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IL TRASFERIMENTO IN CAMPAGNA

Pubblicato da: Categoria: IL RACCONTO

1
DIC
2016
Forse perché, dopo tanti anni d’assenza, andammo d’inverno a visitare quella casa, così, quando tornammo in città, mi sentii invadere da una sensazione di disagio, di tristezza. E sebbene io non fossi un tipo molto socievole e portato a legare facilmente con gli estranei, quel luogo lo trovai davvero desolante, e il trasferimento in quella casa una punizione immeritata.
Il nome del paese era bello, San Giovanni in Fiore,ed era un borgo di case rurali abbarbicato in cima a una collina e attorniato dalverde, o meglio da altre colline e da una distesa infinita di pascoli e boschi, ma il lato positivo del luogo si esauriva li.
Le strade erano deserte, non si vedeva anima viva ad eccezione di qualche anziano pensionato, e da una rapida occhiata capimmo quello che già sospettavamo, e cioè che non c’era nulla, non un cinema, non un supermercato, solo qualche negozietto, il tabaccaio e due bar. E anche la scuola era stata chiusa per mancanza di alunni e i pochi ragazzi rimasti mandati a lezione in un paese vicino. La chiesa restavaaltrettanto chiusa, tranne la domenica mattina, come informava un cartello appeso al portale, quando, sempre dal paese vicino, veniva un sacerdote a celebrare una sola messa.
La casa tuttavia non era male, sebbene fosse piuttosto modesta e avesse bisogno di una robusta ristrutturazione, intorno aveva anche un piccolo fazzoletto di terra che nella bella stagione mi avrebbe permesso di coltivare dei fiori e qualche ortaggio, eper me emia moglie,una coppia che si stava avviando velocemente verso la terza età,aveva tutto ciò che poteva servire, ma era comunque una magra consolazione.
Ma eravamoobbligati ad affrontare una situazione imprevista, della quale non eravamo per nulla preparati e che io trovai ingiusta, perché nel mio futuro avevo immaginato una vecchiaia serena e tranquilla,trascorsa in città. Invece ecco che tutto si stava per capovolgere. 
«Hai ragione Erminio, ma vedrai che poi ci abitueremo. Ora la gente se ne sta rintanata al calduccio, ma è un luogo di villeggiatura e nella bella stagione vedrai che il paese si rianima. Ma ci pensi che bello? Per la prima volta in vita nostra avremmo una casa tutta nostra, di proprietà, dalla quale non potrà mandarci via nessuno». Mi disse Francesca, vedendomi sconsolato e sapendo che non ero per niente convinto. 
Ma aveva ragione lei, ed'altronde non c’era altra soluzione al nostro problema. Un problema che si era presentato circa otto mesi prima, quando il proprietario dell’appartamento in cui abitavamoda anni ci disse che lo stava mettendo in vendita. Per noi era impensabile poterlo acquistare, perché le nostre risorsefinanziarie non lopermettevano e accendere un mutuo, alla mia età,non me la sentivo proprio. 
Avevamo allora iniziato a cercare altrove, a rivolgerci a delle agenzie immobiliari, ma gli affitti per una casa appena dignitosa risultaronotutti troppo alti per noi. Io avevo lasciato da poco l'insegnamento ed ero in pensione, mentre mia moglie da sempre faceva la casalinga. Un bel problema davvero il nostro. 
E mentre una processione di persone veniva a visitare l’appartamento, noi attraversammo quel periodo nella tensione e nello sconfortopiù assoluto e sperando, ogni volta che i potenziali acquirenti se ne andavano via, che non loavessero trovato di loro gradimento. E invece, un bel giorno, una coppia di futuri sposi lo ritenneperfetto per le loro esigenze e lo acquistò, e a quel punto per noi iniziò un calvario di ricerche affannose e delusioni cocenti.
Ma proprio quando non sapevamo più come uscire da quella situazione, ci venne in aiuto una cugina di mia moglie che ci chiese perché non prendevamo in considerazione l’eventualità di andare ad abitare nella vecchia casa dei genitori di Francesca, a San Giovanni in Fiore. Mia moglie le rispose che quella casa aveva più dicento anni e non sapeva neppure se fosse ancora agibile. Sentendola, la cugina scoppiò in una fragorosarisata e le rispose che la casa era sempre lì e che dopo la morte dei genitori non era stata più abitata. E aggiunse che era sì una vecchia casa di campagna masolida, con le pareti spesse e robusteeche aveva anche un grande caminetto; che magari aveva bisogno i qualchelavoro di ristrutturazione, di ammodernamento, ma la casa era nostra, in quanto eredi, ed era un peccato non approfittarne.Io e mia moglie ci guardammo stralunati, perché non ci avevamo mai pensato. Sapevamo della vecchia casa dei suoi genitori, ma non avevamo mai considerato di andarci ad abitare, e quando la cugina lo disse, il mio primo pensiero fudi venderla, così che, con il ricavato, avremmo potuto acquistarne una in città.
Le agenzie immobiliari con cuiprendemmo contattoci tolsero però subito ogni speranza. Forse si sarebbe potuta anche vendere, ci dissero, ma ci sarebbe voluto tempo e noi non ne avevamo. E poi l’immobile era così modesto che avremmo ricavato ben poco e comunque non a sufficienzaper l’acquisto di una nuova casa in città.
Così, non avendo alternative, una mattina d’inverno, decidemmo di andareal paese per renderci conto di come si presentava la casa. 
«Se ci hanno abitato per tanti annii nonni e dopoimiei genitori, possiamo farlo anche noi. E questo risolverebbe di colpo tutti i nostri problemi».
Mi disse Francesca, per vincere le mie perplessità, ma io lo sapevo, non c’erano altre soluzioni, così appena prendemmo la decisione, mia moglie si dette un gran dafare per rendere la casa gradevole e accogliente. Fece tinteggiare le stanze con colori tenui, trattòe fece lucidare con la cera i vecchi pavimenti di cotto, fece scartavetrare e ripitturare le porte,le finestre e i passamani che portavano al piano superiore,e si fece rimettere a nuovo anche dei vecchi mobili trovati in soffitta.
Così, dopo tante discussioni e ripensamenti, terminati i necessari lavori di ristrutturazione, andammo ad abitare in quella vecchia casa di campagna, in quel piccolo borgo sperduto tra boschi e colline. 
In quanto a me, ormai rassegnato, mi riservai unastanzetta al piano terra e ci sistemai i miei libri e la vecchia scrivania per continuare a coltivare il mio hobby: tradurre dal greco e dal latino dei testi antichi. I
Intanto le giornate presero a scorrere normalmente, senza più preoccupazioni e alla città non pensavo quasi più. 
Forse potrà sembrare banalesottolinearlo, ma con l’andare del tempo ci face piacere costatare che la gente del posto ci salutava cordialmente ed era sempre pronta a dare una mano arisolvere i quotidiani problemi che due sprovveduti cittadini come noi incontravano in un piccolo paese. E così,dopo qualche mese,conoscendo già tutti,incominciammo adadattarci alle loro abitudini e ai loro tempi, e spesso mia moglie andava a casa dellevicine per imparare a ricamare al tombolo o le ricette che la sua mamma le preparavaquando lei era piccola. 
Un pomeriggio d’autunno, mentre stavo sistemando sotto la tettoia, lascorta di legna per l'inverno, mi sentii chiamare. Era un paesano che senza tanti preamboli mi chiese se potevo aiutare suo figlio. 
«Fa la prima media, ma va male».
Poi aggiunse che era bravo, ma non riusciva ad applicarsi. Il passaggio dalle elementari alle medie lo aveva disorientato e adesso rischiava di perdere l'anno, come gli avevano anticipatoal primo colloquio, anche i professori.
«Purtroppo è una generazione di ragazzi che pensa di non avere più niente da scoprire, non dimostranocuriosità,pensano di sapere già tutto econ la tv, telefonino, computer e internet,non fanno altro che distrarsi».
Tutto questo me lo disse con calma, quasi rassegnato, restandoaggrappato al cancelletto del giardinoe dimostrando quel patetico rispetto che gli illetterati hanno per i supposti letterati.
Ero lìlì per rispondergli comunque di no. Che avevo insegnato per quarant’anni e della scuola pubblica e di alunni che andavano male ne avevo sin sopra i capelli, ma lui mi continuava a fissare con uno sguardo che sfiorava la supplica e aggiunse che era un operaio in cassa integrazione, che non avrebbe potuto darmi molto, ma che per il figlio avrebbe fatto qualsiasi sacrificio perché,per lui, sperava in un avvenire migliore del suo.
Anche se io non avevo figli, mentre parlava, provai una strana e inaspettata sensazione di solidarietà e di stima, per quel padre. 
«In cosa va male?» Gli chiesi, senza nemmeno accorgermi perché gli avessi fatto la domanda. 
«Un po’ in tuttele materie professore, ma è in italiano che zoppica di più».Rispose.
In quel luogo, in quella circostanza, sentirmi chiamare professore lo trovai anacronisticoe sorrisi, ma da quel giorno i pomeriggi per me divennero un impegno costante, perché oltre al figlio del primo paesano che me lovenne a chiedere, si aggiunsero altri genitori cheavevano lo stesso problema e vennero a chiedermi la stessa cosa, aiutare i loro figli nello studio.
Ma non era come insegnare a scuola. A casa mia potevo ricevere i ragazzi in pantofole;parlare assieme dei loro problemi, sospendere e fare merenda quando volevamo, accorciare o allungare le lezioni a nostro piacimento. E tutto questo faceva bene non solo ai ragazzi, ma anche a me. Euna sera che avevo fatto tardi con lelezioni,Francesca me lo disse: non dovevo preoccuparmi, perché da quando avevo cominciato a seguire quei ragazzi, ne avevo guadagnato anch’io, sia in umore,sia in salute.
Una mattina, alla fine di novembre, mentre l’inverno cominciava a fare sulserio e durante la notte la brina imbiancava i tetti e i prati circostanti, fummosvegliati di soprassalto da uno squillo di tromba, seguito dalla grancassa. Poi silenzio e subito dopo un limpidola, sostenuto dall’oboe e dai clarinetti. Sembrava che dei musicisti stesseroaccordando i loro strumenti ma poi, tutte assieme,cominciarono a diffondersinell’aria le note soavi di una melodia natalizia.
Mi alzai, e incuriosito andai ad aprire le persiane e subito fui investito dal buio e da un vento gelido e pungente.Guardai di sotto e scorsi un gruppo di personeintabarrate,con degli strumenti musicali tra le mani e che,come unico segno distintivo,portava calcato bene in testa un berretto militarecon un grosso stemma d’orato sopra la visiera.Mia moglie mi venne vicino, mi posòuna coperta sulle spalle e assieme restammo ad ascoltare quell’inaspettata serenata mattutina.
Alla fine,l’uomo che doveva essere il direttore d’orchestra,abbassò di scatto le braccia e la musica cessò. Poi la stessa persona si girò lentamente, guardòverso l’alto,sventolò le mani nell’aria e,inspiegabilmente, come a non voler disturbare, con un filo di voce, ci disse:
«Buon giorno professore e ci scusi se l’abbiamo svegliato a quest’ora,lei e la sua signora, ma è il 22 novembre, Santa Cecilia, e per tradizione, oggi, hanno inizio le festività natalizie e la banda,da sempre, da inizio al giro del paeseproprio da qui».
Dopo averci salutato con un altro sventolio delle mani,tornò a girarsiverso i musicantiecon un ampio e solenne gesto delle mani dette avvio a un’altra melodia, poi, tutti assieme si avviarono lentamente e disordinatamente verso il centro di quelle quattro case che gli abitanti si ostinavano a chiamare paese.
Nei giorni successivi a quel 22 novembre,in paese fu tutto un gran fermento. Sembravano tutti impegnati e indaffarati a collocaredelle luminarie ai balconi delle case, ad appendere rametti di vischio alle porte d’ingresso o a raccogliere muschio per allestire presepi. Comparvero anche delle luci intermittenti all’interno delle poche vetrine dei negozi e in piazzafu eretto, addobbatoe illuminato, ungrande abete.
Per la notte di Natale anche la chiesettafuriaperta e il giovane prete,pallido, smunto, freddoloso e frettoloso,venuto dal paese vicino, celebrò la messa di mezzanotte per gli altrettantoinfreddoliti e anziani fedeli.
Durante la notte aveva anche nevicato, non molto, ma a sufficienza per imbiancare i tetti, le strade e i dintorni del paese, eal mattino il paesaggio si presentava come una di quelle caratteristiche cartoline che si inviano e si ricevono per gli auguri, e tuttocontribuivaarendere veramente suggestiva la festività.
Il giorno di Natale ci alzammo più tardi, con calma, e mentre stavo accendendo il caminetto e Francesca iniziava a preparare il caffè, sentimmo suonare il campanello e andai ad aprire. Davanti alla porta mi trovai due signore intirizzite,con due panieri di viminiin mano e che,a causa del freddo, respirando, facevano volteggiare nell’aria delle soffici nuvolette bianche.
«Buon giorno e buon Natale professore. Questo è un piccolo omaggio per lei. Niente di straordinario, ma la preghiamo di accettarlo, perché è roba genuina: pasta fatta in casa, qualche salume, formaggio, fichi, frutta secca e dolcedella nostra tradizione. Non possiamo permetterci altro, ma per tutto quello che sta facendo per i nostri figli, la preghiamo di accettare».
Gli occhi mi s’inumidirono e non riuscii a proferire parola, ed ero anche tentato di rifiutare ma, incrociando lo sguardo di mia moglie, capii che non avrebbero compreso il mio gestoe alloraFrancescaspalancò la porta e le fece accomodare e, fatte posare le due ceste, prendemmo il caffèassieme.
Quando le due donne se ne andarono, Francesca sollevò i due lenzuolini che ricoprivano le ceste e, vedendo tutto quel ben di Dio, mi disse che una cosa del genere in città non sarebbe mai potutaaccadere, anzi, era già tanto se tra vicini di casa ci si scambiava il saluto.
Passò Natale e capodanno. Arrivò Pasqua e finì anche un’altra estate, e quando tutti i villeggianti se ne tornarono a casae in paeseritornò la calma,finalmente capiianch’io che quella decisione di lasciare la città per trasferirci in collina,che all’inizio avevo disapprovatoe osteggiato, si era rivelata non solo giusta, ora ci stava regalando momenti di vera serenità, e quella casa, vecchia e dimenticataperanni, ora eradiventata il nostro rifugio. 
In quanto allagentedel posto,ormai,la consideravamola nostra famiglia.


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