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IL RACCONTO/I RICORDI DI UN PADRE

Pubblicato da: Categoria: IL RACCONTO

20
NOV
2018

Ti sei svegliato e hai chiamato mamma, mi sono precipitato e ti ho detto che sta dormendo.
Dopo giorni trascorsi accanto al tuo lettino, ora sta riposando. Sta dormendo nella stanza accanto e tu stai finalmente bene.
Ti accarezzo il viso, avvicino le labbra alla tua fronte e capisco che la febbre è finalmente scomparsa. Sei ormai in via di guarigione e stai riprendendo anche il tuo colorito di sempre. Ti è tornato l’appetito e sono sicuro che il peggio è ormai alle spalle.
Ma che paura ci hai fatto prendere. La febbre improvvisa e così alta, la tosse che non ti dava tregua. Gemevi e non avevi nemmeno la forza di piangere, tanto stavi male ed eri abbattuto.
Hai preso freddo domenica scorsa, quando siamo stati all’agriturismo. Era una bella giornata di sole e sei voluto rimanere sempre all’aperto, hai corso, hai giocato, ti sei sfrenato. Non stavi mai fermo, hai sudato e già in macchina, sulla strada del ritorno, hai cominciato a tossire.
Tossivi sempre più forte e il tuo visino si è arrossato, poi, appena tornati a casa, mentre la mamma ti svestiva per farti il bagnetto, cominciasti a tremare tutto e scoprimmo che avevi la febbre alta. Respiravi a fatica e ti lamentavi. Dicevi che ti faceva male il pancino e cominciasti a vomitare.
Abbiamo chiamato il pediatra e anche se era domenica è venuto subito e ti ha visitato. Ti ha fatto aprire la bocca, ti ha abbassato la lingua, ti ha guardato in gola; ti ha misurato la febbre e ha fatto una smorfia quando ha visto quanto era alta. Ti ha auscultato, ti ha fatto una puntura per calmare la tosse e ti ha prescritto la cura: antibiotici, aerosol, vitamina c e pomata da spalmarti sul petto. Ci ha anche suggerito, quando ti saresti ripreso, di portarti qualche giorno in montagna per farti respirare aria salubre perché ti eri preso una broncopolmonite, probabilmente originata da un’infezione batterica. E aggiunse che era importante verificare il decorso della malattia nelle settantadue ore successive.
Ma dopo tre giorni non era cambiato ancora nulla. Avevi sempre la febbre alta, tossivi, continuavi a vomitare ed eri diventato uno scricciolo. Sembrava che il cuoricino dovesse scoppiarti in petto, tanto eri scosso dalla tosse. Il pediatra tornava ogni giorni e una volta paventò la necessità di ricoverarti in ospedale. Puoi immaginare come abbiamo preso la notizia, la mamma ed io. Poi, piano piano, la febbre ha cominciato a scendere e la tosse a darti tregua e ora, dopo più di una settimana, finalmente sei in via di guarigione.
Mi stai guardando, sorridi e chiedi di mamma, io mi metto l’indice sulla bocca e sottovoce ti ripeto che mamma è stanca e sta dormendo. Allunghi le manine e vuoi venirmi in braccio. Ti porto in cucina, ti faccio sedere sul seggiolone e accendo il televisore già sintonizzato sui cartoni animati e ti do la merendina.
Mentre mangi, mi soffermo a guardarti finalmente sereno e penso che tra una settimana dovremmo organizzarci per portarti qualche giorno in collina, a casa dei nonni, visto che qui di montagne proprio non se ne vedono.
Ti guardo in silenzio e spero tu sia definitivamente guarito perché abbiamo tanta strada da fare assieme. Ti accarezzo i capelli con tutto l’amore che un padre può avere per un figlio della tua età. Hai ancora tre anni, ma io ti vedo già grande. Cresci in fretta, perché ho voglia di fare tante cose con te. Voglio giocare con te, insegnarti ad andare in bicicletta e guidare la macchina. Voglio portarti allo stadio. Voglio proteggerti dai mali del mondo, ma voglio anche essere il migliore pessimo esempio che tu possa avere, perché con te voglio fare pazzie.
Tra qualche giorno ti porteremo a casa dei nonni e tu dormirai nella stanza dove sono nato, dove dormivo e giocavo io, ti farò vedere il posto dove mi andavo a nascondere quando facevo una marachella e temevo la reazione di mio padre.
La nonna ti racconterà delle belle storie, ma stanne certo, saranno tutte vere. Ti racconterà dei loro tempi andati, di quando sul televisore, ancora in bianco e nero e con due soli canali, sua madre metteva un centrino ricamato per proteggerlo dalla polvere. Ti parlerà di topo Gigio e di Heidi, dei bambini che giocavano per strada ed erano felici se riuscivano a procurarsi un cerchio, un tamburo di latta. Ti racconterà che ai maschietti bastava un pallone spelacchiato, le pistole di Tex Willer, il meccano, la raccolta delle figurine Panini e una bicicletta sgangherata, per essere felici.
Ti dirà che qualche fortunato riceveva dalla befana un trenino elettrico, e allora tutti i bambini del paese andavano a vederlo sfrecciare sulle sue rotai luccicanti. Le femminucce (in attesa dell’arrivo di Barbie), si accontentavano delle bambole di pezza cucite dalle loro mamme; giocavano alla campana, a un due tre stella! Invece le più grandicelle si pavoneggiavano in sella alla loro Graziella, passata di mano non si sa quante volte.
Allora non c’era internet, non esistevano i tablet, non c’erano i telefonini e nemmeno le calcolatrici. I ragazzini, per superare gli esami, dovevano studiare e fare tutto da soli: piegarsi su enciclopedie pesanti come mattoni e andare a scuola con il piccolo Palazzi nella cartella. Per le ricerche di geografia non c’era altro da fare che sfogliare l’atlante illustrato, passato anch’esso, come la Graziella, di mano in mano perché, come dicevano i vecchi, il mondo è sempre uguale e non c’è bisogno di buttare i soldi dalla finestra per comprarne uno nuovo.
La nonna ti racconterà dell’ansia che le facevo venire quando, dopo aver trascorso un intero pomeriggio a tirare calci a un pallone, tornavo a casa tutto sudato e la sera, puntuale, mi veniva la febbre.
Iniziava con le solite litanie, mi rimproverava, ma poi mi dava l’aspirina e lo sciroppo e restava alzata quasi tutta la notte per controllarmi la febbre. Tuo nonno no. Il nonno era tranquillo, pacato e per niente ansioso. Era sicuro, diceva, che la febbre, dopo avermi fatto crescere un altro paio di centimetri, sarebbe sparita nel volgere di qualche giorno. Insomma, non si preoccupava più di tanto, però, se per tutta la notte continuavo a tossire, si alzava, si avvicinava al mio letto, si metteva le mani sui fianchi e diceva:
«Ma tu, proprio di notte devi rompere? Hai tutta la giornata per farlo, adesso non potresti smetterla e dormire un po’ che domattina devo alzarmi presto?» Ma lo diceva così… non era arrabbiato.
Hai finito la merendina, ma intanto ti sei incantato a guardare i tuoi cartoni preferiti: I Super Pigiamini, e ora non ne vuoi sapere di tornare nel tuo lettino. E io non insisto per non svegliare mamma.
Ti lascio tranquillo sul seggiolone a guardare i cartoni e intanto ritorno a parlarti dei nonni. Di mio padre che faceva il contadino e a tempo perso aggiustava orologi.
E ti dico subito che fece senza dubbio un brutto affare quando acquistò la loro casa sgangherata e fuori mano. Ma siccome era immersa nel verde e aveva tanta terra attorno, decise che per lui sarebbe andata benissimo e tranquillamente incominciò a firmare una montagna di cambiali (i mutui non esistevano ancora). Fece sacrifici, lavorò per diversi proprietari terrieri e anche per altri contadini, pur di togliersi in fretta il debito della casa, ma per lunghi anni i suoi sforzi ebbero un andamento stentato e solo a una certa età riuscì ad alleviare le sue preoccupazioni finanziarie e le ansie di mia madre.
La casa era stata costruita alla fine degli anni quaranta, secondo le esigenze dei contadini di allora: sotto, interrata, la cantina; al piano terra le stalle e il ricovero per il trattore, l’aratro e gli attrezzi; sopra la cucina e le stanze da letto che si raggiungevano attraverso una ripida scala esterna e, sopra ancora, il fienile. La ritirata si trovava a mezza scala, sul ballatoio, tra le stalle e la cucina e solo dopo una robusta ristrutturazione della casa, voluta da mia madre, furono realizzate le scale interne e un bagno con la vasca e l’acqua calda, più il riscaldamento in tutte le stanze.
Mio padre, per come lo ricordo allora, era un uomo alto e robusto, con una folta barba e pochi capelli e che in vecchiaia dovette ricorrere agli occhiali da vista. E sono sicuro che l’unico lusso che si concesse in tutta la vita, sia stata quella montatura in tartaruga.
Nel riandare agli anni della mia adolescenza lo vedo, la sera dopo cena, chino sul tavolo della cucina, il lampadario abbassato quasi a toccargli la fronte, gli occhiali sopra la testa e il monocolo incastrato nell’orbita dell’occhio destro. Si rilassava aggiustando una pendola, un orologio a cucù o una cipolla (quell’orologio che si portava nel taschino del gilet e si assicurava a un bottone dello stesso con una catenina).
Mio padre non guardava mai la televisione, si dilettava con i suoi orologi. E lo ricordo mentre armeggiava con certe pinzette e cacciaviti così piccoli e minuti che non so come riuscisse a tenerli tra le sue mani callose. Talvolta, quando riusciva ad aggiustarne uno, mi chiamava e mi faceva vedere com’era riuscito a dare il giusto ritmo al pendolo o mi faceva sentire il ticchettio dell’orologio. Poi, soddisfatto, lo appendeva a una parete della cucina, agganciava pesi e pendolo, lo caricava e per qualche giorno rimaneva lì, tra il Crocefisso e la Madonna, a fare bella mostra di se. Nei giorni seguenti, quando tornava dai campi, accendeva la televisione, controllava l’ora esatta e rimaneva a guardare gli orologi. Orologi che non erano nostri, ma di vicini o parenti e per questo, spesso, capitava di non averne nemmeno uno in casa e allora, per alzarsi, si regolava con il canto del gallo.
A volte, appena finito di piovere e non potendo andare nei campi, andava a raccogliere le lumache che più grosse erano più lo rendevano felice. Le domeniche d’autunno, invece, dopo aver governato gli animali e fatto qualche lavoretto, prendeva il cesto di vimini e il bastone e andava alla ricerca di funghi.
Gli interessi di mio padre erano essenzialmente quelli: le sue bestie, i suoi campi e i suoi orologi, mentre di me non si preoccupava più di tanto. Così, gran parte dell’educazione che ho ricevuto la devo a mia madre, perché sono stati i suoi ininterrotti borbottii e insegnamenti, su ciò che era giusto e non era giusto fare, a farmi diventare quello che sono.
Ripeteva che ai suoi tempi la gente umile doveva stare al proprio posto, lavorare sodo e stare zitta, mentre i ricchi erano tutti uguali, sempre eleganti, arroganti e prepotenti; non si accontentavano mai e volevano sempre di più. Diceva che la gente del paese era quasi tutta povera e in gran pare analfabeta, mentre i ricchi avevano studiato, mangiavano tre volte al giorno e se chiamavano qualche disgraziato a lavorare per loro, a fine giornata il poveretto si trovava in mano una miseria, quattro soldi che non bastavano nemmeno per comprare un etto di mortadella o una scodella di latte. Ma quei disgraziati dovevano stare zitti e piegare la testa, perché, se si fossero ribellati, non sarebbero stati più chiamati e avrebbero sofferto la fame un giorno di più. E guai se uno della famiglia si fosse ammalato, allora sarebbero stati guai seri. Trovare i soldi per comprare le medicine era sempre un’impresa. Tra miseria e malattie, ripeteva mia madre, l’unica cosa certa era la fame quotidiana.
«Ma mamma, non avevate le galline, gli animali?» Chiedevo.
«Sì, certo. Ma gli animali finivano in padella solo se erano ammalati o si ammalava uno della famiglia». Rispondeva sdegnata.
«Meglio di noi, stavano gli animali nella stalla. Almeno loro avevano sempre da mangiare, sia d’inverno che d’estate, mentre noi…» E scuoteva la testa.
Stranamente, però, anche se sono sicuro di aver trascorso molto più tempo con mia madre, la sua personalità mi rimane assai meno definita di quella di mio padre, e questo forse perché aveva poco da dire, salvo la perpetua lagna sui ricchi, la religione, la devozione e l’educazione. Per il resto si limitava a sbrigare le faccende in silenzio e con aria desolata. O forse era semplicemente rassegnata, questo non saprei spiegartelo.
A volte la vedevo piangere. E fu intorno ai dieci anni, o almeno mi pare, che mi resi conto che era il vizio di mio padre la causa delle sue lacrime. E mi ci volle ancora qualche anno per scoprire che il vizio di mio padre aveva a che fare con l’alcol. Poi, crescendo, mi è stato ben chiaro che beveva da sempre e continuava a farlo in modo smodato. E non c’è dubbio che ciò abbia influito negativamente anche sulle entrate e l’economia di casa nostra.
Io continuo a parlarti, ma intanto tu, guardando la televisione, ti sei riaddormentato. Ti tocco la fronte ed è fresca, Sei ancora un po’ debilitato a causa di tutti questi giorni di febbre e farmaci, ma ormai possiamo dire che sei guarito.
Si è svegliata mamma, ci ha raggiuti in cucina e subito mi ha rimproverato perché ti ho lasciato dormire sul seggiolone. Senza darmi il tempo di spiegare, ti prende in braccio e ti riporta nel tuo lettino ma forse tu non sei ancora del tutto addormentato, perché ti sento dire:
«Mamma, voglio andare a casa di nonna Giagi e nonno Ociar, mi aspettano per raccontarmi tante storie e tutte vere, di quando erano grandi loro e di quando era piccolo papà».
Ho sorriso, per come hai chiamato nonna Giovanna e nonno Oscar, ma va bene così, sono dei diminutivi che mi piacciono e sono sicuro che piaceranno anche ai nonni.



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