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IL RACCONTO/COSE DA RAGAZZI

Pubblicato da: Categoria: IL RACCONTO

5
NOV
2018

La professoressa di storia e filosofia sta male e oggi non viene. La sostituirà una supplente. Sarà la solita sfigata, e anche se a mia madre non piace sentirmi dire certe cose io le dico lo stesso.
Primo: perché la supplente sostituisce un professore che di per sé è già uno sfigato di suo.
Secondo: perché lavora solo quando qualcuno si ammala o si assenta.
Terzo: perché una così porta sfiga non solo a se stessa ma anche agli altri.
Invece in classe entra un professore giovane. Giacca e cravatta, serio, preciso e porta gli occhiali. Posa una borsa pesantissima sulla cattedra e ci saluta. Non ricordo il suo nome, l’ha detto ma stavo parlando con Giulia.
Giulia è la mia compagna di banco, siamo amici da sempre e con lei posso parlare come voglio perché mi capisce al volo e sa come prendermi. Peccato che le manchi quel tocco in più: quella magia, quell’incanto, quel non so che. Quello che invece possiede Serena, che quando posa lo sguardo su di me comincio a sognare. Serena non fa parte della mia classe, ma frequentiamo la stessa scuola e sto aspettando il momento giusto per potermi dichiarare.
Il supplente cerca di fare lezione, di riportare ordine, ma come tutti i supplenti non ci riesce. Chiede dove siamo arrivati con il programma ma nessuno risponde, nessuno se lo fila. Anzi, per noi è l’occasione buona per fare caciara e ridere alle sue spalle.
A un certo punto alzo la mano e gli chiedo perché abbia scelto di fare questo mestiere e, sottovoce, in modo che non mi possa sentire, aggiungo da sfigato. Giulia, seduta accanto a me, si mette a ridere e, per non farsi scorgere, si china in avanti e nasconde il viso tra le mani.
«È per via di mio padre. Anche lui faceva l’insegnate e una volta mi ha raccontato una storia». Risponde serio il supplente.
«La racconti anche a noi professore, se la ricorda». Gli ho chiesto, mentre Giulia mi dava di gomito e mi pregava di smetterla.
«Come ti chiami?»
«Andrea». Ho risposto.
«Allora Andrea, devi sapere che Mohammed Magredin era un ragazzino estremamente povero che abitava al Cairo, in una casa che aveva un piccolo giardino con dentro un albero di carrube e una fontana. Un giorno si addormentò sotto l’albero e sognò un uomo che gli dava una moneta d’oro e gli diceva: Svegliati. La tua fortuna è in Persia, a Isfahan. Lì troverai un tesoro… vai! Mohammed si svegliò tutto sudato e partì di corsa per andare a cercare il tesoro ma, arrivato sul posto, venne scambiato per un ladro e bastonato a sangue dai gendarmi. Poi qualcuno gli chiese chi fosse, da dove venisse e cosa stesse cercando. Lui raccontò la verità e i gendarmi si misero a ridere. Ma uno gli rispose: Scemo, e tu credi ai sogni. Io ho sognato tre volte una casa che si trova al Cairo, Una casa che in giardino ha un albero di carrube e una fontana, e proprio sotto la fontana un tesoro. Ma io non sono mica scemo come te… non mi sono mai mosso di qui. Torna a casa, che sei solo un piccolo credulone. Il ragazzino tornò a casa, scavò sotto la fontana e trovò uno scrigno pieno di monete d’oro».
«Tutto qui?» Ho chiesto. Il supplente si è alzato, ha fatto un passo in avanti, si è appoggiato alla cattedra e ha aggiunto:
«Sì. Tutto qui. Però quel giorno ho imparato da mio padre che l’uomo è libero di fare quello che gli piace, quello che ritiene opportuno e, soprattutto, che può perseguire i propri sogni. Ed è proprio grazie a questa libertà, che ognuno di noi può scegliere ciò che vuole fare. Non rinunciare mai ai tuoi sogni Andrea, come io non ho rinunciato a seguire il sogno di diventare insegnante. Questo è il consiglio che mi sento di darti».
Tutta la classe è rimasta in silenzio, e mi ha dato fastidio che questo tipo sia riuscito ad attrarre l’attenzione di tutti i miei compagni.
Nel pomeriggio vado a giocare al calcetto. La squadra avversaria è composta da cinque figli di papà e non gli diamo nemmeno il tempo di scendere in campo, di capire chi sono i loro avversari che si trovano già sotto di tre goal. Di cui uno l’ho segnato io.
A proposito, mi stavo dimenticando del compleanno di Serena. Meglio che le mandi un sms: “Ciao Serena, sono Andrea, quello della terza A. Quello con i capelli rossi come i tuoi. Per il tuo compleanno che farai di bello?”
Non ha risposto al mio messaggio e ci sono rimasto male. E, peggio, sono sicuro di aver fatto la mia solita figuraccia e mi sto innervosendo. È bellissima. Ha gli occhi chiari e i capelli rossi e non è fidanzata. L’anno scorso sono stato alla festa del suo compleanno ed è stato bellissimo.
Perché non mi risponde, forse non mi vuole invitare più?
Prima di addormentarmi do un’ultima occhiata al display del cellulare. Un messaggio! Sarà la risposta che aspettavo. “Buona notte, a domani. G”. È un messaggio di Giulia. Come vorrei che questa G si trasformasse in una S, e non riesco ad addormentarmi.
Le giornate si susseguono, ma Serena deve essere influenzata perché non viene a scuola da tre giorni. L’influenza gira, e mai una volta che me la prenda anch’io.
Serena continua a non venire a scuola, non la vedo da due settimane. Do un passaggio a Giulia e chiedo sue notizie.
«Serena ha la leucemia e le stanno facendo delle trasfusioni di sangue». Mi risponde seria e io ho dovuto accostare, fermarmi per potermi girare, guardarla in faccia e chiederle se stesse scherzando.
«Ecco perché non viene a scuola. Ecco perché è sparita. Leucemia. Ma perché esiste una malattia simile? Ma forse si può guarire, vero?». Le chiedo.
Tornando a casa mi domando perché Giulia, che è sempre carina con me e mi sta sempre vicino, non mi stia a cuore come Serena.
Sono andato in ospedale per donare il sangue, ma mi hanno detto che per i minorenni c’è bisogno del consenso dei genitori. Ma io non voglio dire niente a nessuno. Serena è il mio segreto, il mio sogno e di lei non ho mai parlato con nessuno, nemmeno con Nando, il mio migliore amico.
Cerco di concentrarmi nello studio, ma non ci riesco. Il mio sogno si sta sgretolando come un castello di sabbia. Serena ha bisogno di me e io non posso aiutarla. Ho parlato con mia madre del sangue che voglio donarle, ma ha risposto di chiedere a mio padre.
Ne parlo con Giulia: è l’unica che mi capisce, che mi sta a sentire. Si stringe a me e si appoggia alla mia spalla, solleva la testa e mi osserva con espressione tristissima.
«Tutto è nelle mani di Dio e i medici stanno facendo il possibile. Tra un po’ verrà anche operata, ma ha tanto bisogno di sangue». Risponde.
La fisso e ho la sensazione di non aver capito cosa volesse dire.
Con mio padre vado in ospedale, dove è ricoverata Giulia e dono il sangue, ma non mi permettono di vederla, dicono che si trova in una stanza asettica, isolata e che non può avere contatti con nessuno. Usciamo dall’ospedale e papà mi chiede come mi sento, mi dice che sono pallido come un cencio e mi porta a fare colazione. Ci sediamo al tavolino di un bar e per me ordina due cornetti grondanti crema e un succo di frutta. Mi sento strano, stanco, ma sono felice.
Serena è tornata a scuola. È più magra, più pallida. Ha i capelli cortissimi e il rosso è diventato più opaco. Gli occhi sono sempre chiari ma sembrano tristi. Vorrei parlarle, dirle che sono contento che sia tornata, che le ho donato il sangue, ma poi capisco che è meglio se sto zitto. Le scriverò una lettera.
Ma non ho mai scritto una lettera a una ragazza e non posso nemmeno scaricarla da internet. Dove lo trovo quello che voglio dirle? Dovrei spremere le meningi. Almeno ci dovrei provare. Ci penserò.
Intanto sono in ritardo sul programma e ho bisogno di recuperare lo studio arretrato. La professoressa d’italiano, con la sua voce nasale, sta spiegando un canto della Divina Commedia e Giulia, che è accanto a me, mi sprona, mi dice di prestarle attenzione, ma io non ci riesco. Mi perdo. Giulia mi stringe un braccio e mi fissa. Ha capito a cosa sto pensando, mi fa una carezza e io torno in quell’aula.
Ci sono pomeriggi che non ho voglia di fare niente e rimango chiuso nella mia stanza ad ascoltare musica, in questa stanza vuota, senza nessuno con cui parlare. Chiamo Giulia ma non risponde. Allora le mando un sms:
“Chiamami appena puoi”.
Serena è di nuovo in ospedale. Ha perso tutti i capelli e non si alza più dal letto. Voglio andare a trovarla e chiedo a Giulia di accompagnarmi.
Camera 25, mi dice un’infermiera. Ci viene incontro una signora magra, affaticata e prostrata. Nella penombra della stanza c’è un solo letto e su quel rettangolo, immersa nel bianco, vedo una figura minuta e rannicchiata. Mi avvicino e intanto mi dico che quella non può essere Serena. Non può essere lei. Quella che osservo sul letto è una bambina. Ha il viso magrissimo e scavato. La pelle incolore. Ha un ago che le entra nel dorso della mano. Non ha i capelli e dorme tranquilla. Sul comodino un cellulare, una bottiglia d’acqua e una fotografia che ritrae la bambina con la mamma che sorride. Questa bambina ha i capelli rossi.
Questa figura sul letto, che sembra una bambina è lei, è Serena. Sono talmente confuso e sorpreso che non so cosa fare. Cerco Giulia, ma nella stanza non c’è. Aspetto due minuti, saluto la signora e quando esco, trovo Giulia appoggiata alla parete. In mano un fazzolettino e gli occhi gonfi di pianto.
Sono di nuovo a scuola. Cinque ore di lezione. Cinque ore di noia e apatia. Sono stato ripreso dalla professoressa di matematica e l’ho mandata a quel paese. Nota sul registro, fatto uscire dall’aula e invitato a venire a scuola con i miei genitori. Mi sembra un’enorme e colossale cavolata, ma non m’importa. Giulia esce dietro di me e mi viene vicino, mi fa una carezza e mi dice:
«Ma cosa combini?» E io le rispondo:
«Ho paura Giulia. Ho paura di tutto. Temo per Serena. Ho sempre davanti agli occhi la sua immagine senza capelli e il suo viso così pallido. Il trapianto di midollo non è andato bene e Serena sta sempre peggio».
Silenzi. Tutto intorno a me è silenzio. Un silenzio che mi raggela il sangue. Giulia mi prende per mano e usciamo da scuola. L’accompagno a casa, ci salutiamo e proseguo per l’ospedale.
Da un po’ vado a trovare Serena quasi tutti i giorni e ogni volta le porto qualcosa: un fiore, un cioccolatino, una poesia. Le parlo della scuola, dell’aiuto che mi sta dando Giulia e di come mi stia sempre vicino. Le parlo delle prossime vacanze e le chiedo dove vorrebbe andare quest’estate.
Serena rimane in silenzio, alza lo sguardo verso il soffitto, si porta un dito alle labbra e non risponde. Ammutolisco anch’io. Poi dal cassetto tira fuori un quaderno e me lo porge.
«È il mio diario. Pensavo di scriverlo per me, ma mi sono accorta che era per te che lo stavo scrivendo. Da un po’ di giorni mi sento stanca e non ho più la forza di andare avanti. Conservalo tu».
Mi dice e aggiunge:
«Ti brillano gli occhi quando parli di Giulia. Tienitela stretta, per te non è solo una cara amica. Ti vuole bene». Mi sento le lacrime agli occhi, la saluto ed esco portandomi via il diario.
È lunedì, sono le otto e mi aspetta un’altra giornata campale, con il compito d’italiano che incombe come un macigno su di me. Guardo Giulia e lei capisce che mi sto mettendo nelle sue mani. Mi defilo, mi lascio andare ai miei pensieri e lascio fare tutto a lei.
Sto rischiando di perdere l’anno e ho chiesto a Giulia di aiutarmi e lei ha accettato di venire tutti i pomeriggi a casa mia. Studiamo assieme e mi aiuta a risollevarmi. In qualche modo la sua presenza e le sue parole sono una sicurezza, una ventata di speranza. Una volta mi ha anche chiesto se volevo pregare per Serena.
«Vuoi che preghiamo assieme?» Ha chiesto. Ma io ho risposto che mi fidavo di lei e ho aggiunto:
«Se Dio esiste, sicuramente ascolterà le tue preghiere».
Giulia mi guarda con un sorriso che si mescola alle lacrime e non dice più niente.
Torniamo a piegarci sui libri, ma non riesco a concentrarmi. Continuo ad avere davanti agli occhi il viso di Serena, il suo sguardo sconfitto che lentamente si sta spegnendo.
Ogni giorno che passa, come un relitto alla deriva, la sua vita si sta allontanando per sempre.
Mentre Giulia sta traducendo dei versi di un poeta latino, io la guardo ma non capisco, seguo solo il movimento delle sue labbra. Lei, comprensiva, chiude il libro e mi viene vicino.
Di mattina vado a scuola e nel pomeriggio torno da Serena.
«Grazie di essere venuto. Oggi mi sono sentita così male».
«Che vuoi dire?» Le chiedo preoccupato.
«Ho paura Andrea, e temevo di non rivederti più».
«Io sono qui». E le sorrido. Non ci sono parole per esprimere quello che sto provando e allora sto zitto, anche se il dolore continua a martellarmi in petto.
È trascorso un altro giorno, torno a scuola e trovo Giulia che mi sta aspettando nel cortile.
Come mi vede mi viene incontro e m’abbraccia. Sento il suo profumo.
«Serena è morta». Mi dice, e accosta il viso al mio.
La parola è questa: “morta”, ed è talmente violenta che la dice una sola volta e poi sta zitta.
Avrebbe potuto dire è mancata, se n’è andata, è venuta meno. Balle. La parola giusta, anche se è così violenta e crudele, è quella: morta.
La chiesa è affollata di persone, c’è tutta la scuola e tutti stiamo guardando la bara ricoperta di fiori. Un prete celebra la messa. Parla, dice qualcosa, s’inginocchia, si rialza e ripete il nome di Serena. Tutto questo mentre io sto urlando di rabbia e tengo il diario di Serena stretto al petto.
Tornato a casa, apro il diario e leggo:
“Caro Andrea, eccomi qui che mi ritrovo a pensare a te, e allora ho deciso di scriverti…”
Ma non riesco a leggere oltre, gli occhi si riempiono di lacrime e le righe si confondono.
Non vedo più quello che c’è scritto e non riesco ad andare avanti.
È sera. Sono nella mia camera, steso sul letto. Mia madre ha capito e mi lascia stare. Non viene a chiamarmi per cena e nemmeno quando rientra mio padre.
Sento arrivare un sms. È Giulia che mi dice di essere sotto casa mia e vuole vedermi.
«Mamma, esco un attimo. Giulia vuole parlarmi».
Piove ed è bagnata come un pulcino. La prendo per mano e la porto in camera mia. Lei mi guarda e mi abbraccia.
“Ti voglio bene”. Dicono i suoi occhi.
“Anch’io”. Rispondono i mei.



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