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IL PRIMO AMORE

Pubblicato da: Categoria: IL RACCONTO

3
AGO
2017

Mio padre era un signore discreto, integerrimo, troppo serio e appartato per trovarsi bene con tutti, e faceva fatica a condividere anche la mia vita esagitata di quel tempo. Così, quando con la sua solita flemma, in un pomeriggio assolato, mi disse quelle parole scaturite dal suo intimo, rimasi colpita.
«Sei sicura di quello che stai facendo?»
Mi voltai, stavo per uscire con Fabio, era giù in macchina che mi aspetta, dovevamo andare in chiesa per l’ultimo incontro prematrimoniale.
«Di cosa parli papà?»
Mio padre alzò un braccio e m’indicò il soggiorno, e alla tenue luce del corridoio mi mostrò quella catasta di regali: pile di piatti, di posate, bicchieri, bricchi, vassoi, tovaglie e non so cos’altro.
«Quella roba, se vuoi, la rispediamo indietro… non devi preoccuparti di quella montagna di cianfrusaglie».
Era rosso in viso, alterato. Sentiva di doverlo dire. Forse ci stava pensando da tempo e aveva comunque capito che i giorni che potevamo trascorrere ancora assieme stavano per finire, che non c’era più tempo per dirsi qualcosa e quella frase gli era partita così, salita dal cuore e saltata fuori in quel corridoio semibuio.
«Guarda che io sono contenta, papà. Va tutto bene. A Fabio voglio bene».
«E quell’altro?»
Per un attimo pensai a Oscar, ma non provai nessuna emozione, allungai la bocca in una smorfia e mi ripetei che non volevo dargli più nessuna possibilità.
«Quell’altro non esiste, papà, e comunque è acqua passata».
Mio padre annuì, ma si capiva che non ne era convinto.
«Allora va bene, continuiamo a far salire la mercanzia!» disse, e scosse la testa.
Mi credeva perché ero sua figlia. Mi credeva, anche se non fino in fondo. Lui non entrava nei dettagli, non discuteva le mie scelte, sapeva che la mia era una partita a scacchi, ma rispettava il mio pensiero. Il resto non lo riguardava, lo intuiva forse, ed era per questo che temeva il peggio. Mi baciò la fronte e voltò le spalle.
Era sempre stato affettuoso e aveva tentato un azzardo. Mi aveva teso un’ancora di salvezza, ed io l’avevo lasciata cadere.
Mi sposai. Camminai verso l’altare, verso Fabio voltato a guardarmi. Indossava un abito grigio, di stoffa costosa con le due code inamidate. C’era l’altare, il prete amico, la guida rossa, gli addobbi, i fiori, la musica. C’era il braccio di mio padre. Rigido, teso, le mani sudate. Non era abituato a stare al centro dell’attenzione. Avanzammo piano, non sapeva se salutare la gente o guardare soltanto avanti, trovò una via di mezzo, salutava con gli occhi, oscillava la testa.
Quanto a me ero lì, attaccata al suo braccio e come la maggior parte delle persone, credo in Dio ogni tanto, quando ne ho bisogno o quando i riti sacri lo richiedono.
Se in quel momento gli avessi detto andiamocene, se mi fossi avvicinata al suo orecchio per sussurrarglielo, lui non avrebbe fatto una piega. Il suo braccio si sarebbe ammorbidito, sarebbe tornato sereno, mi avrebbe preso per mano, io avrei buttato i tacchi e saremmo scappati, lasciandoci alle spalle tutti quei visi irritanti che attendevano solo la fine della cerimonia per poi potersi sedere a tavola. Come sarebbe piaciuto a mio padre mandare tutto a monte.
Ma questo non c’entra. Perché non è stato. Mio padre si è avvicinato a Fabio, si sono stretti la mano e poi è andato a sedersi. Mia madre si è spostata per fargli posto nel banco, lui tossì e dalla tasca estrasse il fazzoletto.
Mia madre: il viso tirato e le scarpe troppo strette. Mia suocera: sfuggente come sempre, in abito color panna e i capelli come da copione. Mio suocero: ingegnere, canuto, robusto, elegantissimo nel suo abito da cerimonia. Sembrava seccato di trovarsi lì, in chiesa, a perdere tempo.
Così ho sposato il mio principe azzurro. Ho letto la formula. Ci siamo scambiati le fedi senza emozione. Sul sacrato i chicchi di riso ci sono grandinati addosso. I fotografi hanno continuato con i loro clic sino a tardi. Siamo passati tra gli invitati con il cesto dei confetti. Ci sono stati cori e battute. Abbiamo riso e sorriso, sempre, anche nei momenti di stanchezza. Gli anziani se ne andarono, rimasero i giovani e gli amici. Abbiamo ballato. Fabio si allentò il nodo della cravatta, mi tirò a se e cominciò a saltare come una molla per seguire il ritmo della musica.
Siamo andati alle Maldive, viaggio di nozze offerto dal padre. Siamo tornati e andati ad abitare nella nostra nuova casa. Muri bianchi e ancora spogli, pochissimi mobili, un letto che odorava ancora di cellofan e un frigorifero troppo grande e troppo vuoto.
Scene da un matrimonio:
Fabio torna dallo studio dove lavora con suo padre, sento le chiavi, sento la porta aprirsi. Sono sul divano, non mi alzo. Lo saluto da lì.
«Come va?» Dico.
Mi passa accanto, mi sfiora appena e dice che deve andare a farsi la doccia. Va in bagno ed esce nudo; bagna il pavimento. Guardo quel bagnato, guardo il suo corpo nudo.
«Che c’è?» chiede.
«Niente». Gli rispondo.
A cena dai suoi: Tavolo ovale laccato. Mobili di pregio. Fabio parla col padre, calcoli riguardanti un nuovo appalto. La madre una statua di cera. Sorrido alla domestica che gira per casa e sgombra la tavola.
A cena dai miei: Mio padre non parla, mia madre si alza di continuo. Quando andiamo via, sulla porta le dico di darmi la spazzatura. La porto giù io.
Fabio dice che faccio gesti assurdi, che non ho rispetto per lui.
«Ma scusa, per un sacchetto di spazzatura?». Rispondo, stizzita.
«Non solo per quello… per tutto».
Torniamo a casa senza scambiarci una parola. Lui va a letto ed io resto a guardare la televisione: programmi di cucina anche di notte. Spengo e resto sul divano.
Non posso dire che il mio sia un matrimonio infelice. È solo che mi sono infilata in un tunnel alla cieca e non riesco ancora a vedere la luce, la fine della galleria.
Fabio sta fuori tutto il giorno, torna la sera e si mette vicino a me, sul divano. Certe volte mi prende la mano, certe volte dice di essere stanco e le tiene intrecciate, abbandonate tra le gambe. Non so cosa pensa e non glielo chiedo. Non ci manca niente, siamo giovani, della buona società. Non ci sono problemi economici o di altro genere. Il sabato sera cucina lui. Invita spesso gli amici, gli piace cucinare per loro, stappare il vino, accendere le candele, portare in tavola.
Ogni tanto penso a Oscar, forse mi manca, ma non c’è spazio per lui in questa casa. So che è partito. Finalmente ha preso coraggio e per rincorrere la sua passione se ne andato in giro per il mondo. Con la sua macchina fotografica starà fissando le immagini di qualche guerra e poi le invierà alla sua agenzia. Era quello che voleva fare da sempre, zaino in spalla, aerei traballanti, treni strapieni e puzzolenti, autostop su camion scoperti. Giubbotto antiproiettile con su scritto Press.
Va bene così.
Casco con il motorino, scivolo sotto la pioggia. Non mi faccio niente, però resto lì imbambolata, stordita, incapace di togliermi dal traffico. Un ragazzo si ferma e mi aiuta. È giovane, un liceale, credo. Ha la faccia bagnata e pulita. Lo ringrazio mentre mi aiuta ad alzarmi.
«Prego, signora».
Già, io sono una signora. Sono una povera signora. Trascino il motorino sotto la pioggia e vado a casa dei miei. Mi asciugo i capelli, mi cambio. Mio padre mi guarda e chiede:
«Come mai qui a quest’ora?»
«Sono caduta con il motorino. Sono venuta a cambiarmi».
Lui fa un cenno d’assenso e torna nella nebbia dei suoi pensieri.
Fabio due sere alla settimana va a giocare al calcetto con gli amici. A volte lo accompagno. Rimango lì attaccata alla grata. Il gruppo delle mogli fa il tifo. I fari illuminano quel branco sudato e in mutande. Decido di non accompagnarlo più. È troppo umido e freddo. Il calcetto non m’interessa e chiacchierare con le mogli degli altri mi annoia, e glielo dico.
Lui sembra rimanerci male e io gli dico che abbiamo sbagliato a sposarci. Lui risponde che sono io che non lo amo più.
Passa altro tempo e un giorno aspetto che Fabio esca e poi raccolgo le mie cose e le metto tutto negli scatoloni. Non voglio prendermi le sue valigie. Mi guardo intorno e poi attendo il suo ritorno.
Fabio rincasa, butta la borsa sul divano. Gli parlo. È sorpreso. Incredulo, ma non si altera, non dice niente di sconveniente.
«Mi mancherai». Mi dice, ma non fa una grinza, non ha un muscolo fuori posto. Forse se lo aspettava e si sarà già organizzato.
Sono tornata dai miei e non ho mai più ripensato a lui. L’ho visto qualche volta d’estate, al mare. Una volta ci siamo incontrati proprio faccia a faccia, difficile far finta di non vederci. Mi aveva guardato… salutato. Mi sentivo a disagio. Lui invece sembrava sereno, tranquillo. Parlava, mi raccontava di sua moglie e dei suoi figli, tre. Chiese dei miei.
«Come stanno i tuoi? Tuo padre e tua madre…»
«Sono morti». Gli risposi.
Annuì, faceva su e giù con la testa:
«Ebbè, certo. Siamo diventati vecchi noi».
Lui non era affatto vecchio, stava meglio di prima. Gli anni lo avevano aiutato a migliorare. Quel suo viso, tutto sommato da imbecille, sembrava sereno. Gli avevo presentato mio figlio.
Mia madre, quando tornai a casa da loro, mi chiese dei regali di nozze, per nervosismo credo, per non affrontare discorsi che l’avrebbero fatta soffrire.
«Ho lasciato tutto a Fabio», le risposi.
Mio padre era serio, si fingeva amareggiato, si dava un contegno. Gli sembrava che così si dovesse comportare il padre di una figlia che sposa un giovane ingegnere ricco, pieno di appalti pubblici e ritorna a casa dopo pochi mesi di matrimonio.
Quella notte chiamai Oscar. Mi mancavano le sue parole, mi mancava da morire lui, i suoi capelli lunghi, la sua voce, la sua risata. Parlammo allungo. Mi disse che adesso viveva a Roma, che era tornato anche lui single.
Decisi di andarlo a trovare. Volevo fargli una sorpresa, e la mattina dopo ero già sul treno alla volta di Roma.
Scesi alla stazione Termini. Non c’erano taxi, camminai sotto la pioggia. Avevo il suo indirizzo ma non sapevo nemmeno se lui fosse in casa a quest’ora. Aveva smesso di piovere, ma era umido. Dal citofono arrivò una voce maschile, esile, rauca.
«Chi è?»
«Sono io. Selvaggia».
La voce scomparve dal citofono e una testa si affacciò al balcone. Era quella di Oscar.
Scese. Mi aprì il portone. Mi portò in braccio a casa sua. Mi fece entrare in salotto, dove si vedeva che non ci andava mai nessuno.
Si buttò in ginocchio, ai miei piedi. Si rovesciò come un cagnolino quando fa le feste, strofinò la testa sulle mie gambe. Mi baciò le mani.
«Non è vero… non è vero. Ma sei proprio tu?»
Si tirò su di scatto come una molla e mi abbracciò. Anch’io gli saltai addosso, gli strinsi le ginocchia intorno ai fianchi. Si asciugò gli occhi e non capivo se ridesse o se piangesse.
Rimasi in quella casa sino alla fine dell’estate e oltre. Ogni giorno dicevo che dovevo partire, e ogni giorno restavo. Se c’era il sole andavamo a Ostia, al mare. Aveva una barchetta piccola, con una vela grande come una tovaglia. Restavamo fuori fino a sera e la notte ciondolavamo da un locale all’altro, dai Parioli a Trastevere. Era euforico, contento di avermi lì nel suo ambiente. Mi presentò i suoi strampalati amici: facce giovani, serene. Spiava se ero contenta.
Mi confessò che per un periodo si era fatto di eroina…, che aveva avuto anche dei problemi per delle risse con gli ultras della squadra avversaria.
«Ti ho deluso?» Chiese.
«No. Ma non posso continuare a vivere così alla giornata, sradicata, senza un futuro».
Oscar si era presentato a casa mia a modo suo, in motocicletta, all’alba, dopo aver percorso cinquecento chilometri di autostrada nella notte. Aveva superato un tir dietro l’altro, montagne di fari senza mai fermarsi. Suonò al citofono di casa dei miei, in mano un ciuffo di rose rosse acquistate chissà dove. Scesi per strada in pigiama, mentre le prime luci dell’all’alba stavano facendo capolino sopra i tetti bagnati di rugiada.
Presi le rose, le tenni così, appese tra le braccia conserte. Ero arrabbiata, confusa. Avevo lasciato Roma il giorno prima. Non avevo nemmeno disfatto la valigia e lui era già lì, i capelli schiacciati dal casco, le guance rigide per il freddo della notte.
«Io non posso ospitarti, lo sai. Mi sono separata pochi mesi fa, non posso portare un altro tizio a casa dei miei».
Oscar mi guardò interdetto e chiede:
«Chi sarebbe l’altro tizio?»
Poi scoppiò a ridere. Mi abbracciò e mi disse che si era già organizzato. Sarebbe stato ospitato da un suo amico.
Era sceso anche mio padre, la vestaglia sopra il pigiama e ai piedi le ciabatte. Feci un cenno a mio padre per dirgli di tornare in casa. Invece si avvicinò e si strinsero la mano. Poi avrei scoperto che avevano sempre parlato al telefono, tante volte, durante il mio matrimonio. Parlato di me, di fotografia, di viaggi. Si erano trovati da subito simpatici.
«Chi è questo ragazzo?» Chiese mia madre. «È uno», risposi.
«Sei sicura di fare bene?» «No, mamma, Non sono sicura di niente». Replicai, prima di tornare a Roma con Oscar.
Non l’ho sposato, ma abbiamo avuto un figlio, Massimo, che ora ha sedici anni e pensa di voler fare lo stesso lavoro del padre. Vuole girare il mondo con una macchina fotografica appesa al collo e il giubbotto antiproiettile con scritto Press sul petto.



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