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NONNO A TEMPO PIENO

Pubblicato da: Categoria: IL RACCONTO

15
MAR
2017

Guardavo fuori dalla finestra. Amavo quel paesaggio: le strade deserte, i campi ricoperti di brina, le foglie ingiallite che trasportate dal vento formavano dei mulinelli ai piedi degli alberi.
L’avevo desiderata tanto questa casa, ma non ero stato felice e non lo è stata nemmeno mia moglie. Ma era arrivato il momento di potermi rifare con mia figlia e la sua bambina.
Margherita aveva lavorato quindici anni per una piccola casa editrice, poi si era stancata di stare chiusa tutto il giorno in una stanza, tra libri e scaffali, e si era licenziata. Era stata una sua scelta e in fondo, visto che potevamo permettercelo, l’avevo approvata anch’io. Disse che voleva dedicarsi solo a nostra figlia e alla casa, ma faceva molto di più. Si occupava di tutto lei: scadenze, bollette, tasse, spese, contatti con la banca e perfino con le ditte di manutenzione per la casa e il contadino per far si che il giardino fosse sempre in ordine e rigoglioso. Non solo, negli ultimi anni si era dovuta occupare anche della madre, ormai anziana e bisognosa di assistenza.
Ma si vedeva e lo percepivo anch’io che non era serena.
Se le chiedevo il perché, mi rispondevache non era nulla, ma se insistevo, mi diceva che la colpa era anche mia se le cose andavano così, perché non le stavo mai vicino e si sentiva sola, esclusa. E aggiungeva che non ero capace di volerle bene, non sapevo amarla, e che ero freddo come il ghiaccio. Naturalmente non era vero, io l’amavo e l’amavo tanto e da sempre. Dal primo giorno che ci siamo incontrati. Da quel giorno che passeggiando sulla sabbia, in riva al mare, le presi la mano e le dissi che stavo provando qualcosa di più importante di una semplice amicizia per lei. Lei scoppiò in una fragorosa risata e poi si scusò, aggiungendo che non stava ridendo per me, ma perché tutti i nostri amici ci stavano osservando.
Non aspettavano altro, perché tutti avevano capito e se ne erano accorti prima di noi che stava nascendo una bellissima storia d’amore. Una storia durata più di quarant’anni. Lei aveva sedici anni ed io venti, quando ci siamo conosciuti. Ci sposammo sei anni dopo e abbiamo avuto una splendida bambina: Barbara.
Spesso mi ripeteva di non sentirsi amata, e se le assicuravo che si sbagliava, lei mi rispondeva che non era vero, perché non le dicevo mai una parola dolce, mai un abbraccio, e che non facevo nulla per dimostrarle il contrario di ciò che dicevo.
Aveva ragione, ero incapace di fare quelle cose, quelle effusioni che lei desiderava tanto.
È stata colpa mia, ora lo capisco, lo ammetto, ma in parte quel mio comportamento era dovuto al retaggio che mi portavo dietro dall’infanzia. Figlio unico, sono cresciuto da solo, in una casa isolata e forse per questo sono diventato introverso. Un orso, come diceva spesso mia moglie. E si lamentava anche perché, secondo lei, io non ero geloso. Ma non capiva che non lo ero soltanto perché lei non me ne dava motivo.
Non sono mai stato portato per le smancerie e adesso mi rendo conto che quelle che per me sembravano manifestazioni d’affetto esagerate e a volte inutili, per lei, invece, erano importanti, qualcosa di cui sentiva il bisogno, ma io non lo avevo capito. L’amavo. E amavo tutto di lei: i suoi occhi verdi, i suoi capelli lisci e biondi, il suo sorriso, la sua risata spontanea e anche la sua voglia di fare. Ma io non ero come lei. Per stare bene io non avevo bisogno d’altro che di starmene in casa mia, con la mia famiglia. “Chiudiamo fuori il mondo”, dicevo, appena rientravo dal lavoro, e ciò voleva significare che da quel momento non avrei voluto più avere nessun contatto con l’esterno.
Ma non capiva. Non comprendeva chedopo aver trascorso tutta la giornata in ufficio,tra colleghi e gente incontentabile, l’unica cosa che desideravo, una volta tornato a casa, era quella di rintanarmi nella quiete del mio studio, circondato dei miei libri e starmene lì a leggere, magari con il sottofondo di una musica rilassante.
Col tempo aveva smesso di lamentarsi, per quella che lei definiva la mia incapacità di dimostrarle affetto, ed io credevo che finalmente avesse compreso il lato oscuro del mio carattere e lo avesse accettato. E credevo anche che avesse capito che non era con delle carezza ocon un bacio che io volevo dimostrarle quando le volessi bene e quanto avessi bisogno di lei.
All’epoca, pensavo che Margherita esagerasse, che pretendesse troppo da me. Ma ora che sono invecchiato e sono rimasto da solo, tutto è diverso. Mi sembra di vedere cose che un tempo erano come nascoste, celate alla mia vista.
Margherita ora non c’è più, e non posso fare altro che ammettere di aver sbagliato, di non essere stato capace di farla sorridere, di renderla felice. L’amavo, questo è certo, ma l’amavo a modo mio, non come lei avrebbe voluto. Lei non sopportava il mio distacco, lo vedevo bene, ma non riuscivo a modificare il mio carattere, il mio modo di fare.
Con mia figlia,invece, ho sempre parlatopoco e quello che mi dispiace è di non essere riuscito a farle capire quanto volessi bene anche a lei. Crescendo, credevo che se ne sarebbe accorta da sola, ma non è stato così e la capisco, perchétra noi non c’è mai stata sintonia, undialogo aperto. Barbara era sempre chiusa in camera sua. Aveva poche amiche e si confidava solo con la madre e, forse per questo, anche lei ora si ritrova un carattere chiuso e schivo, come il mio.
Ora tutto questo è svanito e non esiste più. Margherita se n’è andata tre anni fa e Barbara si è sposatacon Raffaele. Un bravo ragazzo che fa il geometra, e hanno avuto una bambina che hanno chiamato Ivana. Io, invece, sono qui da solo, in questa casa troppo grande e troppo fredda per una persona sola. Ho sempre freddo, e non solo per colpa del clima rigido. Il freddo viene da dentro, lo porto dentro di me.
Dopo che si era sposata, con mia figlia ci sentivamo poco, e ancora meno andavo a trovarla. Avevo sempre l’impressione di disturbare. Lei naturalmente non diceva nulla, ma io avevo quell’impressione. Barbara aveva la sua famiglia, la sua piccola, il suo lavoro, ed io mi sentivo di troppo, un intruso in casa loro. E anche quando m’invitavano a pranzo, ci andavo di rado, salvo quando proprio non ne potevo fare a meno e cioè nelle feste comandate: Natale, Pasqua, compleanni, anniversari, eccetera. Madopo un po’non vedevo l’ora di tornare a casa.
Un giorno mi telefonò mia figlia, ed io stentai a credere a ciò che mi stava dicendo. Mi chiedeva, ma volle subito precisare che era un’idea sua e che il marito non ne sapeva niente, se potevano venire ad abitare dame, a casa mia. In fondo, mi disse, è una casa così grande.
«Tu vivi da solo e noi abbiamo bisogno di due stanze in più: una per Ivana e un’altra per allestire lo studio di Raffaele».
Sino a quel momento ero sempre stato tranquillo, credevo che non avessero nessun genere di problemi, invece Barbara mi disse che avevano ricevuto lo sfratto e che dovevano lasciare al più presto l’appartamento in cui abitavano. Non solo, il lavoro del marito era in una fase distagnazione e pertanto si doveva accontentare di elaborare piccole ristrutturazioni di appartamenti edi negozi, o qualche altro lavoro di piccola entità. Volle anche precisare che si erano rivolti alle banche per ottenere un fido, un mutuo,per l’acquisto di un appartamento, ma non potendo fornire sufficienti garanzie, non gli era stato accordato, e poi aggiunse:
«Ho un lavoro, ma lo sai anche tu, io sono una precaria. Ivana sta crescendo e ha bisogno sempre di qualcosa in più, non solo, ogni giorno si presentano nuove spese, nuove esigenze. Abbiamo rinunciato a mandarla anche all’asilo. Ma ora, con questa nuova tegola dello sfratto che ci è arrivata in testa… Papà, ma mi stai ascoltando?»
Certo che la stavo ascoltando, Barbara parlava a raffica e anche se avessi voluto non sarei riuscito a interromperla. E mentre mi parlavami accorgevo che la sua voce diventava via via sempre più inquieta e pressante, simile a quella di sua madre. Così ero rimasto in silenzio e intanto pensavo a Margherita. Lei si che non avrebbe avuto esitazioni. Avrebbe detto subito sì e si sarebbe messa all’opera per fare posto ai nuovi arrivati.
La verità era che avevo paura. Non sapevo come mi sarei dovuto comportare con loro e con una bambina così piccola, che presto si sarebbe messa a gironzolare per casa. Ma non potevo certo dire a mia figlia cosa stavo pensandoin quel momento, e allora le risposi: certo. L’avrei attesa e accolta a braccia aperte. Venisse pure quando voleva, con il marito e che portasse anche la bambina, per decidere assieme la nuova sistemazione.
«Grazie papà. La mamma aveva ragione quando diceva che eri un orso e un asociale, ma è anche vero che hai un cuore grande così».
Chiusa la comunicazione, feci un profondo respiro e andai alla finestra e guardai fuori. Il giardino era pieno d’erbacce, incolto, e i pochi alberi rimasti sembravano degli istrici infreddoliti.
“Un cuore grande così”, ma intanto, ero teso e nervoso. Sapevo di non essere stato un buon marito e nemmeno un buon padre, e adesso temevo di non riuscire a essere unbravo nonno.
Due giorni dopo quella telefonata, mia figlia, accompagnata dal marito e con la figlioletta,venne a casa mia. Aprii il cancello e andailoro incontro.
«Ciao papà». Mi salutò con semplicità Barbara, ma intanto si capiva che era tesa e preoccupata anche lei.
La guardavo e mi sembrava di rivedere sua madre. Margherita, alla sua età era uguale a lei.
Ivana dormiva e allora Barbara la prese in braccio e la portò in casa, poi uscì di nuovo per aiutare il marito a portare in casa la carrozzina e un borsone strapieno di cose che servivano per la bambina.
Era tutto così strano, tutto mi girava attorno, come al rallentatore. Per fortuna mia figlia si stava comportando con naturalezza, come se il tempo non fosse mai trascorso. Girava per casa con disinvoltura e la capivo, in definitiva si trovava incasa sua.O forse si stava facendo solo forza per superare quei momenti, quell’impatto. O temeva di dovermi dare altre spiegazioni perché, in fondo, lo sapeva: io sono sempre stato un lupo solitario, amante della quiete e della solitudine e con l’arrivo della bambina, tutto questo sarebbe svanito per sempre.
Ma molto più semplicemente, mi disse in seguito, era solo commossa per essere ritornata ad abitare nella casa dove un tempo aveva vissuto assieme a me e alla sua mamma.
Cominciammo a parlare di come ci saremmo dovuti sistemare, ma siccome avevo già deciso di cedere loro la camera che era stata la mia e di Margherita, ci fu poco da aggiungere, se non per trovare una sistemazione, al piano terra, per lo studio di Raffaele.
Così si alzarono e, dopo avermi chiesto di stare attento a Ivana se mai si fosse svegliata, salirono al piano superiore.
All’improvviso la bambina aprì gli occhi, si guardò intorno e sorrise.
Mi chinai a guardarla: era così piccola e bella. Aveva due occhioni grandi e neri, un nasino piccolissimo, appena un puntino su un visetto tondo e candido. Se non avesse girato gli occhi di qua e di la, se non avesse sorriso, sembrava una bambola a grandezza naturale. Una bambola tutta vestita di rosa. “E ora, che faccio”. Mi chiesi?
Io non avevo memoria di mia figlia così piccola. Quando era nata Barbara, non c’ero in ospedale, c’erano i miei suoceri quel giorno, perché io mi trovavo in trasferta per lavoro, un impegno importante che mi avrebbe consentito di progredire nella carriera.
La piccola mi fissava e continuava a guardarsi intorno. Non capiva dove si trovasse, chi fossi. Improvvisamente sbadigliò, si stiracchiò come un gattino e mosse le labbra come se avesse fame.
Io non sapevo come comportarmi, se si fosse messa a strillare, cosa avrei dovuto fare?
«Barbara». Chiamai.
«Arrivo tra un momento». Mi rispose.
«La bambina è sveglia, che faccio?»
«Prendila in braccio». Replicò distrattamente.
Prenderla in braccio? Non sapevo se ne sarei stato capace. Avevo paura di farle male, era così piccola. E intanto la bambina si mise a strillare davvero e il suo visetto candido divenne rosso fuoco e le spuntarono anche due lacrimoni agli occhi. Mi chinai, armeggiai con la cintura di sicurezza del seggiolino, ma non riuscii a sganciarla. Allora richiamai mia figlia, ma lei era già arrivata alle mie spalle.Si chinò accanto a me e con movimenti rapidi slacciò in un attimo la cintura di sicurezza e prese in braccio la piccola.
Appena Ivana si sentì avvolgere dalle braccia della mamma, si calmò. Voleva la sua mamma. “Come Barbara quando aveva la sua stessa età”, pensai.
La piccola aveva ancora i lacrimoni e continuava a guardarmi.Mi avvicinai, le accarezzai una manina, le sorrisi e lei strinse forte il mio dito e sembrava non volesse lasciarlo più.
«Su. Vai in braccio al nonno» Disse mia figlia, porgendomela.
Titubante allungai le mani esubito la piccola si sporse verso di me e in un attimo sentii le sue braccine che avvolgevano il mio collo.
Era bellissima, e provai un’emozione fortissima.
“Posso farcela, posso cambiare, devo essere migliore di come sono stato”.Mi dissi.
«Non puoi immaginare cosa voglia dire per me questo momento. Che cosa stia provando». Sussurrai a mia figlia, mentre la bimba cercava di togliermi gli occhiali.
Da quel giorno è trascorso un anno e Ivana ed io siamo diventati inseparabili. Tutte le mattine, dopo che i suoi genitori sono usciti per andare al lavoro, mi vado a sedere vicino al suo lettino e aspetto che si svegli. Vedere i suoi occhietti aprirsi, quelle mossettine, il suo sorriso candido, le sue braccine che si allungano per chiedermi di prenderla in braccio, m’inteneriscono, mi commuovono, mi donano un’emozione indescrivibile.
E ora sono diventato bravo anche a cambiare i pannolini, a darle il biberon, a prepararle la pappa, ma quello che a noi piace di più, quando il tempo lo permette, è uscire assieme per fare una passeggiata. Lei dopo pochi metri, naturalmente,vorrebbe venire in braccio, ma adesso si è fatta grande e pesa un po’ di più, e allora trovo le scuse più disparate per farla camminare, ma lei insiste per essere presa in braccio e così, dopo ogni passeggiata, torno a casa con la schiena a pezzi.
Se lo dico a mia figlia, lei mi risponde che la sto viziando troppoe non solo perché la tengo sempre in braccio, ma anche perché, e insiste, gliele do tutte vinte.
«E allora?» Replico io. «Non lo sai che è scritto proprio nello statuto dei nonni, che i nipotini vanno viziati, anzi, devono essere viziati, dai nonni a tempo pieno come me?»
Ma forse, il mio è solo il bisogno di riversare sulla piccola Ivana l’affetto e l’amore che non sono riuscito né sono stato capace di dimostrare alla sua mamma, né alla sua nonna.
 



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