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LA STAGISTA

Pubblicato da: Categoria: IL RACCONTO

5
OTT
2017

Ho iniziato a lavorare con uno stage subito dopo la laurea, e qualcuno mi haribattezzata “la tenace stagista” e non in termini lusinghieri. Ma forse sarebbe stato più giusto definirmi “l’eterna stagista”,giacché il mio contratto viene annualmente rinnovato a un risibile stipendio, sempre uguale a se stesso.
Non è facile. I soldi sono davvero pochi, a fronte della mole di lavoro che svolgo e delle promesse rimandate a un futuro sempre prossimo ma che in realtànon arriva mai. Il mio datore di lavoro suquestoargomento è alquanto volatile e benché sembri una persona molto distinta e alla mano, in realtà, parlare con lui di certi argomenti, diventacomplicato, se non impossibile.
In ufficio condivido la mia stanza con un’altra stagista. Erminia,che è la collega carogna per antonomasia, quella che per mettersi in mostra venderebbe l’anima di sua madre, quella che minimizza sempre il lavorodegli altriper esaltareil proprio. È quella a cuitutte le cose vanno sempre bene; la prima della classe, insomma.
«Bruna, il signor De Palco ti ha detto niente del contratto?»Mi chiede Erminia, che ha anche il difetto di far finta di non sapere mai niente di ciò che succede intorno a noi, e il contratto cui allude è il nostro, quello di entrambe, che è in scadenza tra dieci giorni.
«Ci ha promesso che non saremo più stagiste ma che ci verrà proposto un contratto a tempo indeterminato, da vere dipendenti. Persino con le ferie pagate». Glielo ricordo con dolcezza, anche se lei lo sa meglio di me come stanno le cose. Ma Erminia è fatta così, è molto ansiosa e ha bisogno di sentirsi dire continuamente che va tutto bene.
«Ci tengono qui come stagiste a novecento euro al mese da tre anni. Lo stage non si può più rinnovare per legge e ora devono per forza assumerci definitivamente». Aggiungo.
«Certo, hai ragione. È che quest’anno… con tutte le spese che ho per il matrimonio… non potrei proprio perdere il lavoro». Mi risponde. E sembra veramente preoccupata.
«Perché dovresti perdere il lavoro? Ma cosa dici? Perché perderlo?» Replico in modo sgarbato.
«De Palco non mi apprezza. Qualunque cosa faccia, per lui non va mai bene. E poi la società non naviga in buone acque. Lo sappiamo tutti…»Replica.
«Sì, certo. Ha risentito della crisi. Ma è sempre in campo, più di altre aziende del settore».
«Hai ragione… ma quanti progetti e contratti non sono andati in porto e quanti altri non hanno ottenuto i risultati sperati. Insomma, ho paura che, in caso di tagli, noi saremo le prime a essere sacrificate. La nostra posizione è precaria e siccome i nostri contratti sono in scadenza…»
Le rispondo che ha ragione, ma che siamo precarie solo formalmente, perché il nostro è un contratto del cavolo, ma che in realtà l’azienda ha bisogno di noi e il signor De Palco non arriverebbe mai a privarsi di noi, a licenziarci. E le chiedo anche chi le abbia messo in testa tutte queste storiesui tagli, ma lei non risponde. Che stress…
«Non preoccuparti Erminia. Né tu né io saremo sacrificate. Non gira alcuna voce di tagli. Lo avremmo saputo. De Palco è quello che è, ma ce lo avrebbe detto».Concludo stremata.
Erminia sembra confortata. Gli occhi che prima le si erano inumiditi ora sembrano sereni e sono tornati a concentrarsi sul monitor del suo computer.
Nel pomeriggio ho appuntamento con un cliente importante, una persona talmente imprevedibile che ha già rinviato l’incontro e la firma del contratto tre volte. Spero che questa sia la volta buona e gli telefono.
«Sì, signorina Bruna, mi ha convinto. La richiamo in giornata per farle sapere l’ora dell’incontro. Lei intanto prepari la documentazione e io la firmo».
Quante volte ho sognato questa frase. Se fosse vero mi farebbe guadagnare una sicura promozione, tanto risonante da far invidia a Erminia e anche ai migliori collaboratori dell’azienda.
I minuti si susseguono lentamente, finché in ufficio resto solo io per aspettare il cliente. Ma all’orario convenuto non da segni di vita e mi sembra evidente che anche questa volta mi ha dato buca. “Coraggio, Bruna. Ci sarà pure un motivo se tutti lo scansano, e alla fine hanno delegato me per portare a terminela rogna”. Penso così, raccogliendo le mie cose e lasciando l’ufficio.
Sono a casa da un’ora, quando mi giunge un messaggio del cliente. È disponibile a incontrarmi subito. Devo solo raggiungerlo al più presto nel suo ufficio.
Cinque anni di rapporto clandestino con un uomo sposato, mi hanno resa capace di cogliere al volo le opportunità di incontro e di essere anche ultrarapida nel trasformare la mia mise da casa in una mise da incontro di lavoro con persone importanti.
E così, lo confesso, oltre cheuna tenace stagista, sono stata anche la tenace e stupida amante, nell’ombra, di un uomo sposato. I patti sono sempre stati chiari: lui non avrebbe mai lasciato la moglie e io non l’avrei mai tediato con certi argomenti. Maquanto ho sperato che la lasciasse. Tantoche oggi, che non sono più al suo fianco, mi sembra di non avere più aspirazionisentimentali.
All’improvviso lui ha deciso di mettere fine alla nostra relazioneperché, mi ha detto, voleva dedicarsi totalmente alla famiglia e al lavoro. Così ha detto e così, con fermezza, ha fatto.
A una spiegazione del genere, cosa potevo obiettare? Se per tanti anni sei stata l’amante di un uomo sposato, impari a fronteggiare i sentimenti, le ansie, l’impazienza e le frustrazioni che,però, sono poi tornate utili. Così ho incassato il colpo e ho cercato di andare avantimeglio che potevo, da sola. Comunque, quando ho incontrato il cliente, ha di nuovo rinviato tutto.
Sono passati i dieci giorni e oggi è, teoricamente, l’ultimo giorno di contratto da stagista, ma continuo a lavorare con serena ostinazione, certa che questa volta il signor De Palco proporrà,a me e alla mia collega, un contratto serio e definitivo.
Intorno alle sei del pomeriggio non è ancora successo niente e allora, prima di smontare e tornarea casa, ritengo sia giunto il momento di affacciarmi sulla porta del suo ufficio. Lui è al telefono e mi fa cenno di aspettaree io resto in piedi, parcheggiata sulla soglia. Alla fine, liquidato sbrigativamente il suo interlocutore, tenendo gli occhi bassi ed evitando di incrociare il mio sguardo, dice:
«Stavo giusto per venirti a parlare», poi aggiunge:
«Sono incavolato nero».
«Cos’è successo?» Domando.
«Siediti, Bruna». Risponde. Ma lui resta in piedi e comincia a girare intorno alla scrivania,blaterando una serie di premesse sulla stabilità dell’azienda, sulle indicazioni provenienti dalleassociate. Sulla crisi che attanaglia il settore. Tutto questo per poi giungere alla dolente verità che mi spiattella con lo sgarbo che gli è proprio e che renderebbe sgradevole anche un complimento.
«Bruna, senza tanti preamboli vengo al dunque… non possiamo rinnovarti il contratto».
«Sta scherzando?» Gli chiedo sbalordita.
«Bruna, per la società non è più tempo di tentativi e di crescita. Ci troviamo nella situazione di dover salvare il salvabile. Ho imposto tagli in tutti settori. Qui da noi ci sei andata di mezzo tu e Sorrentino».
«E Erminia?» Chiedo.
«La scelta era tra te e lei. Abbiamo salvatolei».
Dopo aver sentito quell’affermazione, penso che mi avrebbe fatto meno male un pugno nello stomaco.
«Per lei niente spending review?» Chiedo, piena di sarcasmo e rancore, mentre mi alzo in piedi e gli chiedo cosaabbia fatto di male per meritarmi un simile trattamento. Insomma perché proprio io. Perché solo io. E nella mia voce c’è un dolore disperato che percepisco come se appartenesse a un’altra persona.
«Bruna, non sono tenuto a darti tante spiegazioni sulle scelte aziendali. Il tuo contratto da stagista era in scadenza e non abbiamo i fondi per rinnovare due contratti. Avrei voluto avvisarti prima, ma fino all’ultimo ho cercato di salvare la tua posizione. Così non ho voluto allarmarti. Posso dirti, però, che la chiusura non è definitiva. Nel giro di qualche mese le cose potrebbero migliorare, cambiare, e allora…»
Io ho trentaquattro anni, una laurea con lode, un dottorato, un master costato quattro mila euro in Filologia, parlo correttamente due lingue, oltre l’italiano, enon so qualedelle tre parlo meglio. Qui ho sempre lavorato con scrupolo e passione e questo è il risultato. Il ben servito…»
Ma, invece di rispondergli questo, ovviamente, concludo con il garbo di un’educanda.
«Ho capito, grazie. Prendo le mie cose e me ne vado». Gli rispondo, ma intanto stento a trattenere le lacrime. Lasciare il luogo che ho sentito come mio per tre anni, mi provoca una lacerazione, un senso d’ingiustizia. Mi sembra tutto così surreale. L’unica consolazione che mi resta e di non avere più nulla a che fare con Erminia, che spero di non rivederla mai più.
Nello sgabuzzino ho recuperato una scatola di cartone, ci ho buttato dentro le mie cose e sono andata via, chiedendomi perché sia toccataproprio a me questa ingiustizia? Quali siano state le mie mancanze, i miei errori? Ma forse la verità è molto più semplice: comandando sempre gli altri a volte può andarti bene e a volte male, senza la possibilità di determinare l’una o l’altra cosa.
Ma intanto ci credevo e ci tenevo molto al mio lavoro. Mi piaceva e mi faceva pensare con serenità al futuro. Guardavo avanti. Ed è proprio in questo momento che sento tutta la mia frustrazione. Adesso sì, posso dirlo senza tema di esagerare, mi sento una fallita. Perché quando ti rubano i sogni, è mille volte peggio di quando ti rubano qualcosa di concreto, reale, e il mio sogno era quello di continuare a svolgere quel lavoro che mi piaceva.
Trascorso un mese, dopo quelfamigerato giorno, ho ormai consolidato nuove abitudini. E mi sorprende la rapidità con cui ciò avviene, ovvero, quanto facilmente un nuovo ritmo scalzi quello precedente.
Giro per casa con un abito di lino sgualcito. A volte lo macchio ma non m’importa, non lo cambio, lo metterà in lavatrice mia madre. Attratta dal titolo, hoacquistato anche un manuale per trovare lavoro: “Assunzione in 8 mosse”, ma io di mosse ne ho accumulate ormai così tante, più di cento, ma non ho ancora ottenuto nessun risultato. Sono ancora più disoccupata di prima e allora ho gettato il manuale nella spazzatura, assieme al rimpianto di aver speso venti euro, attinti dal mio fondo in via di esaurimento. È impressionante come il denaro diventi caduco, quando non viene più reintegrato.
In questa circostanza, per una curiosa legge di compensazione, c’è una persona che beneficia della mia sorte avversa: mia sorella Maria. Tutti i pomeriggi mi occupo io delle nipotine, e questo mi aiuta a non pensare. Le vado a prendere all’asilo, preparo loro la merenda, giochiamo assieme e guardiamo i cartoni animati fino allo stordimento dei sensi. Quando mia sorella torna a casa dal lavoro,e io ritorno a casamia,sono più depressa di prima.
«Non andrà avanti così ancora per molto, tesoro. È trascorso solo un mese, in queste cose devi avere pazienza». Mi dice mia madre, mentre mette in tavoladella verdura che costituirà tutta la mia cena, dato che non ho più appetito. Se non altro da quando ho perso il lavoro ho smaltito i chili di troppo (ma è comunque una magra consolazione).
«Solo un mese? Vedi mamma com’è strano? A me sembra sia trascorso un tempo interminabile». Le rispondo, pensando che durante il mese appena trascorso mi sono presentata, più o meno,in tutte le società nel settore commerciale ed editoriale della provincia per sperare di ottenere un colloquio. Ormai il mio curriculum è sparso per tutta la regione e anche oltre, come i volantini pubblicitari che troviamo nella cassetta delle lettere.
Finalmente domani mattina ho un appuntamento con i titolari di un’emittente televisiva. Un’opportunità che mi ha procurato mio cognato.
Indosso ilmio tailleur nero e mi reco all’indirizzo stabilito. Citofono a TV Sprint e mi apre una signora con un look da suora mancata:camicetta bianca, gilet blu, gonna altrettanto blulunga sin sotto il ginocchio; scarpe ortopediche nere. E poiché la sala in cui mi fa entrare ha le pareti tappezzate di santi, di foto di papi e vescovi, chiedo alla signora se per caso non abbia sbagliato porta, se la sede dell’emittente tv Sprint sia proprio questa.
«Si è qui, ma l’emittente è stata rilevata dalla Curia e la sigla televisiva è stata trasformata dalla nostra dirigenza in “La fede e la virtù Divina”».
Dopo una decina di minuti d’attesa, vengo ricevuta da una persona sobria e garbata, forse la più gentile che abbia incontrato negli ultimi mesi. Sfoglia il mio curriculum e intanto mi parla della programmazione, del palinsesto e di quello che dovrei fare io. Insomma tutto sembra andare per il verso giusto, fino a quando la signora, sempre in piedi accanto al direttore, mi espone la necessità di un ultimo requisito, assolutamente necessario per la mia assunzione.
«È una pura formalità. Ma vede, monsignor Villarosa, il presidente della nostra emittente, vuole che ogni dipendente, prima di essere assunto,alleghi,assieme al curriculum, le referenze firmate da almeno due diversi religiosi. E sono costretta a farle presente che abbiamo una certa fretta perché, vede, c'è un'altra persona in lizza per lostesso posto».
Le rispondo di aver capito e assicuro che al più presto le farò averetutta la documentazione richiesta, comprese le referenze. Saluto e corro a casa per parlare con mia madre.
«Ma mamma, non è possibile che non conosciamo nessun prete». Malei scuote la testa.
«Niente di niente? Nemmeno indirettamente? Non so, quelloche mi ha battezzato, magari?» Chiedo.Ma lei risponde che a quest’ora quel pretesarà già morto da un pezzo, eio rischio di perdere anche quest’ultima opportunità. Dove li trovo,in pochi giorni, due religiosi che fingano di conoscermi e scrivano magnanimamentebene sulle mie osservanze cristiane?
Come prevedibile, non ho trovato uno straccio di tonacadisposta a rilasciare le mie referenze e pertanto il posto è andato a quell’altro pretendenteeio non piango per decoro.
Ho bisogno di lavorare: E non solo per i soldi, ma soprattutto perché ogni mattina mi sento sempre più smarrita e vuota.
Oggi ho camminato per ore e senza meta enon so nemmeno più in quale via mi trovo. Mi giro efinisco per imbattermi in una vetrina che espone abiti per bambini e penso che potrei fare un regalo alle mie nipotine. Dopo aver aperto la porta e sentito un tintinnio di campanello, leggo un cartello: “Cercasi aiutante”. Senza sapere cosa dire, né come dirlo, timidamente chiedo: Sta cercando un aiuto?
La signora mi risponde di sì e mi chiede se ho esperienza di cucito, di ricamo o di vendita al dettaglio, e io sono costretta a scuotere la testa e a risponderle di no.
La mattina successiva, accendo il cellulare e trovo un messaggio. È del signor De Palco che mi convoca urgentemente nel suo ufficio.
Quando mi riceve dice che ha poco tempo.
«Non ti chiedo di sederti perché purtroppo ho fretta. Devo uscire». Insiste.
Poi prosegue dicendomi che, come mi aveva anticipato,è rimasto profondamente dispiaciuto per quello che mi è capitato, ma chefinalmente è riuscito a ottenere per me un contratto a progetto della durata di sei mesi, rinnovabile e con un gettone mensile di seicento euro.
Malgrado non desideri altro che mandarlo al diavolo per l’ingiustizia che sento di aver subito, gli sfodero un sorriso di circostanza e gli dico che accetto. Perché a questo punto a me basta anche uno straccio di lavoro, per sentirmi bene e tornare finalmente serena.
 



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