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LE DUE SORELLE

Pubblicato da: Categoria: IL RACCONTO

27
LUG
2017

Cosa non mi piace: il chiasso, la confusione, la dieta, il disordine, l’ipocrisia, la falsità. E la maleducazione mi sconcerta.
Cosa mi piace: le piccole gentilezze inaspettate, la generosità, la musica, il mare, un muro ricoperto di edera rampicante, la cioccolata fondente. Per un dolce sono disposta a fare pazzie. E poi mi piacciono i romanzi rosa, quelli che nessuno legge, ma chissà perché, non conoscono crisi.
Non sono sempre stata così. C’è sempre qualcosa che, a un certo punto della nostra vita, ti trasforma in qualcuno che non credevi di essere o, piuttosto, ci svela esattamente cosa siamo: una zitella della peggior specie, irrisolta e malmostosa.
Ecco cosa sono io, o cosa era nascosto in me ed è semplicemente venuto a galla perché qualcuno ha fatto in modo che accadesse: sono le mentite spoglie di una ragazza di buona famiglia, di aspetto passabile, brillante negli studi, salda nei valori ma eternamente in bilico tra la solitudine e le scelte sbagliate.
Forse proprio adesso, mentre sono qui sola sul divano, la tv accesa e sto sgranocchiando i miei biscotti da discount, l’uomo che mi ha svelato chi realmente sono, starà tranquillamente cenando con sua moglie e i suoi figli che già a sei anni una tata inglese ha insegnato loro a parlare correttamente quella lingua. La nostra storia è durata cinque anni e il vero mistero è come mai sia possibile che adesso i miei ricordi più vivi riguardino i momenti in cui ci incontravamo nella sua auto: il seggiolino del figlio più piccolo, ancorato al sedile posteriore lo faceva sembrare tragicamente presente, e se possibile rendeva la situazione ancora più torbida.
Mia sorella invece ha sposato un ingegnere che la riempie di corna e che le ha dato due deliziose bambine di cinque e tre anni, Anna e Rosa, che sono l’amore della mia vita. Anche se io non ho un debole per i bambini e al momento non direi che avere un figlio rientri nei miei programmi, a loro due non riesco a resistere. Così mia sorella risparmia sulla baby sitter e io sono contenta di trascorrere alcune ore con loro.
Con un messaggio che vorrebbe essere discreto, ma altro non è che un ordine, Emma mi ricorda che oggi devo andare a prendere le nipotine alla scuola di danza e riaccompagnarle a casa. Poi tornerò nell’appartamento che condivido con mia madre e potrò prepararmi per uscire. Sono stata invitata alla serata di gala che ha organizzato l’azienda per cui lavoro.
Il clima è quello che dovrebbe essere ogni giorno dell’anno: non c’è caldo, non c’è freddo, non c’è vento. La somma perfezione, per chi deve scegliere l’abito giusto per andare a una festa.
Arrivo in taxi e appena entro nel locale sento un sottofondo musicale insopportabile; c’è la consueta orda di gente, un’aria di felicità collettiva, con cui sento di non avere niente in comune.
«Damiana!» La voce appartiene a quella di Franco, un celebre rompiscatole che ho conosciuto per lavoro qualche tempo fa. Uno di quelli che di sicuro non sposerei mai. E questa sera è anche alticcio e attorniato da una combriccola di perdigiorno quanto lui.
«Amici, lei è Damiana De… De qualcosa, insomma, una mia cara amica, e lavora nello studio commerciale dell’azienda, sì?».
«Wowww, studio commerciale, allora dacci subito il tuo numero di cellulare. Ci verrà utile per la compilazione della dichiarazione dei redditi». Propone un cretino che intanto ha infilato lo sguardo nel solco della mia scollatura.
«Vieni, c’è posto. Ehi, amico, porta dell’altro champagne. Ne vuoi una coppa, sì?» Mi chiede Franco, prendendomi una mano e, mio malgrado, mi ritrovo a seguirlo sino al primo divano libero.
La festa si rivela noiosa e inconcludente, come tutte le altre alle quali ho partecipato, e quando ritengo che sia trascorso il tempo sufficiente per non sembrare sgarbata, saluto tutti ed esco.
«Non mi potrei mai perdonare se domani arrivassi tardi al lavoro o se per strada ti succedesse qualcosa. Se permetti, ti accompagno io, si? Dov’è che abiti?». Sento dire al rompiscatole, che mi ha seguito sino in strada.
«Io sono sicura che invece non mi accadrà proprio niente e che domattina sarò come sempre puntuale al lavoro». Gli rispondo, e compongo il numero per chiamare un taxi.
«Io invece sono sicuro che ti farebbe piacere se ti accompagnassi io. Anzi, ti propongo di passare prima da casa mia per ascoltare un po’ di musica insieme e, se ti va, in frigo ho anche un vino rosso che è uno spettacolo». Insiste.
Gli sorrido ma non rispondo, e lui adesso sembra un po’ annoiato e ha lasciato che la gentilezza cedesse il passo alla freddezza. Ma annuisce con gentilezza. Mi fa compagnia fin quando arriva il taxi e poi mi saluta. Troverà sicuramente chi poter accompagnare, passando magari prima da casa sua.
Sono al lavoro e mi squilla il cellulare. È mia sorella.
«Damiana, ti ricordi che questa sera abbiamo un impegno e devi portare tu a danza le bambine?»
In verità l’avevo totalmente dimenticato, tanto che avevo detto alla mia collega che l’avrei aiutata a dividere le pratiche da mettere in archivio.
«Sì, certo.» Le rispondo. Quindi, niente lavoro. Stasera mi dedico alle nipotine, e lo dico poco mortificata alla mia collega.
Prendo la macchina e raggiungo la loro casa. Il viscido cognato è già pronto, elegante e incravattato da un pezzo mentre mia sorella, invece, è ancora chiusa in bagno che si sta truccando. Abbraccio le nipotine, faccio salutare in fretta i genitori e le infila di corsa in ascensore perché ho lasciato la macchina in doppia fila.
«Grazie Damiana, grazie…» Mi grida Emma, aprendo appena la porta del bagno.
Ma che hanno tutti? Sono forse il ritratto della nubile da compiangere fino a questo punto, tanto da muovere a pietà chiunque mi guardi in faccia per più di un minuto? Ma forse è colpa mia. Perché quando uno prende una china negativa, non può aspettarsi che all’improvviso le cose si rimettano a posto. Dovrei trovare la forza di reagire e fronteggiare la valanga di problemi che ho, senza dimenarmi troppo. Esattamente come un giunco che aspetta che passi la piena.
Ho trascorso tutta la domenica a casa, piove e non mi andava di uscire, ma sento vibrare il cellulare nella tasca dei jeans e guardo il display È Emma, ha un tono di voce calmo ma apprensivo. Meno di venti minuti dopo, sono già a casa sua.
C’è silenzio quando arrivo. Le bambine sono già andate a letto e il viscido cognato è via per lavoro e mia sorella ha gli occhi gonfi e pesti. Mi stringe in un abbraccio dei suoi, di quelli con cui si aggrappa a me quando non sa più che cosa fare. Al che già immagino la scoperta di un nuovo tradimento del viscido cognato.
«Mi vergogno… Mi vergogno così tanto». Mi dice.
«In realtà dovrebbe vergognarsi lui». Le faccio presente, dato per scontato la natura della sua crisi isterica.
«Lui? Perché lui. Lui chi?» Emma è totalmente disorientata.
«Lui… tuo marito!» Ribatto in un attacco di stizza.
«Che c’entra lui?» Risponde piena di angoscia.
«E allora, qual è il problema?»
«Un altro lui». Afferma abbassando lo sguardo.
Da sempre mia sorella è stata un modello di moralità, virtù e fedeltà, e il suo attuale sconcerto deriva, una volta tanto, nell’essersi trovata parte attiva di un tradimento.
«Vuoi essere un po’ più chiara senza centellinare le parole?» Le chiedo.
«Mi sono presa una colossale sbandata per uno, un collega nuovo».
«Oddio…» Ecco perché del suo dimagrimento degli ultimi tempi, che lei si ostinava ad attribuire alla gastrite.
«Erano anni che non mi sentivo così. Lui è talmente… talmente pericoloso».
«Non sarà un extracomunitario, spero».
«No, scema… È pericoloso nel suo modo di essere. È un bell’uomo, gentile, garbato e…»
«E ci sei cascata».
«Damiana, io sono disperata e tu non mi capisci, non mi stai aiutando».
«A che punto della sbandata sei? Hai varcato la soglia del contatto carnale?»
«Ampiamente».
«E allora che dirti? Posso solo ricordarti che hai due figlie e un marito? Vuoi sentirti dire che devi licenziarti subito per non vederlo più’ e rimetterti sulla buona strada? Tu non vuoi sentirti dire questo, perché sono sicura che lo sai da te quello che è giusto fare, e non fai che ripetertelo».
«No. Voglio che tu mi ascolti, che mi dica che tutto passerà, e che presto mi sentirò meglio. A volte penso di aver vissuto per anni in una dieta perenne. Mi privo del cibo per non ingrassare. Delle spese superflue, per pagare il mutuo. Prima di comprare anche un solo paio di scarpe, che davvero mi servono, ci penso due volte. Emozioni, perché ho un marito che quasi mi ignora e mi tocca una volta al mese. E quella volta, detto francamente, non è niente di straordinario e meglio sarebbe se lui se ne andasse con le altre, come peraltro già fa, ma evidentemente non è sufficiente. Quell’uomo mi ha risarcita di tutte queste privazioni. E io avevo un disperato bisogno di sentirmi amata, desiderata e corteggiata». Conclude, scandendo le parole in modo che vi percepisco un senso di malessere, di rimorso, di colpa.
«Tu mi giudichi, lo so! Proprio tu!» Aggiunge guardandomi all’improvviso negli occhi.
«No. Io non giudico. Come potrei? Da quando va avanti questa storia?» Le chiedo.
«Da più di tre mesi. Io stessa mi sono meravigliata dalla rapidità con cui ho ceduto».
Il suo stato di estrema sofferenza mi colpisce e mi commuove.
«Emma, la mia sensazione è che tu avessi solo bisogno di lasciarti andare con un uomo che ci sapesse fare a letto. Adesso che lo hai fatto… perdonati questa sbandata, chiudi, e riprenditi la tua vita». Le dico, con tono confortante di un vecchio parroco di campagna che ne ha ascoltate e sentite di cotte e di crude.
«Non ci riesco. Ogni mattina mi sveglio piena di buoni propositi, ma poi ci ricasco».
«Adesso basta lacrime, devi essere solo più determinata. Ne hai ancora di quel vino liquoroso dell’altra sera? Mi sa che è venuto il moment di finire la bottiglia».
Tre giorni dopo, il viscido cognato è ancora all’estero, e io ho promesso a Emma che mi sarei tenuta le nipotine, cosicché lei potesse vedere il suo visconte di Valmont e darci un taglio. O perlomeno provarci. Ma quando la vedo mi preoccupo, sembra essersi sottoposta a una dieta che fa perdere peso in tempi record. Asciutta e smunta, con aria infelice da madame Bovary, continua a controllare nervosamente e in modo ossessivo il suo cellulare. Sta aspettando un messaggio del collega, ben felice che il marito sia ancora fuori città. Dopo una ventina di minuti finalmente riceve il messaggio che aspettava, si rilassa, saluta me e le bambine ed esce. E io la capisco, perché in effetti, come darle torto sul fatto che non si può essere adultere a metà? Non posso che sperare che tutto si esaurisca molto presto, perché anch’io ho vissuto la stessa esperienza sulla mia pelle.
In un attimo di silenzio assoluto Anna si affaccia alla porta del salotto e mi guarda.
«Pulcettina non hai sonno?» Le chiedo alzandomi e prendendola in braccio.
«Mi manca papà». Mormora, tenendo stretto in mano il suo orsacchiotto e io le rispondo che papà tornerà presto e le porterà tanti bei doni.
«Zia, forse papà se ne va spesso perché gli ho detto che, quando lui parla, la mamma alza sempre gli occhi al cielo».
«Ma no pulcettina. Anche se non è stata una grande idea raccontarlo a papà. Lui è solo via per lavoro. Torna domani. Tutti abbiamo bisogno di lavorare, anche la mamma. E un giorno anche tu lavorerai». Le rispondo rimettendola a letto.
Mia madre deve aver captato qualcosa, perché mi fa un sacco di domane e io cerco di tranquillizzarla, ma in realtà il viscido cognato ha scoperto il tradimento di Emma e, mortalmente ferito nell’orgoglio, se n’è andato di casa. Per sempre, ha giurato. E adesso che mia sorella si è resa conto che di quel visconte Valmont poteva farne tranquillamente a meno, si sente confusa, umiliata, e ha il disperato bisogno che il marito la perdoni.
Piange, si dispera e continua a ripetere che senza di lui la casa è vuota e che vorrebbe tornare indietro nel tempo. Non aver mai ceduto alle lusinghe di quel mascalzone, che frattanto continua a chiamarla, a mandarle dei messaggi.
Io sono avvilita, perché vorrei essere intervenuta prima con più determinazione, e così risparmiarle un’esperienza dolorosa.
«Dagli tempo, vedrai che tornerà». Le dico, cercando di calmarla.
«Lo credi davvero?» Domanda speranzosa, come se fossi l’oracolo che dice solo la verità.
«Non ho dubbi». Ribatto mentendo, perché in realtà io non lo so cosa passi in questo momento nella testa di mio cognato. Ho provato anche a chiamarlo, chiusa in bagno mentre Emma riposava dopo che non aveva chiuso occhio per tutta la notte, ma si rifiuta di parlare anche con me e non ho idea di dove si trovi. L’ho tempestato di messaggi e mi sono giocata anche la carta delle bambine, ma ancora non ho avuto risposta.
La verità e che sono pochi gli uomini che possono capire, accettare e perdonare tutto il mondo di emozioni che si muove dietro il tradimento di una donna. Per lo più certi casi si verificano solo nei film e nei romanzi, e qui ci vuole solo la delicatezza del tacere. Perché a giudicare gli uomini ci impiegano due minuti, ma il più delle volte non sono in grado di comprendere certi cedimenti, certe sbandate, le ragioni che hanno portato al tradimento.
E io so soltanto che le lacrime di chi ci è più caro si asciugano con più dolore delle proprie.
Decido di portare le bambine da nostra madre con una scusa e di fermarmi da mia sorella per la notte, che lei trascorre inquieta. Emma dorme per intervalli brevi, poi si sveglia e piange.
All’alba il rumore della serratura della porta d’ingresso sveglia entrambe, la mano dell’una stretta a quella dell’altra come quando eravamo piccole e dormivamo insieme perché qualche cosa ci aveva fatto paura. È il cognato, non troppo sorpreso di vedermi nel suo lato del letto.
«Vi lascio soli». Dico, alzandomi, prendendo i miei abiti ed eclissandomi in bagno. Ho solo bisogno di sciacquarmi la faccia e di un caffè amaro.
La prima faccia che incontro appena arrivo in ufficio è quella della segretaria del presidente, che quando mi vede arriccia le labbra a culo di gallina e risponde al mio saluto con un buongiorno che malcelatamente augura tutto il contrario. Non mi è chiara la ragione per cui io le susciti tanta antipatia; del resto è evidente che la suddetta segretaria dei piani alti è colei che continua a mettermi in cattiva luce agli occhi dei miei colleghi. Ma ogni tanto il mondo gira al contrario e, alla faccia sua, da loro sono benvoluta e mi trovo qui per guadagnarmi onestamente il pane quotidiano.
Alle undici ricevo un messaggio di Emma: “tutto bene. Grazie Damiana”.
 



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