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RICORDI

Pubblicato da: Categoria: IL RACCONTO

9
DIC
2016
Al mio paese non succedeva mai niente, sembrava sempre domenica pomeriggio e le giornate si susseguivanolente, indolenti e noiose. Nessun cinema, nessuna attrazione ei giochi i bambini se li dovevano inventare da soli. A casa mia le cose non erano certodiverse e i miei genitori erano due entità lontane enebbiose così, quandomispedironoin città, a casa di una sorella di mio padreche aveva due figlie, Alda e Rita,cominciai a sentirmi finalmente libero e autonomo. La zia mi aveva dato anche le chiavi di casa ecosì l’organizzazione delle mie giornate era lasciata al mio intimo ma scarso senso del dovere. Potevo disporre come volevo del mio tempo, non c’era nessuno che mi dicesse quello che dovevo fare e le mie cugine, essendo le prime a beneficiare di quella libertà di movimento che l’assenza della madre consentiva loro, non si sarebbero mai sognate di riferirlecome mi comportavoin sua assenza.
Comunque, sebbene godessi di tutta la fiducia e l’autonomia che volevo, quando ero in casa perlopiù studiavo, alternando la scarsa attitudinea lunghi momenti di effusione contemplativa. Infatti, spesso mi soffermavo a guardare incantato le mie cugine, sempre più belle, sempre più carine. Anche se lorocontinuavano imperterrite a ignorarmie a parlare sottovocequando si accorgevano che le stavo osservando.
Le mie giornate, a differenza di quelle di mio fratello, erano segnate essenzialmente da un grande senso di vuoto, e spesso volgevano al termine così com’erano iniziate, senza nessuna emozione. Lui, a differenza mia,era un vulcano d’idee,d’interessi e iniziative. Frequentava l’università e si era trasferito in città prima di me, ma aveva preferito andare ad abitare per conto proprio e per questo ci vedevamo solo raramente.
Sempre allegro e irrequieto,preferiva il divertimento allo studio che, come rivelava lui stesso, lo annoiava mortalmente.Era enigmatico, incostante e, naturalmente, aveva un gran successo con le ragazze. E si era presoanche molte più libertà di quante la vedova, donna pia e austera, fosse usa concedere ai suoi pensionanti. Con le sue arieda maggiorenne navigato, da viveurincallito, finì per urtare a tal punto la povera donna che una volta terminato l’anno, si rifiutò di riprenderlo in casa.Per tutto questo, da una parte lo ammiravo, ma dall’altra minauseava.
Intanto, col passare del tempo,riuscii a trovare anche un punto d'incontro con le mie cugine, ma quellacon cui avevo legato maggiormente era Rita. Spesso veniva in camera mia, si sedeva sul letto e parlavamo, ed era bello condividere con lei quei momentiche l’età ci consentiva. Maa un certo punto le cose precipitarono e successe quando mi ritrovai a dover fare i conti con un invaghimento effimero e impossibile, ma nello stesso temporivelatore di un sentimento sino allora a me sconosciuto.E quando i tempi si fecero incalzanti,ricorsia tutte le scuse possibili pur dipoterle stare vicino: ripassare una lezione,raccontarle cose che le avrebbe fatto piacere ascoltare. Poi, attraverso sguardi eloquenti emacchinosi scambi di messaggi in codice,riuscii a combinareanche un incontro. 
«Sì, ma non a casa. Esci prima tu edio ti raggiungo, se no Alda, sai che solfa...»E questo per evitare difomentare la curiosità morbosa della sorella, cheperaltroaveva già capire tutto.
Quel pomeriggiouscii da casa prima di lei e quando stavo ormai disperando a causa del suo ritardo, in una crepuscolare luce autunnale la vidi attraversare il ponte e venire verso di me.
Ci salutammo senza particolari effusioni e consumammo più di un’ora in una snervante passeggiata finché, seduti su una gelida panchina di pietra, riuscii a darle un bacio maldestro sulle labbra, poitutto finì lì. La rividi il pomeriggio successivo, in centro, mentre ondeggiandosu tacchi troppo alti per lei, stavasfacciatamente avvinghiata a un ragazzo molto più alto di me.
Sorpreso, irritato e deluso, ma al tempo stesso liberato da quell’incantesimo, gettai uno sguardo senza speranzeverso di loro e capii che la storia con la mia volubile cugina, troppo matura per me, era naufragataancor prima di cominciare.
Passarono i giornied eccomi colpito daun altro incanto. Il fulmine mi accecò quando in classe arrivò una nuova compagna. L’invaghimento fu istantaneo, totale e si rivelò in tutta la sua imponente e impotente vastità.Mi ero innamorato di nuovo e se ne erano accorti tutti, tranne lei.
A riportare un po’ di serenità nel mio animo turbolento, fin dalla prima lezione,fu il provvidenzialearrivo, affascinante e coinvolgente, della nuova professoressa d’italiano che sostituìquella vecchia.Facendo lezioneaveva l'abitudine di aggirarsi tra i banchi e passandomi accanto non mancava di immergere la sua mano tra i miei capelli. Una mossa furtiva, leggera, che sembrava indugiare in una lunga carezza e quella mano mi faceva provare un'emozione profonda e così, scomposto, piegato di traverso sul banco, col mento beatamente abbandonato sul dorso della mano, mi lasciavo accarezzare. Ma quella prima carezza furtiva, forse sbadata, doveva rivelarsi tutt’altro che casuale e isolata, infatti, si ripeté ancora nei giorni seguenti e mi sembrò più lunga, più lenta, più insistentee mi facevasempre sognare ad occhi aperti.
Un giorno, dopo unistante d'esitazione, come sentii le sue dita tra i capelli,mi voltai e allora vidi tutt’intera sopra di me incombente quanto irraggiungibile, un po’ sorpresa dall’asprezza del mio gesto, la splendida figura della supplente arrivata a sostituire quella vecchia chesi era dovuta assentare, non so per quale motivo. Assenza che noi maschi, appena vista e apprezzata la sostituta, auspicammodefinitiva. 
Si chiamava Beatrice, già per se stesso un nome romantico, e il mio amore per lei si rivelò subito come quello del poeta: definitivo, platonico e non corrisposto. Probabilmente l’intensità del suo aspetto e la dolcezza dei suoi modi prevalsero sulla sua reale bellezza fisica, ma aveva una chioma così folta riccia e color rame, che inducevala mia fantasia a spingermi oltre. Sempre sorridente, occhi chiari, stranamente abbronzataanche d’inverno, con qualche lentiggine minuta qua e la,mi faceva lievitare sulla sedia e andavo in estasi. 
A un certo punto mi resi conto di quello che erasuccesso: mi ero innamorato di lei. Spaventato ma non pentito, anzi di tutto cuore consenziente, cercaidi apparire ai suoi occhi quello che in realtà non ero,data l’età. E quando tutto mi suggeriva di smettere, perché non ci sarebbe stata nessuna felice via d’uscita, un’altra voce, più insistente, mi diceva di non mollare. E complicava ancora di più la situazione, lo strano convincimento che mi ero fatto, e cioè che Beatrice avesse capito benissimo quello che stavo provando per lei.
Ma quando ormai non sapevo più comecomportarmi, ci pensò la vecchia insegnante a togliermi da quell’imbarazzante situazione. Una bella mattina si presentò al posto della supplente e così, con la sua voce grigia e gracchiante,fece ripiombare tutta la classenello sconforto generale.
Finito il liceo, mi toccò l’università ein seguito, per lavoro mi trasferii in un’altra città e con Rita ci sentivamo ormai raramente e soloper scambiarci gli auguri di Natale o in occasioniparticolari. Erano poche frasi di circostanza, saluti e poi per molto tempo nessuno sapeva più nullal'uno dell’altra, ma quando mi capitava di chiamarlaera un piacere sentirla,perché la sua voce erasemprela stessa, dolce e allegra.Ci sentimmo anche in occasione della morte della zia, malatada tempo. I medici le avevano detto che non ci sarebbero state speranze, ma quando tutto successe, aggiunse,si era sentita come se avesse perso l'unico punto d’appoggio,di riferimento che aveva.
In seguito, assorbito dai miei problemi, dalla mia attività, le telefonate con Rita si diradarono ulteriormente ma una domenica di fine dicembre, mentre stavo facendo scorrere la rubrica del cellulare,la chiamai. 
«Ma ciao Umberto. Sai che stavo pensando proprio a te. Ho cambiato il cellulare e non so perché ora il tuo numero noncompare più in rubrica».
Parlammo delle solite cose e poi chiesi della sorella e,chissà perché, anche del tempo.
«Alda sta bene. E' tornata la settimana scorsa dal Trentino e per il tempo che dirti?, quando sono partita pioveva e ora mi trovo qui in Abruzzo per passarci le feste».
«Dove ti trovi?»Domandai.
«In Abruzzo». Ripeté.
«E quanto ti fermi?»
Mi disse che era appena arrivata e che sarebbe ripartita il due gennaio. Continuammo a parlare e intantocominciai a pensare di andarla a trovare: cinque ore di macchina eavrei potuto rivederla eriabbracciarla.
«Se martedì decidessi di venirti a trovare, rischierei di disturbare la tua serena vacanza in Abruzzo?»
«Ma cosa dici? Quale disturbo. Anzi, mi farebbe piacere rivederti. Sarebbe bello. Ma sei sicuro di volerti faretutta questa sfacchinata?»
«Certo».Seriuscivo a liberarmi dagli impegni, sarei stato da lei, le dissi.
«Che bello. Sarebbe proprio bello. Allora ci conto e ti aspetto».Concluse.
Ero contento,perché dal suo tono di vocecapii chele aveva fatto piacere sentirmi.Mariflettendoci, non so perché, lo attribuii a ricordi di tempi remoti.
Lunedì sera,sebbene fossi riuscito a posticipare tutti gli impegni, andai a letto poco convinto di volermi sciroppare tutti quei chilometri. Era sì mia cugina,ma non la vedevo da annie in definitiva eravamo diventati quasi due estranei. Sì,mi era capitato di incontrarla a casa della madre,quando era ancora viva, ma allora eravamo ancora ragazzi e comunque già molto distanti.
La mattina di martedì mi svegliai molto presto e, a differenza della sera precedente,decisi diaffrontare il viaggio e così,giunto in Abruzzo, la chiamai sul cellulare e le dissiche ero arrivato.
« Sei venuto veramente? Ma che bravo. Sono da te tra un minuto». Rispose.
Parcheggiai la macchina e attraversai la strada per andarle incontro,e così la vidi arrivare. Era sempre lei, più bella che mai e il tempo sembravasi fosse dimenticato di lei. Quando mi vide, come da ragazzina, il suo viso le si aprì in un ampio sorriso emi venne incontro.
«Ma ciao. Che bella sorpresaUmberto. Sei stato di parola. Dammi un bacio,dai».
Tenendoci per mano andammo a sederci all'esterno dell’hotelelì ci mettemmo a parlare. Quanti ricordi scaturirono, quante cose avevamo da dirci.
Si parlò di noi, dei genitori, dei nonni, del paese, delle persone che conoscevamo e di quelle che non c’erano più:Ah,la Giuliasorda è morta? E la Luigia? Ah, si è sposata con un poliziotto. E la Gisella? Se n’è andata anche lei, ma dai, mi dispiace. E al paese che si dice, ci torni ogni tanto?, non più? Che peccato. Io provo sempre tanta nostalgia quando penso a quelle quattro caseabbarbicate intorno al campanile, sai…
Dopo un po’ che stavamo parlando mi accorsi che in fondo il tempo non aveva scalfito l'affetto che avevo provato da ragazzo per lei, e mi ritrovai a pensare a quel maldestro bacio che le avevo datosu quella fredda panchina di pietra, emi chiesi se magari se ne ricordasse anche lei.
Quanti anni erano trascorsi? Tanti, troppi, e mi accorsi che ora solo i ricordi ci accumunavano. Lei si era sposata e aveva una figlia che faceva l'insegnante. L'insegnate di italiano come Beatrice,e così il ricordo di quella professoressa dai capelli ramati e crespi riaffiorò nella mia mente con la stessa curiosità di allora:che fine avràfatto.
Parlammo tanto e non ci accorgemmo dello scorrere del tempo così,quando si fece sera,le chiesi se voleva cenare con me. Lei disse di sì e andammo in un ristorante che trovammo affollatissimo,data la località di villeggiatura invernale. Ementre si cenava, mi accorsi che spesso ci fissavamo. Sguardi impenetrabili, carichi di ciò che non avevamo il coraggio di dirci.Chissà…
La luna, la neve, le luci, l’atmosfera festiva,tutto m’invogliava arimanere ancora con lei, e stavopensando di fermarmi per la notte, ma poi... troppe tentazioni e troppo poco il tempoper capire cosa veramente volevamo, e allora decisi altrimenti. Tanto frettolosamente che fu sorpresa dal mio abbraccio furtivo e dei due semplici baci che le sfiorarono le guance,nel salutarla.
La lasciai a vedermi partire sui gradini dell’hotel, un ultimo cenno di saluto e via. In autostradacontinuai a pensarla ma squillò il cellulare. Era Rita che prima di addormentarsivoleva augurarmi la buona notte. 
«Non riesco a prendere sonno e volevo anche chiederti di mandarmi un messaggio appena arrivi, per tranquillizzarmi.Ma soprattutto volevo dirti che mi ha fatto molto piacere rivederti, incontrarti di nuovo. Il tempo passa ma i ricordi,certi ricordi, certi luoghi magici,come una semplicepanchina di pietra, sai, rimangono scolpitinella mente e nel cuore per sempre. Grazie Umberto di essere venuto.Buona notte. E non dimenticarti di chiamarmi per gli auguri di Natale».
Chiusa la comunicazione,fui assalito da un’inspiegabile nostalgia dei tempiche ricordavo come i più belli della mia vita. Quanti anni erano trascorsi da quel bacio furtivo e rubato su quella panchina? Non me lo ricordavo. E quella compagna di scuola come si chiamava? Dimenticato. E la professoressa di lettere che fine avrà fatto? Quante domande destinate a rimanere per sempre senza risposta e allorabasta e infilai un cd nel lettore.Mozart mi aveva sempre aiutato a rilassarmi, ma in quella notte troppo buia, su quell’autostrada deserta, non riuscì nell'impresa. 
Per tanti anni la solita vita. Le solite pene e le solite angosce. Una vita racchiusa in un cerchiostatico.E mi venne da ripensare ai miei errori: un’ex moglie in una casa, mia figlia in un’altra, io che abitavo in un’altra casa ancoraeil mio studio in un’altraancora. Eppure in architettura lo insegnano che per essere funzionaletutto dove trovarsi sotto lo stesso tetto. 
Stavo mentendo a me stesso, perché qui non si trattava di essere o no funzionali, il problemaera tutt’altro, riuscire a ricomporre i cocci di una vitadisseminata soltantodi errori e ricordi.
Arrivato al casello,fui riportato alla realtàdell’inconfondibile bip del telepass che stava facendo alzare la sbarra. E allora basta aggiungere lava infuocata alla sofferenza. 
Avevo trascorso una piacevole giornata con Rita,avevo percorso, tra andata e ritorno più di novecento chilometri, e ora? Ora, mentre l'aurora stava ormai scalzando la freddae incolpevole notte, mi accingevo a indossare i panni di sempre, quelli diun architetto cheavevatrascurato tutto per inseguire il successo lavorativo e che ora si trovava a fare i conti con la propria solitudine. Senza affetti, senza nessuna personacui pensare prima di addormentarsi, o appena sveglio.
Giunto in città ero indeciso se dirigermi verso casa, dove non avrei trovato nessuno ad attendermio proseguire sino allostudio, dove invece avrei trovatosolo deifreddi calcoli da sviluppare.Presi il cellulare e mandai un messaggio a Rita: “Sono arrivato, tutto bene”, poicancellaiil suo numero dalla rubrica. 
Nella mente iricordi con il passare del tempo possono trasformarsi in favole a lieto fine, ma spesso, troppo spesso, nella realtàrimangono tali, solo dei sogni.
 


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