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IN TRATTORIA

Pubblicato da: Categoria: IL RACCONTO

19
GEN
2017

Era da circa tre mesi che frequentavo quella trattoria, e cioè da quando ero andata a sostituire una collega in maternità. I primi tempi facevo avanti e indietro, poi, con l’approssimarsi della brutta stagione, piogge, gelo e nebbia, per i giorni feriali preferii trovare una sistemazione in paese e così una volta al giorno andavo a mangiare in quella trattoria, quasi sempre di sera ma qualche volta anche a pranzo.
Quel martedì stavo appunto pranzando in trattoria, quando nel locale entrò un ragazzo che si andò a sedere al tavolo di fronte al mio.
«Mi metto qui signor Luigi».
Disse al trattore, mentre appoggiava la borsa su una sedia, ne tirava indietro un’altra e si sedeva. Il locale era occupato da noi e da altri tre uomini che a un tavolo vicino non facevano altro che parlare di provvigioni, diarie, raggiungimento di obiettivi e persistente crisi.
«Ma certo professore. Si sieda pure dove vuole».
Gli rispose il proprietario, continuando ad asciugarsi le mani paffute nell’ampio grembiule che portava infilato nella cintura dei pantaloni. Il ragazzo gli fece un cenno d’assenso e subito tirò fuori dalla borsa un giornale sportivo e iniziò a sfogliarlo. Era un bel giovane, distinto, moro, con i capelli che gli scendevano sino a coprire il collo della giacca e due occhi che alla tenue luce del locale splendevano come smeraldi. E poi quel sorriso, così accattivante. Incantata, sarei rimasta a guardarlo per ore.
Quando la cameriera, con l’ombelico bene in vista, gli portò il pane, lui alzò lo sguardo, ostentò un sorriso di circostanza e ritornò alla sua lettura. Tutto il suo pranzo non durò che una ventina di minuti, poi trasse dal portafoglio i soldi, pagò, si alzò, raccolse le sue cose, salutò il proprietario e uscendo mi degnò di un fugace sguardo.
Siccome con il proprietario avevo acquisito anch’io una certa confidenza, quando venne al mio tavolo per chiedermi se fosse andato tutto bene,fingendo scarso interesse, feci di tutto affinché mi dicesse quello che sapeva su quel ragazzo.
«Ha visto il signore che è appena uscito? Bravo ragazzo. È il nuovo professore che è stato mandato a insegnare qui, e siccome sia il martedì sia il giovedì ha lezione anche nel pomeriggio, in questi due giorni viene a pranzare da me. Insiste col dire di essere a dieta,ma fa sempre onore alla mia cucina».
Fatto tesoro di ciò che mi aveva detto il trattore, decisi di cambiare le mie abitudini e da quel giorno, sia i martedì sia i giovedì successivi, all’ora di pranzo mi facevo trovare in trattoria.
Uno sguardo oggi, un saluto domani, due parole scambiate dopodomani e alla fine, un mercoledì sera, ci trovammo seduti allo stesso tavolo. Si chiamava Gianfranco e mi confermò quello che mi aveva anticipato il trattore, e cioè che da quando era passato di ruolo ed era entrata in vigore la mobilità dei docenti, la sua principale preoccupazione era stata quella di essere trasferito chissà dove, a chissà quanti chilometri da casa…
«Invece mi è andata bene, perché mi è stato assegnata la sede in questo paese. Insegno italiano, storia e geografia alle scuole medie, ma per fortuna è a solo un’ora di strada dalla città, da casa mia, e viaggiare non mi pesa. Solo che domattina partiamo presto con la gita scolastica e allora ho preferito fermarmi e pernottare qui, questa notte».
Io gli risposi che anch’io ero stata trasferita in quella sede da poco, per sostituire una collega, ma che avevo preferito trovare una sistemazione in paese, e questo per evitare di dover guidare d’inverno su quelle strade piene di curve e spesso ghiacciate.
Intanto si avvicinò al tavolo la cameriera, quella con l’ombelico perennemente scoperto, per lasciare sbrigativamente sul tavolo l’acqua.
Nell’attesa che tornasse a prendere le ordinazioni, continuammo a parlare ed ebbi l’impressione che Gianfranco stesse piano piano cominciando ad accorgersi di me, che si stesse aprendo più degli altri giorni, e avevo anche l’impressione che si stesse liberando finalmente di qualche brutto pensiero o ricordo, e questo forse anche grazie all’atmosfera serena di quel luogo, di quella serata, della nostra intimità.
Lui mi parlava di se ed io lo guardavo e fantasticavo.
«Ho chiuso un anno fa una relazione lunga, travagliata e burrascosa».
«E ora, sei solo?» gli chiesi.
«Sì, solo. Ed è meglio così. Non eravamo fatti l’uno per l’altra. Bastava una dimenticanza, che non avessi ricordato una data, una ricorrenza, perché lei cominciasse con i suoi rimbrotti. Anche le più piccole negligenze per lei erano inammissibili, non le ammetteva e allora, in una notte di tensione, tra insulti e accuse reciproche, la nostra storia ebbe termine».
«Anch’io sono sola». Gli confessai, forse per metterlo a suo agio e poi aggiunsi:
«Sono sola non per scelta, ma per l’incapacità di lasciarmi andare, almeno per ora».
Quando dalla sempre accesa tv del locale arrivarono le note di una canzone che mi piaceva, socchiusi gli occhi e cominciai a canticchiarla. Lui mi guardò e notai che mentre cantavo mi osservava e sorrideva, e la cosa non mi lasciò indifferente. Intanto la cameriera con un gesto deciso lasciò il cestino del pane sul tavolo e se ne andò.
«Hai un viso molto bello, sei una bella ragazza.» Mi disse, quando smisi di cantare.
«Ma sono anche una brava ragazza». Gli risposi sorridendo, e lui:
«Che lavoro svolgi qui?»
«Lavoro in banca, in questa filiale e con i tempi che corrono, non era proprio il caso di ricusare il trasferimento, in fondo si dovrebbe trattare solo di pochi mesi, un anno al massimo».
E intanto la cameriera era tornata con il blocchetto in mano e l’ombelico bene in vista.
«Volete ordinare?» Chiese, con quell’espressione supponente di chi crede di saperla lunga su come vanno a finire certi incontri. Gianfranco aprì il menu e le indicò un piatto.
«Io prendo le fettuccine al ragù e poi, poi per il secondo aspettiamo un attimo. Intanto ci porti degli antipasti, quelli della casa, grazie.
«E tu?» Chiese la cameriera rivolgendosi a me. Non mi piaceva quel tu così confidenziale e allora le dissi di tornare più tardi. Poi, quando stava per andarsene, la richiamai e le dissi di portare anche a me quello che aveva ordinato Gianfranco, e dicendo Gianfranco calcai sul nome.
Appena la cameriera si allontanò mi venne spontaneo dirgli che anche la mia storia era terminata un anno addietro, e questo perché mi sentivo trattata come una delle tante.
«Ho cercato di ribellarmi, di farlo ragionare, ma non ci sono riuscita. E forse perché gli volevo bene, un bene tollerante, come quello del padrone di un gatto, ho resistito tanto. Ma lui si comportava appunto come un gatto. Sai come fanno i gatti? Si lasciano accarezzare, ma quando si stufano di giocare, a tradimento si girano e ti mordono. E possedeva quella furbizia spregevole che era solo la manifesta mancanza d’intelligenza. E poi era uno che non è mai riuscito a concludere niente nella vita, si è sempre fermato prima della meta, e allora ho preferito troncare quella relazione, senza più sbocchi. Senza senso».
Intanto la cameriera, facendo ondeggiare la testa, mollò sul tavolo, come se le scottassero tra le mani, le fettuccine. E non si capiva bene cosa volesse significare quel gesto, quel comportamento stizzoso.
Quando finimmo di cenare, ero decisamente meno tesa di prima, più serena. Avevamo parlato, c’eravamo sfiorati con le mani, c’eravamo confidati delle cose intime e quando uscimmo,senza che nessuno dei due lo avesse deciso o chiesto, ci trovammo a passeggiare sulla strada panoramica da dove, dicevano i paesani, nelle notti terse si poteva scorgere anche le montagne oltre il mare. Durante la passeggiata mi chiese se ci potevamo incontrare in città, uscire assieme, magari andare al cinema o a farci una pizza. Ma io, guardandomi la punta degli stivali, gli risposi che era meglio di no, poi gli feci notare che si era fatto tardi e che dovevo rientrare.
Nei giorni seguenti non feci altro che pensare a lui e ogni martedì e giovedì, con la speranza di incontrarlo, continuai ad andare in trattoria, ma lui non c’era. Poi, un giovedì, lo vidi entrare, sorridermi, e venire verso di me.
«Non ti mettere a ridere, ma devo dirti che non vedevo l’ora di rivederti. Sono stato poco bene, ma ti ho pensato tanto».
Io, non riuscendo a nascondere quanto fossi contenta di rivederlo, non seppi fare altro che mettermi a ridere.
«È vero! Non ti direi queste cose tanto per dire». Ribadì.
«Ti credo». Gli risposi e intanto, per cercare una via di scampo, come la volta precedente, mi misi a canticchiare la canzone che il televisore stava mandando in onda. Canticchiavo e gli sorridevo, come a dimostrargli che ero contenta per la complicità che si stava instaurando tra di noi.
«Allora ti andrebbe di uscire con me?» Mi chiese a un certo punto.
«Gianfranco, che dirti? Non posso negare che mi ha fatto piacere rivederti, incontrarti di nuovo, ma ti prego di darmi un po’ di tempo per pensarci».
Non so nemmeno io perché gli avessi risposto così, ma comunque lo avevo detto, e anche se avrei voluto dirgli tutt’altro, non potevo più tornare indietro.
«È perché non hai fiducia in me, o perché c’è qualcun altro?» Chiese.
«Non c’è nessun altro, e per il momento preferisco così». Che cosa potevo rispondergli? Che smaniavo dalla voglia di dirgli di sì, ma che non riuscivo a dirglielo?
Sul suo viso comparve tutta la sua delusione e per un attimo sembrò voler insistere, poi abbassò lo sguardo e non aggiunse altro.
Mentre stavamo parlano,si presentò la cameriera, quella con il solito ombelico in bella mostra e senza parlare, ma gratificando Gianfranco di un sorriso slavato, lasciò sul tavolo il pane e poi tornò ad eclissarsi dietro una porta. Parlammo ancora, ma senza più toccare l’argomento uscire assieme, e poi mi accompagnò sino all’ingresso della banca in cui lavoravo.
Rimasta sola, mi morsi le labbra per la stupidità del mio comportamento, per l’ostinazione che dimostravo a non voler ammettere che mi stava piacendo sempre di più quel ragazzo.
Gianfranco ricomparve una settimana dopo, sempre di giovedì, e pranzammo ancora assieme. Settimana dopo settimana andò avanti così, senza toccare nessun argomento specifico, ma intanto notavo dei piccoli cambiamenti. Niente in particolare, ma comunque meno attenzioni nei miei confronti.
Il giovedì successivo entrò in trattoria cercandomi con lo sguardo, quando mi vide sorrise e si venne a sedere al mio tavolo. Indossava un bel completo scuro, camicia bianca con cravatta, e non potei fare a meno di pensare che davvero fosse un bel ragazzo. Affascinante.
Pranzammo parlando velatamente di noi, dei nostri problemi e progetti e la mia tensione crebbe perché avevo intuito dove stesse andando a parare. Poi, mentre prendevamo il caffè, mi chiese se davvero non volevo uscire con lui,e se la causa fosse la presenza di qualcun altro.
«Magari ci fosse. No, non c’è nessuno. È solo che sono fatta così, e ho bisogno di tempo per prendere le decisioni importanti. Anche perché, l’ultima esperienza che ho avuto, è stata veramente devastante».
Gli dissi, prendendogli la mano e accarezzandogliela.
«Ti ha fatto così male?» Chiese.
«Sì». Gli risposi, e gli occhi mi s’inumidivano di lacrime.
«Io non ho nessuna intenzione di farti del male, e tanto meno voglio vederti soffrire, Patrizia». Sussurrò, stringendomi la mano.
«Lo so. Questo l’ho capito. Ma non mi va di parlarne». Gli risposi.
«Perché?» Chiese, sperando che finalmente mi decidessi a spiegarmi meglio.
«No, scusa, non ce l’ho con te. Tu sei un bravo ragazzo, ma non sono tutti come te. Ci sono quelli che sanno far molto male, fanno soffrire e poi ti lasciano delle ferite che difficilmente riusciranno a rimarginare».
Dovetti interrompermi per qualche istante e deglutire. Un nodo alla gola mi stava impedendo di proseguire, poi ripresi:
«Lui era gelosissimo e mi ha reso la vita impossibile, un inferno. Non sapevo più cosa mettermi quando uscivo da sola, mai in gonna, mai una camicetta sbottonata, mai il rossetto. Non potevo più muovere un passo da sola, ed era capace di farmi sentire anche in colpa. Ma soprattutto cominciai ad avere paura».
«Perché paura?» Mi chiese.
«Perché mi sentivo vulnerabile e per lui sarebbe stato facile farmi del male. Non sarei stata certo la prima a subire le conseguenze di una storia finita. Se ne sentono tante, tutti i giorni».
Abbassò la testa, come a cercare una risposta, poi mi disse che lui non era mai stato un violento e che mi avrebbe dato tutto il tempo che volevo per pensarci. Chiedeva solo di sapere se mi piaceva almeno un po’.
Ormai consapevole che anch’io stavo provando il suo stesso sentimento, mentre una lacrima mi stava rigando il viso, mi alzai e gli andai vicino. Lui sorrise, si alzò e mi strinse forte.
«Ti assicuro che non faremo mai nulla, se prima non lo avremmo deciso assieme». Mi sussurrò. Poi ci guardammo negli occhi e in quel momento capii che mi stavo veramente innamorandomi di lui.
«Domani ti aspetto, e quando hai finito di lavorare torniamo assieme in città, ti accompagno io a casa, e intanto pensa a dove ti piacerebbe trascorrere la serata».
«La serata?», chiesi, e poi aggiunsi:
«Vorrei trascorrerla a casa mia, magari cucinando per te mentre ti aspetto. Mi farebbe piacere cenare con te a casa mia, e poi rimanere abbracciati sul divano ad ascoltare della buona musica». Gli risposi, finalmente convinta di ciò che volevo, stavo dicendo e stavo provando.
«Va bene. La prima serata da fidanzati la trascorreremo a casa tua, ma devi promettermi che sarà la prima di una lunga serie di serate, giorni, mesi e anni, che trascorreremo assieme».
Io non seppi rispondergli, se non asciugarmi le lacrime che continuavano a rigarmi il viso e poi accostando le mie labbra alle sue.
Stavamo ancora in piedi, abbracciati stretti, sussurrando tra noi, quando ci accorgemmo che gli altri avventori, forse curiosi di scoprire come sarebbe andato a finire quel nostro primo abbraccio, avevano smesso di mangiare e si stavano interessando a noi.
Gianfranco lentamente si scostò da me e con un certo compiacimento,si rivolse a loro:
«Signori, state assistendo e siete testimoni dell’inizio di una bella storia, di un amore nato proprio qui dentro. Fateci gli auguri, per favore».
Tutti lasciarono le posate sui loro tavoli e applaudirono. Il trattore si avvicino e ci gratificò di un fischio assordante e poi volle stappare una bottiglia di spumante perché disse, era l’occasione giusta per brindare.
Solo la cameriera, restò immobile, appoggiata al bancone del bar,senza dire una parola, senza applaudire, ma tirandosi giù la maglietta, sin oltre l’ombelico.
 
 
 



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