le prime pagine di un romanzo di Faulkner: premio Nobel per la letteratura, nonché premio Pulitzer. Definito dai critici uno dei più grandi scrittori americani del secolo scorso, ma io non ci sto capendo niente.
Una settimana fa ho preso un giorno di ferie e sono rimasta qui con la scusa di un forte mal di testa. Giuliano, prima di uscire mi ha baciato, mi ha chiesto per l’ennesima volta se volevo che restasse a casa con me, se doveva chiamare il medico. Io sorridevo, lo tranquillizzavo e gli rispondevo sempre di no.
Non vedevo l’ora di restare sola. Avevo un gran bisogno di piangere e così è stato. Appena ho sentito la macchina uscire dal cancello, come un torrente in piena le lacrime hanno iniziato a sgorgarmi e a bagnarmi il viso. E credo di aver pianto, senza ritegno e senza riuscire a fermarle, per più di un’ora.
Non riuscendo a uscire dalla situazione in cui mi sono cacciata, a placare le mie ansie e con i pensieri sempre più cupi, quel giorno di ferie l’ho trasformato in una settimana di malattia.
Sento che mi sto allontanando da lui e l’idea di dover affrontare l’argomento mi sgomenta.
Per tutta la giornata mi sono sentita avvolgere dalla tristezza e mi sembrava di precipitare in un baratro senza fine. La sera, quando Giuliano è tornato a casa, mi ha trovata ancora a letto e il suo sguardo preoccupato mi ha infastidito. Avrei preferito che reagisse diversamente. Avrei voluto essere magari sgridata, ma non compatita. Avrei voluto notare sul suo viso una smorfia di disappunto, invece, con il suo solito modo garbato e accomodante, mi ha chiesto se preferivo una camomilla o una tisana. Tutto mi stava irritando in quel momento. Avrei preferito restare sola per sempre.
Il mattino, dopo aver trascorso l’ennesima notte insonne, mi sono alzata e ho raggiunto mio marito in cucina. Stava armeggiando con la caffettiera e il fornetto. Per farmi una sorpresa, sapendo che mi piacevano tanto, è anche uscito a comprare dei cornetti al cioccolato. Fa di tutto pur di vedermi tornare serena, quella che ero prima. Ma è stato proprio in quel momento che gliel’ho detto, e le parole mi sono uscite all’improvviso, come se non fossi stata più capace di trattenerle.
«Non ti amo più, Giuliano».
Il suo viso è diventato una maschera di ghiaccio ed è rimasto in attesa di ascoltare il resto. Ma il resto non c’era, non avrei saputo che altro dirgli, perché non ero in grado di saperlo nemmeno io, cosa mi stesse succedendo.
La mia voce era uscita così, priva di convinzione, ci stavo provando, ma non riuscivo a dirgli la verità, ad andare avanti. Ma intanto per lui le mie parole hanno avuto l’effetto di una doccia gelata.
«Scusa?» Ha chiesto.
«Non scusarti. Io non ti amo più, c’è poco da dire o da spiegare». Risposi, come se quello che avevo detto non prevedesse nessuna replica, nessun seguito.
«Claudia, che dici? È per qualcosa che ho fatto, per qualcosa che ho detto? Per qualche mia dimenticanza? O hai un altro?»
«Non hai fatto niente. Non hai dimenticato niente. Non c’è nessun altro. In realtà credo che sia solo finita. Non c’è una ragione specifica, un motivo prevalente, e tu non hai nessuna colpa. È solo che mi sono accorta di non amarti più. Mi spiace».
«Forse la colpa è di questa settimana che non sei stata bene. Ripensaci. Aspetta. Vedrai che appena riprenderai i soliti ritmi tutto tornerà come prima. Non sei stata bene e ora sei confusa, stanca, stufa di restare qui da sola. E hai lasciato che la mente vagasse un po’ troppo».
Provò a replicare.
Avrei voluto rispondergli, dirgli tante cose. Magari offenderlo, e a questo punto anche mentirgli. Dirgli che sì, mi ero innamorata di un altro, che avevo un altro, e questo perché ritenevo la verità molto più dolorosa e difficile da spiegare.
Quello che volevo dirgli me lo sono preparato e ripetuto per giorni e giorni: “Noi non siamo più una coppia felice, non conviviamo, noi coabitiamo. Credevo di amarti perché davo per scontato di doverti amare, ma mi sono accorta che non è così. Sento che sto sprecando il mio tempo, senza ottenere nessuna certezza”. Volevo dirgli queste cose, ma non ne ho avuto il coraggio e mi sono messa a piangere.
Giuliano si è avvicinato e mi ha stretto tra le sue braccia.
«Prendiamoci una vacanza. Partiamo. Andiamo dove vuoi tu, dove più ti piace. Prendiamo le ferie anticipate, procuriamoci dei certificati medici, inventiamoci qualcosa, qualunque cosa pur di tornare come eravamo prima. Vedrai, riusciremo a mettere tutto a posto. Penso che tu sia solo stanca. È solo un periodo in cui vedi tutto nero, ma vedrai che le cose cambieranno. Io ti voglio bene, te ne ho sempre voluto, amore. E anche tu, ne sono sicuro, me ne vuoi ancora».
L’ho guardato rassegnata. Stavo per cedere, ma se in quel momento non fossi riuscita a trovare il coraggio di lasciarlo, di chiudere con questo matrimonio che ormai non mi da più niente, se non l’illusione di un rapporto perfetto e solo perché lui mi ama ancora, sarei arrivata alla soglia della pazzia e avrei continuato a tormentarmi per sempre.
A volte è meglio essere diretti, magari passare per cattivi, piuttosto che trascinare avanti una situazione che ormai non ha più senso. Mi sono fatta coraggio, mi sono liberata dalla sua stretta, ho respirato profondamente e gli ho risposto:
«No, Giuliano. Nessun viaggio, niente ferie anticipate. Non servirebbe a niente. La verità è che mi sono innamorata di un altro. Sì ho un altro».
«Di chi? Chi è? Un tuo collega? Spiegati meglio».
«No. Nessun collega e non mi va di parlarne. Ho ritenuto giusto dirtelo perché sto per lasciarti, sto andando via».
«E dove vai? Vai a vivere con lui?» Mi ha chiesto, con la voce rotta dal pianto che a stento riusciva a trattenere.
Non gli ho risposto. Ho lasciato che il silenzio facesse il resto. Gli ho dato un bacio sulla guancia, l’ho accarezzato e sono tornata in camera.
Non so da dove cominciare, non so dove andare, ma ormai sono riuscita a liberarmi del peso che mi opprimeva e non voglio più tornare indietro.

 



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