MENU

LA DISTANZA

Pubblicato da: Categoria: IL RACCONTO

27
MAR
2017

L’aereo è atterrato. Riaccendo il telefonino. Mi è mancata tanto la mia città e non vedo l’ora di riabbracciare mio figlio.
Dopo la separazione da Francesca, per qualche tempo tenni duro. Pur di continuare a stare accanto a mio figlio, cercai di non muovermi dalla mia città, ma alla fine l’alternativa sarebbe stata il licenziamento, prendere o lasciare, mi dissero. Alla mia età perdere il lavoro sarebbe stata una catastrofe, e allora accettai di trasferirmi in America.
Quando mia moglie ed io ci separammo, nostro figlio aveva dodici anni ed era stato affidato alla madre, la quale si era rifatta una famiglia con un altro uomo.
Lei ed io restammo comunque in buoni rapporti e mio figlio lo vedevo quasi ogni giorno e non solo nelle giornate stabilite dal tribunale. Io mi ero sistemato in una casa non molto lontana dalla loro e d’accordo con Francesca avevamo stabilito che Giorgio sarebbe potuto venire da me ogni volta che avesse voluto. Avevo insistito molto su questo; desideravo seguire mio figlio, volevo vederlo crescere, aiutarlo nello studio e se mi avesse parlato dei suoi problemi avrei voluto consigliarlo. E così fu per qualche tempo, ma con il passare degli anni, però, le cose cambiarono.
Giorgio cresceva e a un certo punto, intorno ai quindici anni, le sue visite si fecero sempre più rare. Preferiva gli amici o starsene per i fatti suoi. All’inizio si giustificava con motivazioni sempre diverse: lo studio, la partita di calcio, la palestra, il nuoto… poi anche le scuse diventarono superflue. Semplicemente capii che non aveva più voglia di venire da me. E questo forse perché a casa mia non aveva una cameretta tutta per sé, forse perché quello che avevamo fatto insieme quando era più piccolo,ora non lo interessava più. Stava crescendo e lo capivo, ma quei quotidiani incontri che avevo così faticosamente cercato di mantenere, stavano finendo ed io non sapevo più come fare per poterli recuperare.
Quotidianità che invece continuava ad avere con sua madre, e questo per il semplice fatto che vivevano nella stessa casa: facevano colazione assieme, pranzavano assieme, uscivano assieme.
Pensando a queste coseiniziai a invidiare Francesca, anche se lei non ne aveva nessuna colpa e faceva di tutto per rassicurarmi.
«Guarda che anch’io lo vedo pochissimo. Quando non è a scuola, sta tutto il giorno chiuso nella sua stanza o esce con gli amici». Mi disse una sera al telefono.
E quando le chiesi se poteva parlare con Giorgio, dirgli di venire a trovarmi ogni tanto, lefeci anche presente che loro stavano sempre assieme, che lei sapeva tutto di lui, che sapevaquando era triste o allegro, che potevano parlare e confidarsi quando volevano.
«Parlare? Figurati. Non è che se è triste viene a dirlo a me. Semmai si confida con gli amici, si chiude in camera sua,eio mi devo accontentare di sentire la sua voce quandoparla al telefono.
«Guarda Francesca che la settimana scorsa mi ha detto che un pomeriggionon è uscito da casa perché ha voluto stare con te e raccontarti passo passo la gita che aveva fatto con la scuola».
«Sì, è vero, ma succede raramente, ti assicuro. Per il resto dei giorni non è così. È sempre fuori: a scuola, a tennis, in piscina o con gli amici. Se è a casa, ti ripeto, si chiude in camera sua».
Io le dissi che non doveva giustificarsi, né rassicurarmi. Ero contento che le cose andassero bene tra loro, solo avrei voluto che qualche volta venisse a trovarmi, avesse voglia di confidarsi anche con me. In fondo, aggiunsi, non abitavamo lontani.
Ma il problema non era la distanza, il problema era altrove, Giorgio stava diventando grande, nutriva sempre nuovi interessi ed io non lo vedevo quasi più.Inoltre Francesca aveva un compagno, vivevano assieme e mio figlio faceva parte di quella nuova famiglia, ma nessuno mi poteva assicurare che a mio figlio facesse piacere coabitare con un estraneo, e questo non faceva che accrescere il mio disagio. Quando pensavo a loro tre, magari seduti a tavola o a guardare la televisione, provavo qualcosa di molto simile alla gelosia. Sbagliavo, lo so, ma erano sensazioni irrazionali che mi tenevo dentro, ma questo non m’impediva di provare un forte malessere.
Oltre a tutto ciò, c’era il fatto che era arrivato il momento che la multinazionale per cui lavoravo, stava chiudendo le sedi nel nostro Paese. Per fortuna conoscevo le lingue, ero apprezzato dalla dirigenza e così mi fu proposto di continuare a lavorare per loro in America, ma io, non sapevo cosa fare, come comportarmi, non sopportavo l’idea di dovermi allontanare da mio figlio, ma intanto il tempo passava e l’azienda stava per chiudere e trasferirsi.
Poco alla volta si era insinuata anche la preoccupazione legata alla disponibilità economica. Se non avessi accettato il trasferimento, come avrei fatto con il mantenimento e le spese per mio figlio? Per fortuna avevo sì qualche risparmio da parte mapoca roba,che si sarebbe esaurita nel giro di un paio d’anni.
E questo problema lo esternai anche a Giorgio. Gli parlai del lavoro, del mio possibile trasferimento, gli chiesi cosa ne pensasse, gli dissi di fare economia, lo misi al corrente delle mie preoccupazioni e fu Francesca a farmi notare che Giorgio stava diventando ansioso.
«Giorgio è preoccupato per te. Mi chiede di continuo se possiamo permetterci questo o quello. L’altro ieri gli è caduto il cellulare e si è rotto, e ora è preoccupato, non sa se può chiederti i soldi per acquistarne uno nuovo. Non assillarlo per favore, se tu non puoi, ci penso io, e poi gli dico che i soldi me li hai dati tu».
Lo sapevo benissimo, Francesca avrebbe fatto di tutto per accontentare il ragazzo, ma nemmeno lei aveva grandi risorse e se fosse mancato il mio contributo, Giorgio avrebbe dovuto rinunciare a molte cose. Ma avevo capito quello che intendeva dirmi, il mio stato d’animo non stava rovinando solo le mie giornate, ma anche quelle di mio figlio.
Avevo paura che Giorgio si allontanasse sempre più da me, e allora smisi di assillarlo con le mie preoccupazioni e quando ci sentivamo, cercavo di mostrarmi il più sereno possibile.
Francesca, che mi conosceva bene, capì subito che qualcosa comunque non andava,e me lo disse una sera che ci incontrammo a scuola, ai colloqui di nostro figlio.
«Paolo, cosa succede tra te e Giorgio?»
«Niente, perché?»
«Perché sembra che abbiate litigato, mi ha detto che non lo chiami più».
«Se è per questo, non si fa sentire nemmeno lui». Le risposi.
«Ma lui è un ragazzo, neppure noi alla sua età cercavamo i genitori».
«Ma io vivevo con i miei genitori, Come posso fare il padre in queste condizioni? Come posso essergli d’esempio se non lo vedo mai. Quando lo chiamo, riesco solo a trasmettergli le mie ansie, le mie perplessità e lui, lo sento, si è stancato di starmi a sentire». Le risposi.
Francesca scosse la testa, ma non disse nulla.
Come mi sarebbe piaciuto vedere le cose in modo diverso. Ma la verità era che non sapevo cosa fare di me stesso, il problema del lavoro mi stava ossessionando e decisi di lasciare in pacemio figlio, libero di fare le sue esperienze. Alla fine accettai anche il trasferimento.
Mi sembrò la cosa più giusta da fare, e partii. L’unica soluzione era di accettare e andare a lavorare in America. Il lavoro mi piaceva e le prospettive economiche erano allettanti, solo la lontananza, il dovermi trasferire aldilà dell’oceano mi creavano non poche preoccupazioni.
Questo avrebbe comportato un distacco totale da mio figlio e mi pesava, ma non avevo scelta, e comunicarlo a Giorgio e a sua madre non fu per niente facile.
«Devo dirvi una cosa importante, posso venire a casa vostra?» Chiesi a Francesca, quando la sentii al telefono.
Quando entrai in casa, Francesca mi lanciò uno sguardo perplesso. Già averle chiesto di andare a casa sua quando non c’era il suo compagno l’aveva infastidita, e anche Giorgio, di solito distratto e svogliato, si sedette sul divano e mi stette a sentire.
«Mi hanno proposto un nuovo lavoro, economicamente vantaggioso e ho accettato».
Erano stupiti e non capivano. Per loro stavo comunicando una buona notizia intono dimesso e con la faccia da funerale.
«E lo dici così? Non sei contento? Di che lavoro si tratta?» Mi chiese Francesca.
Spiegai che la mia azienda stava chiudendo le filiali in Italia e mi avevano proposto il trasferimento in America. Avrei continuato a tenere i contatti con la clientela italiana edeuropea.
«Cioè, devi trasferirti?» Chiese Giorgio, e aveva un’espressione indecifrabile, mi guardava come se volesse dirmi qualcosa, ma continuava a non parlare, poi chiese:
«Ma per sempre?», e seguì un muro di silenzio.
Che male mi fece quella domanda, forse preferivache restassi, o magari credette che volessi fuggire.Mi sentivo un vigliacco. Mi sembrava di scappare dalle sue aspettative, dalle mie responsabilità di padre, ero sicuro di averlo deluso.
Sarebbe stato bello potergli dire no, resto, gettare tutto alle spalle, ma avevo paura di diventare uno dei tanti disoccupati in cerca di lavoro.
Chissà dove avrò sbagliato con Giorgio, mi dissi. Se fossi stato più sicuro di me, se fossi stato più autoritario… ma non sono mai stato quel tipo di padre. Ma intanto avevo l’impressione di non riuscire a farmi capire. Presto sarei diventato una voce al telefono, forse un viso sul monitor del suo computer e la distanza sarebbe stata reale, e la mancanza del nostro rapporto inevitabile.
Nei mesi successivi al mio arrivo in America, fu proprio come avevo immaginato. Qualche telefonata, l’invio di soldi, due domande futili.
Il primo Natale, fu penoso. La distanza aveva creato un solco e un’estraneità fino allora sconosciuta. Una tortura penosa per me.
Non saprò mai se la mia decisione di allontanarmi da mio figlio è stata giusta o sbagliata, cosa rovinai e cosa salvai. Scoprii però che è il tempo a svolgere il grosso del lavoro, ad aggiustare le cose, a smorzare i toni.Dopo due anni, infatti, la situazione si assestò. Alla fine trovammo un modo affettuoso di sentirci. Giorgio cresceva, ed era diventato più sicuro di se, più riflessivo e in me, anche se lontano, trovò chi lo stava ad ascoltare e lo consigliava. La distanza che ci separava, in questo senso ci fu d’aiuto. Il nostro rapporto diventò aperto e lineare, quasi complice. Ero diventato anche il suo punto di riferimento,quando aveva qualcosa d’importante da dirmi, da decidere.
«Sto lavorando, niente di straordinario, ma guadagno qualcosa per un viaggio quest’estate».
«Per il viaggio a Parigi con Martina?» Chiesi.
«Parigi sì, Martina no. Ci siamo lasciati».
«Ma no! Pensavo fosse una cosa seria». Gli risposi.
«Forse proprio seria non doveva essere, se ci siamo lasciati», e aggiunse che a Parigi ci sarebbe andato con un’amica. Una ragazza che in seguito ne sentii parlare parecchio da lui.
Quell’intimità con mio figlio, che tanto mi era mancata quando vivevo a pochi isolati da lui, la stavo recuperando a distanza. Era nato un nuovo rapporto con lui. Ormai maggiorenne era diventato più riflessivo e comprensivo.
Ma la sorpresa più grande mi arrivò da Francesca, quando un giorno la chiamai per parlarle di Giorgio.
«Allora, tu cosa ne pensi della sua decisione?» Chiesi.
«Quale decisione?» Rispose stupita.
«Be’, quella di comprarsi la moto, ha detto cheda un anno sta mettendo da parte i soldi per comprarsela». Le risposi.
«Quando te l’ha detto?» Chiese, preoccupata e cadendo dalle nuvole.
Francesca non ne sapeva niente. Giorgio non aveva messo al corrente la madre della sua decisione, ma non potevo immaginare che non le avesse mai parlato di una cosa così importante.
Dunque, mio figlio aveva parlato solo con me della sua idea di comprarsilamoto. E questo mi rese felice.
La sera stessa lo chiamai per scusarmi della gaffe che avevo fatto, parlando con sua madre della moto, ma lui rispose di non preoccuparmi, non era un problema, alla madre aveva tardato a dirglielo, mi spiegò, solo perché lei era apprensiva, si sarebbe preoccupata e avrebbe cominciato a faremille storie.
«Anzi, ti devo ringraziare, mi hai spianato la strada. Mi ha anche detto che per te non sarebbe stato un problema, che mi hai sostenuto».
Il nostro rapporto continuò e andò rafforzandosi, ma il desiderio di tornare a casa, rivedere mio figlio, cresceva ogni giorno di più. Per fortuna dopo qualche anno ebbi la possibilità di rientrare. La direzione della multinazionalestava progettando la realizzazione di nuove sedi in Europa e mi propose il ritornare a occuparmi della filiale che si sarebbe aperta in Italia.
Non dissi niente a nessuno che stavo per tornare,volevo fare una sorpresa a mio figlio, così, appena sceso dall’aereo presi un taxi e mi feci portare nel mio vecchio appartamento,e da lì chiamai Giorgio.
«Ciao. Volevo dirti una cosa importante, o almeno importante per me…»
«Cosa?» Chiese mio figlio.
«Ritorno a lavorare in Italia».
Non dimenticherò mai la reazione di Giorgio: aveva la voce rotta dall’emozione e stava per mettersi a piangere dalla gioia.
«Ma è una notizia bellissima papà, quando arrivi?»
Gli risposi che ero già tornato, che mi trovavo a casa e che non vedevo l’ora di abbracciarlo.
«Anch’io. Non sai quanto…» Mi rispose.
«Allora sbrigati a venire, perché non so quanto possa ancora resistere senza vederti, e poi ho un mare di cose da dirti, da raccontarti».
«Anch’io papà. Arrivo».
Ora sono sereno,e sono tornato di nuovo sicuro di me. All’aeroporto, prima della partenza, avevo abbracciato un adolescente, un ragazzo, ora mi trovo davanti un uomo fatto, con tanto di barba e due occhi espressivi e sicuri.
Sono finalmente felice, perché so che anche Giorgio è contento di avermi di nuovo accanto.
La distanza tra noi è stata finalmente azzerata e ora possiamo ricominciare il nostro cammino interrotto, ma tra adulti.
 



Lascia un commento

Nome: (obbligatorio)


Email: (obbligatoria - non sarà pubblica)


Sito:
Commento: (obbligatorio)

Invia commento


ATTENZIONE: il tuo commento verrà prima moderato e se ritenuto idoneo sarà pubblicato

Sponsor